Camera Obscura

L’uomo meccanico. Torna la fantascienza futurista degli anni Venti

Quando un ente come la Martin Scorsese Film Foundation dichiara che quasi il 90% dei film prodotti durante l’età del muto è perduto, è difficile non pensare al presente come a una struttura edificata sui frammenti, soprattutto se, a rincarare la dose, ci pensa la Library of Congress, stimando perso per sempre il 75% di tali pellicole. Al danno si aggiunge la beffa, al pensiero che la maggior parte di queste perdite sia dovuta a film intenzionalmente distrutti, per fare spazio al progresso o per scarsa lungimiranza.
Fortunatamente, succede talvolta che la fortuna, il caso o l’estenuante ricerca porti alla riscoperta di uno di questi frammenti, rimettendo spesso in discussione il presente. È successo circa un anno fa col ritrovamento e il restauro di Something Good – Negro Kiss (1898), che in soli 29 secondi ha ricollocato il primo bacio cinematografico tra una coppia di afroamericani o, parlando del cinema nostrano, con L’uomo meccanico (1921), col quale la settima arte sancisce uno dei suoi primissimi combattimenti tra robot.

La locandina originale di “L’uomo meccanico” (1921)

Asimov, che di «uomini meccanici» ne sapeva parecchio, sosteneva che un giorno le macchine «potrebbero diventare così intelligenti da riuscire a sostituirci», e aggungeva, col solito acume e un tocco di cinismo, che «visto il curriculum dell’umanità, potrebbe essere una buona cosa». Ma quando i robot non possedevano ancora cervelli positronici e leggi appositamente formulate per gestirli, le macchine erano meri strumenti nelle mani degli uomini, da esse manipolabili, non sempre a fin di bene. Non è un caso che il termine stesso derivi dal ceco robota, ovvero lavoro forzato, caratteristica che accomuna questi esseri senz’anima allo zombi originario, il disgraziato della tradizione haitiana al quale un malvagio bokor ha sottratto parte dell’anima, per costringerlo alla schiavitù.
Il robot de L’uomo meccanico, nelle mani della perfida Mada, non è che questo, uno schiavo al servizio del male grazie al quale la ladra, una volta evasa dal carcere, riesce a seminare il terrore. Certo, lo zombi ha origini magiche e il robot tecnologiche, ma è altrettanto vero che, per tornare a un maestro della fantascienza come Arthur C. Clarke, «ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia». Ed è probabilmente come a un atto stregonesco che gli sventurati protagonisti del film guardano al robot, soprattutto quando questi inserisce il braccio nello squarcio di una porta blindata per sganciare il catenaccio che la chiude dall’interno, o quando, con lo stesso terrore, i partecipanti a una festa fuggono dal salone a cui il mostro meccanico accede con semplicità, sfondando l’ingresso. A poco servono, in questi casi, le armi comuni, poiché per sconfiggere quell’ammasso di ferraglia è necessaria una tecnologia altrettanto evoluta e la creazione di un secondo robot.
Questo, per sommi capi, quel che resta della trama di una pellicola sorprendente, non solo per gli effetti speciali e le anticipazioni sui grandi classici del futuro, ma anche per le soluzioni narrative, come quella dei flashback attraverso cui, in un montaggio alternato, si racconta l’intelligente fuga di Mada, mentre il detective assegnato al caso ne legge l’astuto piano di evasione. Come ci spiega del resto Carmen Accaputo della Cineteca di Bologna: «Luomo meccanico è un film d’avventura di ambientazione quasi futurista, che mescola il film comico con la fantascienza, offrendo un rarissimo esempio della creatività visionaria del tempo e inserendosi perfettamente nella concezione futurista degli anni Venti del Novecento, che esalta la modernità, la forza e la velocità».

Un fotogramma del film

Scritto, diretto e interpretato da André Deed (noto in italia per il personaggio comico di Cretinetti), L’uomo meccanico è una produzione italo-francese unica nel suo genere, da una parte perché lontano dalle tendenze di un’epoca caratterizzata da diva-film e peplum storico-mitologici, dall’altra perché prodigioso esempio delle abilità del tempo, sia in termini di originalità che di messa in scena. Da ringraziare è la Cineteca di Bologna, che negli anni ‘90, durante un importante lavoro di ricerca e restauro sul cinema muto italiano, ritrova negli archivi della Cinemateca Brasileira di Sao Paulo un gruppo di circa 70 film di produzione italiana, realizzati tra gli anni Dieci e gli anni Venti. Come del resto torna a spiegarci Carmen Accaputo: «Non era una cosa rara che copie di tali film si trovassero in Brasile: il cinema italiano dell’epoca era molto popolare in tutto il mondo, soprattutto in Sud America, dove una folta presenza di emigrati trasferiti oltreoceano favoriva l’esportazione di film che rappresentavano un divertimento popolare e rinsaldavano il legame degli emigranti con la loro terra di origine. Grazie alla collaborazione tra le cineteche aderenti alla FIAF (Federation Internationale des Archives du Film), la Cineteca di Bologna riesce a fare rientrare in Italia il pacchetto di film: si tratta di copie d’epoca, in nitrato di cellulosa, alcune delle quali preziosissime, in quanto copie uniche esistenti al mondo». Il film, che giunge a noi incompleto (740 metri di pellicola sui 1821 originari), non è però che il frammento di un frammento, se solo si pensa al progetto originale, ovvero una trilogia mai completata nella quale L’uomo meccanico doveva essere il secondo episodio. Del primo, L’elemento umano, non resta nulla; del terzo, Gli strani amori di Mado, mai nulla fu realizzato.

Gli Earthset sonorizzano dal vivo “L’uomo meccanico”

Oggi, a quasi vent’anni dal suo restauro, la pellicola rinasce nuovamente, andando a colmare quel vuoto che riempì il cinema fino a quel fatidico 1927, quando, a costo di vite e carriere stroncate, il progresso diede una svolta alla settima arte, aggiungendo al movimento la parola. Nell’età del muto le proiezioni erano quasi sempre accompagnate da musicisti che ne interpretavano le atmosfere, ma mai si poteva parlare di una reale colonna sonora. Sono i bolognesi Earthset a offrirne una alla pellicola, annunciandone la pubblicazione per il 31 gennaio 2020. L’album, che porta lo stesso titolo del film (in uscita per Dischi Bervisti/Koe Records), si presenta come una lunga suite senza soluzione di continuità in cui la band esplora e approfondisce gli elementi più sperimentali della sua produzione, passando dal post rock alla psichedelia, e a cui va ad aggiungersi, come ci spiega il responsabile della sonorizzazione Ezio Romano, «un lavoro di ricerca sulle avanguardie musicali del periodo, l’uso di scale esatonali e dodecafonia». La band, che già più volte ha sonorizzato dal vivo il film, tornerà a riproporlo così nelle sale a partire dalla fine di gennaio, in una lunga tournée di presentazione. L’occasione perfetta per riportare alla luce un capolavoro dato per disperso e per porre il proprio nome nella storia del cinema ritrovato.