Search
Close this search box.

Un western antirazzista in Australia. Sweet Country di Warwick Thornton



Il western, più che un genere, è uno stile cinematografico: quasi uno stato d’animo, un insieme di atmosfere e situazioni che rimandano inequivocabilmente a quel mondo che tutti abbiamo in mente quando ne pronunciamo la parola. Un universo fatto di paesaggi sconfinati, personaggi buoni o cattivi – ma anche borderline, nel filone revisionista – duelli, violenza e vendette. Poco importa che il mondo narrato sia quello degli Stati Uniti, patria per eccellenza del western, o di un altro Paese del mondo: luoghi talvolta autentici, talvolta ricostruiti, ma con una precisa fisionomia narrativa.
Nella storia del cinema, ci sono numerosi esempi di film che si svolgono al di fuori degli Stati Uniti ma sono comunque classificati d’abitudine come western, proprio perché ripropongono quel quid. Ci sono innumerevoli western ambientati in Messico o in Canada, ma anche fuori dal continente americano. Questo avveniva fin dal periodo classico, quando Henry King ambientava Carovana verso il Sud in Sudafrica, e William Castle mandava Glenn Ford in Brasile ne L’americano. L’epoca del western all’italiana ha dato origine a un vero e proprio filone di pellicole ambientate fuori dagli States – ricordiamo le migliori, O’ Cangaceiro, con un Tomas Milian rivoluzionario ancora in Brasile, e la tragedia L’uomo, l’orgoglio, la vendetta, ambientata in Spagna. Uno degli esempi più celebri è poi Carabina Quigley, datato 1990, dove Tom Selleck interpretava un pistolero americano in trasferta in Australia.
E proprio l’Australia – alcuni anni dopo un altro western meno noto, La proposta (2005) – è il Paese dove è ambientato il sontuoso e particolarissimo western di Warwick Thornton, Sweet Country (2017). Presentato l’anno stesso alla Mostra di Venezia, ha impiegato un po’ di tempo per arrivare da noi, ma finalmente ci ha pensato la 102 Distribution a farlo uscire il primo aprile on demand su Amazon Prime Video. Sweet Country è un film duro e scomodo, un western impegnato e dalla forte connotazione antirazzista: australiano non solo nell’ambientazione, ma anche nella produzione, nella regia e nelle location, dunque una pellicola marcatamente etnografica. Il western, in particolare tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, con pietre miliari quali Soldato blu e Piccolo grande uomo, si è connotato più volte come un genere militante contro il razzismo: di frequente riguardo gli indiani, più raramente riguardo ai neri. La tematica è scottante e sempre attuale, ma il più bel western sulla schiavitù afroamericana è arrivato solo nel 2012, con il Django Unchained di Quentin Tarantino. Ed è presumibilmente a questo modello che Thornton ha guardato per dirigere il suo Sweet Country, nonostante vi si discosti notevolmente in quanto a stile e narrazione.

La vicenda è ambientata nell’Australia del Nord, nel 1929, e ha come protagonista il cowboy aborigeno Sam (Hamilton Morris): nonostante nel Paese ci sia ancora la schiavitù, Sam conduce una vita abbastanza tranquilla insieme alla moglie Lizzie e alla nipote, poiché lavora presso Fred (Sam Neill), un proprietario terriero progressista e timorato di Dio – liberal, diremmo oggi. Quando però viene prestato per qualche tempo a un altro ranchero, crudele e razzista, le cose cambiano: il despota prima violenta la donna, poi si reca armato nella casa di Fred accusando l’aborigeno di dare rifugio a un altro schiavo fuggito. Sam imbraccia allora il fucile e uccide l’uomo per legittima difesa, dopodiché si dà alla fuga insieme alla moglie – poiché all’epoca la legge non riconosceva ai neri la legittima difesa. Sulle loro tracce si mette una posse di cinque uomini guidata dal sergente Fletcher (Bryan Brown), ma l’indigeno riesce a seminare gli inseguitori, fino a quando è costretto ad arrendersi poiché la donna è incinta e non può più proseguire. Sam decide così di consegnarsi alle autorità e sottoporsi a un processo.

Sweet Country è tratto da una storia vera – l’omicidio di un bianco per mano dell’aborigeno Wilaberta Jack, arrestato e processato negli anni Venti – e Warwick Thornton, come trapela dalle sue stesse affermazioni, utilizza un genere facilmente fruibile e popolare come il western per parlare al pubblico, immergerlo nella storia e affascinarlo, e per fargli comprendere con una vicenda appassionante i problemi che un popolo occupato si trova ad affrontare. Sweet Country non è semplicemente una traslazione della questione afroamericana in Australia, ma un sentito j’accuse con cui il regista ha ripreso il tema (poco trattato) della condizione passata e presente degli aborigeni australiani, cercando di rivendicare sullo schermo la storia di un popolo sopraffatto e vinto, ma non nell’orgoglio.

Sono stati fatti, in parte anche a ragione, dei confronti fra l’opera di Thornton e Django Unchained, ma le similitudini si fermano alla denuncia della schiavitù dei neri, poiché il film in questione è quanto di più diverso possiamo immaginare rispetto allo stile pulp e roboante di Tarantino – ma anche rispetto alla spettacolarità di Carabina Quigley, nonostante abbia in comune la lotta fra bianchi e aborigeni. Sweet Country è infatti un dramma/western lento e straniante, dove si spara pochissimo, con le atmosfere rarefatte e i dialoghi inframmezzati da lunghi silenzi, insieme a squarci di violenza improvvisa, ed è praticamente senza colonna sonora, fino alla ballata in stile country che accompagna i titoli di coda. Ci sono tutti, o quasi, i canoni del genere, come gli sconfinati paesaggi della Frontiera, i proprietari terrieri, i soldati e i soprusi sui nativi, ma è un film che vuole distanziarsi da ogni afflato spettacolare. Non ci sono climax di tensione, eppure la storia non ha un attimo di cedimento, tutta ambientata fra paesaggi semi-desertici, fattorie e un villaggio dove ci sono soltanto il saloon e alcune baracche. I tempi lenti ricordano per certi versi i due acid-western di Monte Hellman, La sparatoria e Le colline blu, ma qui non si vuole creare nessun effetto surrealista, bensì un crudo realismo supportato da una messa in scena certosina. La storia non è mai banale, è ricca di personaggi e comprimari, tanto che l’omicidio scatenante avviene soltanto dopo circa mezzora, per poi proseguire con un lungo viaggio ricco di vicissitudini e infine concludersi con il processo. Il film è ricco di sequenze propedeutiche a quanto deve accadere ma mai fini a se stesse, dialoghi pregnanti, scene di presentazione dei personaggi, inquadrature pittoriche ed espedienti narrativi come lo scontro con la tribù di indigeni. E la regia è particolarmente ispirata da guizzi di creatività. Per esempio, la scena dello stupro è girata interamente nel buio della casa, per cui non vediamo niente, sentiamo solo le urla dell’uomo e della donna; una violenza stilizzata a cui si oppone una violenza ben visibile in alcune scene dove il sangue scorre in abbondanza – l’omicidio del crudele Harry per mano di Sam, e la beffarda morte dello stesso Sam per mano ignota, dopo che era stato assolto al processo – ma anche più semplicemente nei primi piani iconici sul protagonista con le catene al collo, o sul ragazzino incatenato a una pietra. Una cifra stilistica di Sweet Country è anche l’uso reiterato di brevi flashforward, inseriti tramite rapidi stacchi di montaggio fra un’inquadratura e l’altra, e che mostrano il futuro dei personaggi – il soldato colpito a morte, la ragazzina col volto insanguinato: indizi quasi subliminali, che troveranno poi la quadratura del cerchio col procedere della storia.
Sweet Country è sontuoso anche dal punto di vista estetico: supportata dai meravigliosi paesaggi australiani, fra montagne, praterie e deserti, la splendida fotografia curata dallo stesso Thornton dipinge tableaux vivants che ricreano scenari da vero western, e che non sfigurano accanto ai classici del genere. Inquadrature raffinatissime e di ampio respiro dipingono lande immense e desolate, coi toni pastellati color ocra opposti al bianco abbagliante del deserto, e danno vita a scene che sembrano uscite da certi quadri di Remington.

Sebbene uomini di colore siano stati spesso al centro di film western come protagonisti, il tema della schiavitù degli afroamericani non è quasi mai riuscito ad attecchire nel genere, salvo alcune eccezioni quali Non predicare… spara! e Posse, a meno di non farvi rientrare anche pellicole come il classico Mandingo o il recente The Birth of a Nation, ma sono film che escono quasi totalmente dai canoni. Per questo, così come Django Unchained è un film rivoluzionario per aver trasposto nel western il tema del razzismo verso i neri,anche Sweet Country è un’opera a suo modo epocale: perché è sia un film personale e inedito, in quanto girato da un nativo australiano e dunque particolarmente legato alla storia del proprio Paese, sia un pamphlet universale contro ogni forma di discriminazione razziale, narrato con grande forza narrativa e visiva. Non è soltanto un magnifico western revisionista, ma anche un potentissimo dramma sociale e umano, ambientato quasi un secolo fa, ma purtroppo sempre terribilmente attuale.

categorie
menu