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The Beatles. Get Back. E Così Sia



I’ve got a feeling / A feeling I can’t hide (Ho una sensazione / Una sensazione che non riesco a nascondere). Questi i versi di una delle più belle canzoni dei Beatles, scritta e cantata da Paul McCartney nel corso di quell’ultimo anno avventuroso, movimentato, denso di avvenimenti, tra il ritorno dall’India nell’aprile del 1968 e le registrazioni dell’ultimo album registrato insieme dalla band di Liverpool, Abbey Road, concluse nell’agosto 1969. Perché sarebbe impossibile parlare di Beatles e del film apparso in streaming su Disney+, con tre episodi per oltre sette ore di visione, curato da Peter Jackson nel corso di lunghi anni di lavoro con sotto gli occhi 57 ore di riprese per un film mai realizzato (come lo volevano i Beatles), con 157 ore di registrazioni audio per un album mai realizzato (come lo volevano i Beatles) usciti nel 1970 sotto il titolo di Let It Be.
E per raccontare questo Get Back, epocale documento non solo per la storia della musica ma per quella della cinematografia biopic musicale, piuttosto che documentaristica, è necessario contestualizzare cosa accadde ai Beatles dopo l’apice raggiunto con Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (pubblicato nel giugno 1967). Prima muore il loro manager, Brian Epstein. Poi loro quattro restano senza una guida, rappresentata in studio e discograficamente da George Martin, ma in un music biz in rapido mutamento. Ecco che nel gennaio 1968 Harrison, Lennon, McCartney e Starr decidono di fondare la Apple Corps. Non solo la loro etichetta discografica, ma un vero sogno come altri ne esistevano in quel periodo: sogno di libertà e indipendenza artistica, sogno di poter finalmente raccogliere pienamente i frutti finanziari di una discografia all’apice delle vendite mondiali, sogno di dare spazio a nuove iniziative. Sogno che, venendo da un marchio come quello dei Beatles, avrebbe potuto fare la differenza se fosse stato però gestito come un’azienda, più che una sorta di comune dove in troppi potevano andare e venire risucchiando risorse non proprio per reali meriti artistici.

Così nel febbraio 1968 e fino ad aprile i quattro vanno in India. Per tre mesi entrano in contatto con una cultura che era stata rivelata loro da George Harrison, meditando e scrivendo canzoni: trenta di queste canzoni tra la tarda primavera e l’autunno diventano The Beatles, conosciuto come The White Album, uscito il 22 novembre 1968. In un anno la band colorata del Sergente Pepe non esiste più: la velocità supersonica con la quale dal 1967 al 1969 i Beatles affrontarono l’accelerazione creativa e centrifuga della loro piccola navicella musicale resta qualcosa di raro nella storia della musica popolare: «Ogni volta che tornavamo in studio era come lavorare con un gruppo diverso. Avevano sempre tantissime idee e toccava a me realizzarle con loro. Erano come degli alieni che ogni tanto venivano a farmi sentire cosa avevano scoperto e poi tornavano al loro viaggio in un mondo sconosciuto» mi disse George Martin, il loro produttore, durante un’intervista che facemmo ad Abbey Road anni fa (tratta dal volume Attraverso Le Terre Del Suono, la trovate tutta QUI). E questa è la nettissima sensazione che ho ogni volta che li ascolto. La sensazione che non riesco a nascondere che anche Get Back – soprattutto Get Back – sia un documento cinematografico inutile e impossibile da descrivere, se non didascalicamente, non rendendogli giustizia. Ma proviamoci.

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Era il gennaio del 1969 (ricordiamolo: un anno dopo la nascita della Apple, nove mesi dopo essere tornati dall’India, due mesi dopo avere terminato The White Album). I Beatles sono ancora senza una guida che gestisca il loro immenso ruolo nel mondo della musica. La Emi, dal punto di vista discografico, si preoccupa di avere da loro materiale sempre nuovo da pubblicare. I quattro ragazzi di Liverpool, da sempre grandi artigiani della musica (prima il talento cristallino, poi una grande capacità di lavorare duramente alle canzoni, che infine vengono cristallizzate nell’eternità lavorando con l’insostituibile Martin), accettano un’idea di Paul: tornare a essere un piccolo gruppo di rock’n’roll, suonare insieme dal vivo in uno studio, completare alcune canzoni, scriverne altre, tornare dopo tre anni davanti a un pubblico per un concerto, pubblicare un album dal vivo, realizzare un film: chiudere un cerchio, insomma, per tornare a essere quella “cosa” che però non sono più. Dopo sette anni vissuti alla velocità della luce (con undici album alle spalle!) la lunga strada tortuosa li ha messi però al crocevia dell’età adulta: questo vediamo in Get Back, nome del progetto (e della famosa canzone) che non va secondo i piani semplicemente perché i quattro, pur vivendo un legame fortissimo, umano e artistico, ora sono su livelli differenti di percezione e necessità espressiva artistica. Ma l’amore è ancora forte.

Quel giovedì, il 2 gennaio 1969, quando si trovano in un desolato capannone vuoto dei famosi Twickenham Studios, tempio della cinematografia britannica, da subito mettono la loro intimità umana e artistica davanti a sette telecamere guidate dal regista Michael Lindsay-Hogg, affidando al fonico Glyn Johns e alla crew minima dei Beatles. È questo che non va mai dimenticato vedendo il film: è vero, i Beatles amavano gli obiettivi e le telecamere, che a loro volta amavano i Beatles. Ma è anche vero che la storia scritta dal film Let It Be, montato con estratti da queste 57 ore mezzo secolo fa, è stata una storia tramandata con tanti, troppi buchi. Era la storia di una fine che invece Get Back riesce a sospendere, perché quello che ci lascia questo film è ben altro: qui vediamo i Beatles in realtà capaci di evolversi nelle loro rispettive dimensioni musicali individuali. Li vediamo discutere, scherzare, affrontare a cuore aperto le questioni che qualsiasi partnership professionale pone. Sono i media ad appestare la storia artistica, andando sempre a cercare il conflitto, tralasciando volutamente di raccontare che il conflitto è necessario all’evoluzione della vita stessa, quindi anche dell’arte. Conflitto fatto però di rispetto, come quello che appare in alcuni passaggi di Get Back.

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Frame tratti da Get Back

Ma qui c’è molto altro. Get Back è una lezione di umiltà e di empatia, di connessioni che a volte si perdono, ma che non travalicano mai il senso del rispetto. E la grandezza delle loro canzoni appare chiara anche in quell’album del 1970 assemblato senza la band da Phil Spector, che si prese alcune libertà non proprio apprezzate soprattutto da McCartney, Let It Be: album che per molti, me incluso, è sempre stato difficile ascoltare come tale e che adesso invece riceve la luce che gli era sempre stata negata. Anche perché su quell’album appaiono canzoni di levatura inarrivabile: Get Back, I’ve Got A Feeling, Let It Be, The Long And Winding Road, Two of Us, Across The Universe per chiunque sarebbero un Best Of, per i Beatles “in crisi”, semplicemente sei canzoni appartenenti a un periodo (alle quali va aggiunta Don’t Let Me Down, capolavoro lennoniano uscito come lato B (!) del singolo Get Back nel 1969 e provata, nonché registrata, in quelle settimane).

Get Back si può godere in streaming da fine novembre. A giorni di distanza, nello scrivere queste righe, mi sembra ancora di essere appena tornato da un concerto mai avvenuto, concerto che non è l’emozionante e breve esibizione live realizzata l’ultimo giorno sul tetto della Apple a Londra, davanti a passanti sbigottiti, ma tutto ciò di cui facciamo esperienza in queste sette ore che si espandono fino a perdere l’aspetto del tempo per assumere quello dello spazio artistico, perché chiunque ha diritto al proprio concerto dei Beatles, in questa esperienza visiva e sonica che sembra fatta su misura per ogni persona che decide di salire a bordo verso un orizzonte nuovo capace di dimostrare che prima di tutto serve amarla, l’arte, per poterla praticare: «Amore è una parola fondamentale nel mondo Beatles. Quei quattro ragazzi facevano tutto per amore della musica. Non per soldi ma perché ci credettero sino alla fine» mi disse Martin in quell’intervista. E Get Back è la conferma che con i Beatles esiste, sempre, un prima e un dopo.  

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