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Reinas. Crescere tra arrivi, partenze e crisi economiche

Il terzo lungometraggio della regista peruviana Klaudia Reynicke guarda al cambiamento delle dinamiche sociopolitiche e familiari attraverso lo sguardo di due ragazzine

La famiglia come fonte primaria del narrare è la costante del cinema di Klaudia Reynicke, regista peruviana naturalizzata svizzera che nelle sue opere mette in relazione il sentire intimo dei personaggi con la grandezza risonante di eventi che non possono essere cambiati, ma che alterano lo scorrere della normalità quotidiana. Dopo Il nido e Love me tender, la regista torna alla sua terra d’origine con un film che è un coming of age nel bel mezzo della crisi economica peruviana dei primi anni Novanta. Reinas è, infatti, la sua opera più personale che, dopo aver ottenuto consensi e premi al Sundance, Berlino e Locarno, arriva nelle sale italiane il 15 maggio grazie a Exit Media.

Lima, estate 1992, le sorelle Aurora e Lucìa (Luana Vega e Abril Guirinovic) stanno per lasciare il Perù alla volta del Minnesota insieme alla madre Elena (Jimena Lindo), quando il padre Carlos (Gonzalo Molina), dopo una lunga assenza, irrompe nelle loro vite. Carlos cerca di riconquistare l’affetto e la fiducia delle figlie, dando così loro la possibilità di rivalutare desideri e priorità.

Reinas

Per le protagoniste, un’adolescente e la sorellina minore, lasciare Lima corrispondere al perdere tutto ciò che si conosce e si ama, nonna, amici, fidanzatino, tradizioni, lingua, per ritrovarsi e ripensarsi in un paese straniero che non offre loro allettanti prospettive, in quanto incapaci di vivere al di là del loro presente. L’America è, al contrario, la grande occasione per la madre che, in quanto adulta, lotta per sfuggire alla miseria e alla paura di un regime che controlla aspramente e limita la libertà. Ed è così che, anche senza l’intromissione della figura maschile, la prima spaccatura è segnata dalla differenza anagrafica. I blackout e il coprifuoco notturno vengono percepiti dalle ragazze come delle anomalie, proprio come lo scarseggiare di alcuni beni di primaria necessità, ma, appartenendo loro alla piccola borghesia, risuonano come echi di un pericolo lontano. Carlos, apostrofato dalla nonna e dai parenti come “morto di fame” e dai conoscenti come El loco, rappresenta l’irruzione di una presenza aliena in un microcosmo felice, funzionante e già proiettato altrove. Carlos deve firmare i documenti di viaggio perché le figlie possano lasciare il paese e ha tre settimane per farlo, le stesse che gli restano per poter rientrare nelle loro vite, per chiedere perdono e farsi accettare anche al prezzo di raccontare bugie che lo rendano più interessante di quanto non sia.

Reynicke, che lasciò il Perù all’età di dieci anni – la stessa della sua piccola Lucìa – racconta con dolcezza e tenerezza i contrasti di un paese in estrema difficoltà, lascia nascere e fluire i desideri e poi le prese di coscienza delle sue protagoniste che in principio sono bambine, ma che, con gli imprevisti e le difficoltà del quotidiano, si trovano a dover crescere e lasciarsi alle spalle il gioco e il divertimento fine a se stesso, fino a scontrarsi con la realtà che credevano lontana. Raccontare il Perù attraverso la storia piccola e comune di una famiglia qualunque è la grande forza di Reinas, che, instancabile, alterna linguisticamente e metaforicamente una visione del dentro e del fuori le mura domestiche. Due sguardi incompatibili che ricalcano quello della madre e quello del padre, l’uno sicuro e stretto alle tradizioni, l’altro spericolato e ribelle, spinto verso un confronto continuo con la crisi, la povertà, i compromessi e gli espedienti poco lusinghieri, a cui giungere per poter avere una seconda possibilità. Il punto di vista di Aurora e Lucìa fa da collante tra i genitori e, nella sua purezza e innocenza di piccole donne che iniziano ad affacciarsi alla vita adulta, condanna le “debolezze” genitoriali provando a far prevalere la loro volontà, acerba e traballante, pronta ad inciampare e cadere a terra nel buio di una notte pericolosa e armata.

Reinas

Klaudia Reynicke possiede il grande dono di saper smussare gli angoli dei conflitti interiori senza minimizzarli, lavorando sull’emotività che trasmettono, uno sguardo, una carezza o un nomignolo – reinas è come affettuosamente Carlos chiama le sue figlie –, indugiando con la macchina da presa su quel dettaglio, donandogli il potere di risuonare e sedimentarsi nel cuore dello spettatore che si affeziona alla dirompente semplicità di appuntamenti dell’ordinario che segnano le svolte delle vite dei protagonisti. Gli sforzi di Carlos che serve la colazione nel tentativo di ritrovare un posto e un ruolo che non ha più, i patti di segretezza di due bambine che si credono pronte ad essere adulte e le fughe nel buio del blackout per cambiare il proprio destino sono un’affettuosa possibilità di ribaltare ciò che è deciso. E se anche questo non avvenisse, l’importante è essersi aperti, aver dato continuità e coesione a quell’alternanza di sguardi incompatibili, ammorbidendo – come fa la regista nella sua costruzione filmica – l’astio e l’ottusità, verso una pluralità di ipotesi non definitive e categoriche. Il futuro sarà incerto ovunque, più semplice da affrontare con la serenità nel cuore.

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