Camera Obscura

Phenomena(le): un ricordo di Daria Nicolodi



Le ricordiamo ancora tutti le sue grida, strazianti e superflue, nell’epilogo di Tenebre, dopo che involontariamente trafigge a morte con una scultura lo scrittore omicida Anthony Franciosa. Così come le premurose e ambigue movenze di Frau Brückner, vicedirettrice del collegio femminile svizzero in cui è iscritta la giovane protagonista di Phenomena (parte mai particolarmente amata, tanto da ritenerla “reazionaria”). E sette anni prima in Suspiria, di cui è autrice del soggetto e co-sceneggiatrice, già le toccano i panni di assassina, seppur indirettamente, doppiando Lela Svasta che incarna Helena Markos – e dove recita pure, in un ruolo minore. Ma se in Inferno è Elise De Longvalle Adler, la contessa malata destinata a un’atroce fine, risulta impossibile non menzionare la sua prova tuttora più ricordata: quella di Gianna Brezzi, autoironica giornalista che aiuta il pianista jazz David Hemmings in Profondo rosso; ed è altrettanto impossibile fare il nome di Daria Nicolodi senza accostarlo a quello dello storico partner, lungo un sodalizio pluridecennale, personale e artistico.

Daria Nicolodi
Daria NIcolodi in Profondo rosso

Ma anche senza virare su un terreno collettivo quanto ineludibile, il volto della Nicolodi rientrerebbe comunque, in qualità di scream queen, nel genere orrifico di culto, ripensando a quello Schock Transfert, Suspence, Hypnos firmato a quattro mani da Bava padre e figlio, e alla Dora Levi preda d’inquietanti reminiscenze spettrali che in una spirale d’ossessiva follia la inducono a gesti efferati. Non per niente, gli stessi Bava trovano in lei l’ideale Clara De Peyhorrade de La Venere d’Ille, tratto dall’omonimo racconto gotico di Prosper Mérimée e girato per la miniserie tv I giochi del diavolo; e sempre con Lamberto figura nel cast de Le foto di Gioia, thriller softcore della seconda metà degli anni Ottanta, nella serie Turno di notte e, per la rassegna Alta tensione trasmessa solo dopo dieci anni, ne Il gioko. Tuttavia, l’ambigua fisionomia di Daria la induce in enigmatiche vesti come quelle di Silvia Hackett, padrona della “Casa del Sol” nel travagliato (e sfortunato) Paganini Horror, scritto, tra molte difficoltà, insieme all’amico Luigi Cozzi che lo dirige. È nel cast de La setta di Michele Soavi e ancora, eterna musa per Argento, in Opera è l’agente teatrale Mira ed Elisa Mandy ne La terza madre, capitolo che sigla – un po’ fuori tempo – la saga de Le tre madri. Nulla di sorprendente se l’assortito bagaglio filmografico concilia col grande interesse dell’interprete-autrice per l’occulto, ribadito da una delle ultime apparizioni, per giunta una sensitiva, nel televisivo Il mostro di Firenze.

Senza contare che l’etichetta di dark lady sarà costante oggetto di omaggi ed emulazioni, in primis da parte della secondogenita Asia che affianca numerose volte (l’esordio avviene per Sogni e bisogni di Sergio Citti, insieme a Maurizio Nichetti protagonista, nell’episodio Il ritorno di Guerriero), concedendo pure qualche cameo, in Viola bacia tutti di Giovanni Veronesi (qui il suo personaggio, ironicamente, si chiama Sibilla) e nell’opinabile Scarlet – Diva, primo lungometraggio registico della figlia (in un flashback sull’infanzia traumatica dell’attrice, Daria è ovviamente la madre). Ed è Asia – nel congedare la genitrice, stroncata da un infarto a settant’anni – a riservare un pensiero toccante di punto di riferimento ormai perduto, cui non resta che sopperire come aria. Nella stragrande quantità di analoghi casi, dove il mistero della finzione si coniuga con l’inquietudine del reale, anche la Nicolodi conosce da vicino il dolore (la scomparsa della primogenita Anna, avuta dalla relazione con lo scultore Mario Ceroli), e nel privato è persona discreta e riservata («Interviste? Ne ho date nove in tutta la vita», diceva), pur non disdegnando partecipazioni sui social network dove si mostra affabile e disponibile (chi scrive l’annoverava tra i contatti di Facebook, senza mai aver avuto il coraggio d’interagirci).

Daria Nicolodi
Daria Nicolodi e la figlia Asia Argento

Non si dimentichi che la sua eclettica carriera comprende il teatro insieme all’altrettanto compianto Gigi Proietti, col quale, sotto la direzione di Luigi Magni, recita nel musical La commedia di Gaetanaccio – soppresso a causa di argomenti troppo espliciti e scandalosi, inerenti l’epoca papalina del Quattrocento – e persino incide Tango della morte, brano di traino dello spettacolo. Non è questa, però, l’unica censura che Daria conosce, s’è vero che otto anni prima l’eversivo varietà tv cui prende parte, Babau scritto da Paolo Poli e Ida Omboni, è presto archiviato dalla RAI a causa di contenuti ritenuti per l’epoca offensivi. E a proposito di scelte controcorrente, non si può non segnalare l’incontro con Carmelo Bene che la vuole in Salomè («Uno dei pochi con cui era bello fare “nottata”: tanto amico che mi mise nei titoli, anche se non era vero perché durante le riprese io ero impegnata in teatro»), in un mare magno di prove per il piccolo schermo spazianti dagli sceneggiati I Nicotera e Saturnino Farandola a L’ispettore Coliandro, passando per il giallo Ritratto di donna velata e, nel ruolo di Margherita Barezzi, il biografico Verdi.

«Vorrei che noi donne fossimo abbastanza mature per far sentire una voce diversa, per timbro, musica e parole», secondo un suo aforisma, «diverse ma presenti». Sicché, senza limitare il ricordo al genere col quale verrebbe maggiormente facile identificarla, l’occasione torna buona per menzionarne la sensibilità d’interprete impiegata da autori di cartello: da Francesco Rosi, che in Uomini contro la fa debuttare come crocerossina, a Ettore Scola (nel cui Maccheroni è l’efficiente segretaria di Jack Lemmon), dal citato Citti a Cristina Comencini, a Mimmo Calopresti. Eppure, nel ripensare alla donna-oggetto che Elio Petri le regala ne La proprietà non è più un furto, a tutt’oggi mette i brividi la libertina sfrontatezza con cui quelle grottesche vesti, presentandosi a gambe larghe nel totale d’un buio raggelante, tacciano lo spettatore d’esser egual vittima, per quanto indifferente, d’un consumismo che condanna tutti a essere una cosa – anzi, «tanti pezzi de ’na cosa». Un corpo multistrato, dietro l’apparenza di figura altrove emaciata e cerulea, che solo una personalità schiva può ostentare con tanta sfacciataggine. E tanta genuinità.