02.07.2025

Nella fossa del Principe. Jerzy Grotowski a Spoleto

Il 2 luglio 1967 andava in scena la sconcertante opera del regista polacco interpretata da Ryszard Cieslak, immersa in una “nausea purificatrice”


«Credo che dobbiamo dirlo e ricordarlo per un istante: l’uomo è indistruttibile, e ciò significa che non c’è limite alla distruzione dell’uomo.»
Maurice Blanchot


La rappresentazione de Il Principe costante al Festival dei Due Mondi di Spoleto dal 2 al 6 luglio 1967 fu sbalorditiva e sconcertante. L’opera, tratta da Calderon ma nella riscrittura romantica di Julius Slowacki, venne messa in scena da Jerzy Grotowski ulteriormente rimaneggiata, ridotta nel testo al martirio del principe Ferdinando. La critica, affascinata ma guardinga, parlò di “nausea purificatrice, moderna versione della catarsi posta al culmine della tragedia greca” (De Monticelli). Romolo Valli, grande attore e intellettuale di teatro, giudicò: “Qui non bisognerebbe applaudire. E quando si esce farsi il segno della croce, come sulla porta d’una chiesa”. Si trattava non “dell’avanguardia che conosciamo, spesso di riporto, carica di magnetofoni e proiettori” ma “di un gruppo di persone segnate come da un destino”.
Si presentava come una sorta di Teatro Anatomico delle antiche università. Gli spettatori (non più di ottanta) sedevano su nude panche e poggiavano i gomiti ad un alto steccato di legno (un paio di metri), che delimitava uno spazio rettangolare (“un’arena, una fossa, un pozzo?”). L’unico elemento scenico è una bassa tavola, asse per la tortura o superficie inclinata di un catafalco. Nella prima scena, un primo Prigioniero giace su questo letto rituale, dove viene simbolicamente castrato e portato a indossare un’uniforme. Un secondo Prigioniero – il Principe – guardato dagli altri personaggi come una bestia rara, sembra non reagire alla brutalità di coloro che lo circondano, vittima in pura estasi.
Il Principe indossa all’inizio soltanto una camicia bianca, ingenuo simbolo di purezza, e alla fine dello spettacolo sarà completamente nudo. L’unico altro elemento di vestiario è un mantello rosso, orifiamma, flagello, coperta, sudario.
In termini più assoluti, astratti e archetipici, il Principe è l’individuo che si oppone alla assurdità totale e incoerenza della storia, concentrando su di sé il rigore del santo avviato all’olocausto.
Il Principe è interpretato da Ryszard Cieslak, la cui performance è giudicata impressionante: “C’è qualcosa di così misterioso in lui, di così diverso. Ecco che la vittima nutre di sé gli aguzzini. Essi la santificheranno. Forse per liberarsene” (Perrelli). Arbasino parlò di una “stilizzazione spietatissima” di “molta cristologia denutrita e macilenta […]”. De Monticelli parla di una “seduta psicanalitica” che sconvolge e libera lo spettatore. Lo sguardo è affondato nel pozzo dove “le urla ritmate di Ryszard Cieslak […], che nudo lecca il pavimento” danno il ritmo alla danza dei carnefici attorno a lui, vincitore inerme, “trionfante San Sebastiano”. Taviani definisce la performance di Cieslak “un miracolo”.

Grotowski
Ryszard Cieslak interpreta “Il principe costante” a Spoleto, 1967

Si dice che negli anni Sessanta e Settanta Cieslak sia stato uno dei più grandi attori del mondo, ma che in fondo sia stato una vittima. Vittima dell’esclusività del legame instaurato con Grotowski, vittima dell’altezza irraggiungibile del proprio vertice. Dopo il Principe Costante, si ripeté ma con minore oltranza nel successivo Apocalypsis cum figuris. Poi la sua carriera di attore, sostanzialmente, finì.
A Opole, nella provinciale cittadina polacca dove Grotowski dirigeva il minuscolo Teatro delle Tredici File con il collaboratore e istigatore Ludwik Flanzsen, andavano a cercare fortuna attori considerati di terz’ordine, per i quali poteva essere conveniente cercare di mettersi in luce in un eccentrico teatrino di provincia. Cieslak arrivò senza alcuna esperienza e con in tasca un diploma da burattinaio. Eugenio Barba, anni dopo, lo descrisse così:

«Quando lasciai il teatro di Grotowski, Cieslak era un buon attore, ma che si voleva intellettuale. Era come se un grande cervello avviluppasse quel suo corpo pieno di vita, lo appiattisse. Lo rividi due anni dopo, quando presentò Il Principe costante. Sin dall’inizio, sin dai primi secondi dello spettacolo, fu come se tutti i miei ricordi, tutte le categorie sulle quali mi appoggiavo, scomparissero da sotto i miei piedi, e vidi un altro essere, vidi un uomo che aveva trovato la sua pienezza, il suo destino, la sua vulnerabilità».

Grotowski non aveva un metodo. Malgrado la nomea di “rivoluzionario”, sentiva di risalire alla tradizione di ricerca del maestro Stanislavkij, museificata dai suoi adepti, parodiata da Strasberg e dallo statunitense Actor’s Studio. Si trattava di una ricerca inesausta sul riflesso condizionato, sulla capacità di agire con la volontà sul flusso del subconscio, allenarsi a provocarlo e ad arginarlo in una possente rammemorazione prima mentale e poi fisica. Ma con una enorme differenza: se Stanislavskij cercava di giungere al teatro attraverso la vita, Grotowski cercava di giungere alla vita attraverso il teatro. In un’intervista dirà:

«Se qualcuno cerca gli strumenti del relativo nostro metodo o di qualche altro, lo fa non per disarmarsi, ma per trovare un rifugio, un porto sicuro, nel quale poter evitare l’azione che sarebbe la risposta. Questo è il punto più difficile. Per anni si lavora e si vuole imparare di più, per acquisire maggiori abilità, ma alla fine non si deve imparare, ma disimparare, non sapere come fare, ma come non fare, e fronteggiare sempre questo fare; rischiare la sconfitta totale; non una sconfitta agli occhi altrui, che non è importante, ma la sconfitta di un dono mancato, cioè un fallimentare incontro con noi stessi».

Il programma è quello di un destino già scritto, una frontiera inevitabile: fin dagli anni giovanili attirato dall’individuazione esistenziale di «una dimensione della vita che fosse radicata in ciò che è normale, organico, persino sensuale, ma che oltrepassasse tutto questo, che avesse una sorta di assialità, di asse: un’altra dimensione più alta che ci oltrepassa», Grotowski era indeciso se dedicarsi all’induismo, alla psichiatria, o alla regia teatrale. Non scelse davvero.
Da bambino lesse India segreta di Paul Brunton (1934) da cui gli derivò il fascino per Ramana Maharshi e quindi per la figura dell’eremita, del «santo folle» (o dostoevskiano «idiota»), che cerca «il vero Sé» o la «cosa reale» che si trova a grande profondità nella natura umana. Richard Schechner scrisse: «La tradizione da cui proviene Grotowski è quella dello sciamano veggente», e «il suo lavoro fu ‘tecnico’ nel senso in cui Mircea Eliade concepiva gli sciamani come ‘tecnici del sacro’».
Grotowski inizia a fare teatro in epoca stalinista, mentre la censura si abbatteva feroce sugli spettacoli ma non sulle prove. È anche per questo che, come lui stesso ricorda, le prove sono state la vera, “grande avventura”, dove accadeva la cosa più importante: «L’incontro tra un essere umano e un altro essere umano, cioè tra l’attore e me, che toccava questo asse, questa assialità, al di fuori da ogni controllo dall’esterno».
Dirà Grotowski molti anni dopo, ed è già una promessa e un congedo:

«Non è il teatro a essere indispensabile ma: incrociare le frontiere fra te e me; farmi avanti per incontrarti, in modo da non sperderci nella folla – o fra le parole o in proclami o fra idee meravigliosamente esatte».

Grotowski
Jerzy Grotowski

Prima del Principe Costante, Grotowski aveva già composto una lunga galleria di santi al contrario (e di “idioti”): ne Gli avi, l’eroe prigioniero Konrad (l’attore Zygmunt Molik) proclama la sua rivolta contro lo zar e contro Dio, assumendosi le pene del suo popolo, ma lo fa «piegandosi umilmente sotto la croce, che per di più non è un sublime strumento di tortura, ma una comune domestica scopa» . Ne La tragica storia del dottor Faust, da Marlowe, il protagonista è colto nella sua ultima ora di vita, prima di precipitare all’inferno: per Grotowski Faust è un Santo, nel suo desiderio assoluto di Verità e, proprio per questo, è necessario che si ribelli a Dio.
In un’intervista, anni dopo, chiarirà la differenza tra blasfemia e profanazione:

«Il blasfemo è il momento del tremito; si trema quando si tocca qualcosa di sacro, che forse è già distrutto, distorto, deformato e  rimane comunque sacro. La blasfemia è il modo di ristabilire i legami perduti, qualcosa che è vivo, una lotta contro dio per dio».

La galleria prosegue con Kordian – dramma anch’esso di epoca romantica di un martire polacco che attenta da solo alla vita dello zar e, recluso in manicomio e trovato sano di mente, viene mandato a morte. Lo scenario è quello di una camerata d’ospedale psichiatrico, e il pubblico è inteso come una comunità di pazienti. Nel testo, Kordian aveva una lunga tirata retorica nel quale giurava di dare il proprio sangue per la patria, ma, nello spettacolo, era pronunciata da un alienato mentale a cui un medico stava facendo un salasso.
La dialettica ormai conclamata tra apoteosi e derisione sarà ancora più evidente nel successivo Akropolis, in cui la scena finale della Resurrezione diventa un corteo isterico e grottesco: i prigionieri portano in trionfo un cadavere nel quale essi vedono il Salvatore resuscitato (la loro ultima ‘menzogna vitale’) e cantando un inno natalizio spariscono in un forno crematorio. Racconta Eugenio Barba: “La scena finale era sconvolgente, l’idea di Grotowski un colpo di genio. Usò una kolenda, un inno natalizio polacco che racconta del Bambinello appena nato che diventerà il Redentore del mondo.”Akropolis era la spiazzante visione del cimitero del Novecento, della sua “civiltà dei forni crematori”.

In Alla ricerca del teatro perduto, nel 1965, Grotowski arriva a una formulazione essenziale: «Possiamo perciò definire il teatro come ‘ciò che avviene tra lo spettatore e l’attore’. Tutto il resto è supplementare – forse necessario, ma supplementare». Si tratterà dunque di «un teatro ascetico, in cui gli attori e il pubblico sono tutto ciò che è rimasto».
La miseria dell’attore, il suo “puttanesimo” («l’appalto su di un corpo che viene sfruttato dai suoi protettori – direttori e registi») va trasformato in «santità laica», con la quale si «scopre se stesso gettando via la maschera di tutti i giorni» e consentendo anche allo spettatore «di intraprendere un simile processo di auto-penetrazione»
Se l’attore – con una «tecnica induttiva» di sottrazione dei trucchi e di eliminazione di ogni tipo di blocco – «non esibisce il suo corpo, ma lo annulla, lo brucia, lo libera da ogni resistenza agli impulsi psichici, allora, egli non vende il suo corpo ma lo offre in sacrificio; ripete l’atto della Redenzione; si avvicina alla santità» che implica con estremo coraggio l’offerta di «ciò che vi è di più intimo in lui».
Si rompe con la forma più ingenua della rappresentazione, la mimesi, come per Artaud, come per Nietzsche nella cui «psicologia dell’orgiasmo» persino «il dolore agisce da stimolante»: «Non per affrancarsi dal terrore e dalla compassione, non per purificarsi da una pericolosa passione mediante un veemente sgravarsi della medesima – come pensava Aristotele – : ma per essere noi stessi, al di là del terrore e della compassione, l’eterno piacere del divenire – quel piacere che comprende in sé anche il piacere dell’annientamento».[1] La crudeltà, direbbe Artaud, è sempre all’opera.

Grotowski
“Il principe costante” a Spoleto, 1967

Torniamo a Cieslak e al suo “miracolo”.
Quando Grotowski arriva a Spoleto, nel 1967, la cortina di isolamento intorno al suo lavoro è stata rotta, la sua ricerca è stimata e seguita e, soprattutto, ha già un piede fuori dal teatro. Il Principe costante sarà un giro di boa fondamentale. È il momento in cui, attraverso il decisivo contatto col teatro indiano, si passa dalle azioni straordinarie dell’attore sciamano, forme di “magia” ancora “teatrali”, al definitivo atto totale. Se prima si operava ancora su un piano compositivo, ora la pratica si inscrive direttamente nella memoria del singolo, attraversando da parte a parte “esistenza” e “carne”. Serve dunque un attore totale, capace di donare totalmente se stesso per, come scritto sopra, avvicinarsi alla santità. Grotowski, scrive Cynkutis, «voleva spezzare la separazione convenzionale fra i cosmi dell’invenzione e della realtà». Non si tratta più di recitare, ma di una confessione nel terreno, una pura reazione organica.
«L’attore – spiega Grotowski – fisserà la sua “partitura degli impulsi vivi” non con il lapis evidentemente, ma con il corpo». Secondo il regista, chi riesce a compiere questo sforzo supera quello stato di deficienza connaturato alla vita quotidiana, a cui noi stessi ci condanniamo, per arrivare all’interezza. «Recitare è quello che desiderate nella vostra vita di ogni giorno. Questo è il fenomeno dell’azione totale», dove viene dispiegato «il seme dell’essere, che chiamo ‘arrière-être’. L’impossibile è possibile». 
Così, mentre il gruppo dei personaggi attorno al principe erano allenati secondo la Tecnica I, grazie alla quale il corpo avrebbe appreso «gli impulsi di un’allodola che attacca», il lavoro col Principe è stato «completamente diverso». «Mancava poco che l’attore levitasse», ha scritto Josef Kelera. «Era in uno stato di grazia. E intorno a lui tutto questo ‘teatro della crudeltà’, blasfemo ed esagerato, si trasformava in un teatro in stato di grazia». Barba riporta:

«La forza di un uragano deciso. ‘Adesso non ce la fa più’. Eppure era come se una nuova onda più forte, più alta, più verde, sorgesse dal suo corpo e si espandesse intorno a lui. Per tutto lo spettacolo, questo principe costante era attore, ma non mi posi mai la domanda su come fosse arrivato ad un tale punto, ad una tale vetta. Fu solo dopo, al riparo da questa furia degli elementi, che riflettei sul fatto che tutto un orizzonte era stato spostato di innumerevoli miglia per rivelare una terra difficile, ancora da scrutare, ma che esisteva, e poteva dar frutti».

Dopo Il Principe costante, Grotowski ha finito col teatro. Il successivo, decennale lavoro su Apocalypsis cum figuris porta già i segni dell’attività, della ricerca esistenziale che lo occuperà nei decenni successivi, e che viene raccolta sotto il nome di “parateatro”. E con lui anche Cieslak in un certo senso ha finito col teatro. «Sembrò che potesse essere attore solo con Grotowski – ma per poter restare con Grotowski doveva smettere di fare l’attore» scrive Ferdinando Taviani. Per decenni si occuperà di piccole regie di spettacoli d’eccezione, terrà stages in disparate parti del mondo, sparirà lentamente. Fino a che, nel 1985, viene chiamato a fare una partecipazione “straordinaria”, nel Mahabharata di Peter Brooks, nella parte decentrata di Dhrtarastra, il re cieco  padre di figli rovinosi. La performance è deludente: viene detto che Cieslak è vecchio, è diventato l’ombra di se stesso, devastato dal troppo fumo e dal troppo bere. Viene il dubbio che sia stato scelto per la sua faccia, devastata e bellissima, sprofondata negli occhi color dell’aria, «quel viso tutto spigoli, tagliato a mannaia, che sembra avanzare per divorarvi, e poi nel momento in cui la stretta sta per richiudersi si nota lo sguardo sospeso».[2]
Eppure, Taviani scriverà: «Non è vecchio. Ha deposto il suo carisma, questa variante preziosa del fiore di Narciso». L’espressione è quella «d’un Tiresia a cui si fosse spenta d’un tratto anche la vita interiore». Eppure, chi lo guarda fuori scena, mentre si prepara, riconosce con sorpresa il medesimo training, ne ripete in piccolo le sequenze, sicché «ciò che allora era acrobazia adesso diviene realismo». Mutano le dimensioni, ma la forma dell’azione resta uguale. «Cieslak non è l’ombra di se stesso. Recita la sua ombra».
Dopo la morte di Cieslak, il 16 giugno 1990, per cancro ai polmoni, Grotowski lo paragonerà a Van Gogh, perché soprattutto nel Principe era riuscito nel miracolo, quella connessione «del dono e del rigore». Un dono non al pubblico, ma «a noi stessi, al nostro lavoro». E si potrebbe aggiungere, nelle parole di Artaud:

«Dopo mille e mille anni che il volto umano parla e respira, si ha ancora l’impressione che non abbia ancora cominciato a dire ciò che è e ciò che sa. Il solo Van Gogh ha saputo ricavare da un volto umano un ritratto che sia il razzo esplosivo di un battito di cuore scoppiato. Il suo.»

I soli Van Gogh e, forse, Cieslak, dipingendo con la propria carne.

Grotowski
“Il principe costante” a Spoleto, 1967

Della rappresentazione del Principe costante a Spoleto rimangono delle foto in bianco e nero, più che mai testimonianze, l’imbarazzante reperto di qualcosa che sembrerebbe dovere restare segreto e proibito.
Per quanto sulla scena si vedesse un martirio, nel rapporto simbiotico tra Grotowski e Cieslak (e allora qui chi è l’autore e chi l’attore, al di là della contabilizzazione anagrafica?) la parte era stata fondata sulla costituzione di una partitura d’impulsi che si innestava su un tempo molto preciso della sua esistenza, anzi, su alcuni attimi: quello della prima, impossibile preghiera carnale. Quello del primo amore.
Il San Sebastiano nell’estasi della tortura, brutalizzato dalle facce di una storia gigantesca e inumana, in quel momento era e non era negli attimi iniziali delle piccole, infinitesimali azioni di un volo. «Era un momento della sua vita relativamente breve – diciamo qualche decina di minuti – […] era come se questo adolescente rammemorato si liberasse col suo corpo dal corpo stesso […]». La grande realizzazione del teatro per come lo intendeva Grotowski era l’uscita dal rifiuto di se stessi per «entrare in un grande spazio libero» in cui si può «non avere paura alcuna e non nascondersi in niente». Nelle parole del poeta Franco Ferrara, era riuscito ad «allevare l’uragano, sulla fronte della siccità».
Nella sua ultima intervista, Cieslak disse:

«La partitura è come un vaso di vetro dentro il quale c’è una candela accesa. Il vetro è solido, sai che puoi farci affidamento, ma non è fiamma. La fiamma è il mio processo interno ogni sera. La fiamma è ciò che illumina la partitura. La fiamma è viva.»

Nel finale della favola di Kafka, al digiunatore, ormai dimenticato dalle folle che venivano a vederlo e morto di stenti, scomparso a se stesso, viene sostituita una pantera. Gli spettatori accorrevano alla sua gabbia ed erano felici di vedere questo animale che trasmetteva gioia di vivere e sembrava non rimpiangere neanche la libertà; anzi, sembrava ancora portarla con sé, nascosta in qualche punto della dentatura.

_______________________________________________________________________

[1]Antonin Artaud, Van Gogh il suicidato della società, Adelphi p.117
[2]Il crepuscolo degli idoli, Adelphi, p.160

In copertina: Il principe costante, Spoleto, 1967

categorie
menu