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La rivincita del grigio. Justice League Snyder’s Cut e gli altri


Perché riproporre i film di grande successo in bianco e nero? La nuova Justice League di Zack Snyder ripropone il quesito

Pensate ai blockbuster contemporanei, ai film che dominano il box-office o, in questa epoca di cinema chiusi, le visioni casalinghe. Cine-fumetti come Avengers o Wonder Woman sono delle giostre di colori, dei caleidoscopi a partire dal lavoro di correzione colore con cui i direttori della fotografia e i designer di produzione impiegano parte della post-produzione. L’idea è ovviamente rendere sempre più eccitante e clamorosa la trasposizione dell’idea stessa alla base del fumetto statunitense; il 25 marzo però, tre giorni dopo la diffusione on demand dell’attesissimo Justice League Snyder’s Cut, dal profilo Twitter del film appare una clip. Il tweet dice Justice Is Gray, la giustizia è grigia.
La nuova Justice League di Zack Snyder ha quindi anche una versione virata in bianco e nero. Il grande cine-fumetto contemporaneo smette i panni di giostra e si tuffa nel passato, anche perché la versione a colori di questo film è stata ripensata (e in parte rigirata) con il vecchio formato 4:3. Alla base di queste scelte ci sono anche motivazioni estetiche, come quella di rimandare all’immaginario noir, ai film degli anni Quaranta, all’epoca d’oro del cinema americano di cui il bianco e nero era parte integrante. 

Justice League Snyder's Cut

Il film di Snyder però non è che la punta dell’iceberg, e il caso più discusso mediaticamente, di una tendenza recente: riedizioni in bianco e nero di alcuni grossi film di intrattenimento, spesso destinate solo alla distribuzione home video. Cosa significa il bianco e nero quindi per il cinema contemporaneo? Perché film che arrivano a costare anche trecento milioni di dollari (come il caso di Snyder) scelgono questa via apparentemente anti-commerciale?
Ci sono varie motivazioni: la nostalgia verso un’età dell’oro del cinema considerata irripetibile dai cinefili, l’arricchimento delle edizioni blu-ray per esigenze di marketing e soddisfare la bramosia di collezionismo dei fan, ma in parte, forse minima ma interessante, anche le ambizioni dei registi nel confrontarsi con un senso diverso dell’immagine. Le sfumature di grigio dei personaggi si esalterebbero attraverso quelle del color grading, i contrasti umani o supereroici avrebbero così una sponda in più nel contrasto tra bianco e nero e i fan – che nel caso dello Snyder’s Cut sono i responsabili stessi della nascita del progetto – possono andare in brodo di giuggiole. C’è dietro tutto questo un’evoluzione del nostalgismo, della retrò-mania che circonfonde (o infesta, a seconda dei gusti) l’arte popolare contemporanea. 

Il primo a pensare che il proprio film sarebbe stato meglio in bianco e nero è stato un nostalgico come Frank Darabont, che prima di partecipare alla creazione di The Walking Dead è stato l’autore di alcuni dei migliori adattamenti da Stephen King come Le ali della libertà e Il miglio verde, film in cui la voglia di ricostruire atmosfere del passato era pari a quella di metterne in mostra il dolore, mentre poi con il sottovalutato The Majestic è passato alla prova definitiva di ogni nostalgico cinefilo, ovvero riproporre il cinema à la Frank Capra. In The Mist (2007), adatta una novella di King (La nebbia, nella raccolta Scheletri) ambientata nel presente, in cui una nebbia fittissima avvolge un intero paese e costringe i cittadini dentro un supermercato, perché quella nebbia cela orribili creature. Il bianco e nero – disponibile nella versione home video a due dischi – è pensato qui come nella serie B degli anni Quaranta e Cinquanta, per sfumare l’immagine, non per dare una patina antica, ma funzionale: in un film in cui la nebbia sfuma la visione, amplifica i limiti dello sguardo, Darabont e il direttore della fotografia Ronn Schmidt usano il grading per livellare i personaggi al grado zero dell’umanità e al tempo stesso per sfumare i limiti della definizione degli effetti digitali, smussare il contrasto visivo anziché acuirlo, come invece fa George Miller in Mad Max Fury Road: Chrome Edition (2015).
Anch’esso presente in una delle edizioni blu-ray, il film dà alla monocromia – e la parola chrome, il concetto di cromatura ha nel film un’essenza mistica – un risalto incredibile, nel quale i grigi sembrano ribaltare la natura stessa delle immagini, rendendo cromati – e quindi meccanici – gli esseri umani e viventi, organici gli sfondi naturali che li ospitano: Miller usa il bianco e nero come un ulteriore atto di avanguardia, che attraverso la propria vita interna aumenta il senso di movimento di un film parossistico che è anche una delle opere più decisive dell’arte cinematografica degli anni Dieci.

Justice League Snyder's Cut

Più tradizionale è invece l’uso del grigio in Logan (2017), il cui regista James Mangold – altro nostalgico della Hollywood contemporanea – ha intitolato eloquentemente Noir la versione del film in bianco e nero, pensando che avrebbe funzionato bene quanto quella girata a colori: ne era talmente convinto da aver avuto persino un’uscita cinematografica. Stavolta però a torto, non solo perché il grading sembra un po’ «appoggiato» come si dice in gergo, senza la cura e la lavorazione di altri esempi, ma perché va a detrimento del film che lavora su un immaginario western più che sul noir, perché sono i colori – già desaturati – della fotografia di John Mathieson a creare l’atmosfera emotiva. Nella Justice League ha già un senso diverso, più adeguato al film, visto che Batman nasce dalla ridefinizione supereroica del noir americano e Gotham è una città nera come ne esistono poche, ma al tempo stesso la decolorazione dell’immagine non coglie un punto: quella di Snyder è la visione che, nel cinema contemporaneo, si è avvicinata di più all’estetica del fumetto statunitense moderno (300 soprattutto), che si basa sul contrasto del movimento dentro la stasi e che fa dei colori un veicolo di emozione primario, esaltato dalle splash pages, le pagine senza vignette in cui tutta la grandezza dell’albo è occupata da una sola, enorme vignetta in cui perdere lo sguardo. Fare questo, come fa Snyder, e poi privarsi dell’importanza delle macchie di colore, delle esplosioni cromatiche è un gesto di hybris in cui l’autore si dimentica dell’opera, in cui anzi l’autorialità sembra risiedere fuori dall’opera stessa come starebbe a dimostrare anche il 4:3, al netto delle questioni tecniche.

Allora è interessante vedere come ha usato il bianco e nero un autore propriamente detto, benché abbia fondato il proprio statuto sulla ridefinizione dei generi e del cinema pop: Bong Joon-ho ha spesso pensato ai suoi film in bianco e nero, fin dal 2013 ha optato per il grading in grigio dei suoi film, realizzando un primo esperimento con Mother. Il vero e proprio picco di questa tendenza è arrivato con Parasite (2019), film che dal regista pare fosse stato pensato in bianco e nero ma che i produttori hanno imposto di realizzare a colori. Dopo il successo mondiale e i premi, Bong ha avuto il via libera per presentare il film al festival di Rotterdam e nelle sale, oltre che in home video: tutto il lavoro sugli spazi, sui volumi geometrici, sulle porzioni di immagine e colore che definiscono storia e personaggi ne risultano esaltati (merito della fotografia di Hong Kyung-pyo che ha curato la correzione colore), come i contrasti e le sfumature, la leggerezza di costruzione e ritmo diventa aerea, il dolore finale quasi lancinante, elemento questo che lo accumuna a The Mist, con uno dei finali più strazianti di tutti i tempi.

Justice League Snyder's Cut

Dopo l’era dei film classici ricolorati spesso in modo fraudolento, adesso sono gli stessi autori e realizzatori a decolorare i propri film, e sono quei film che dicono meglio di altri cos’è il cinema oggi, ovvero i cinecomic, il pop d’autore; ma il paradosso di questa tendenza è che rinfocola la nostalgia attraverso la più moderna tecnologia, perché non sarebbe possibile operare così a fondo con il color grading senza le possibilità digitali. La tecnologia permette così un muto patto tra autore, produttori e fan: il primo può praticamente fare del film ciò che vuole, la sua immaterialità lo rende materia magnifica da plasmare, il produttore – dopo essersi garantito il ritorno d’investimento con l’incasso al cinema – ha un ottimo prodotto da vendere in home video, ricco di extra e versioni alternative, l’appassionato può arricchire collezioni e nutrire fanatismi. Tutti, infine, sono convinti di aver messo un piede «nel grande cinema» di cui il bianco e nero è certificato: è un win-win, a volte dispendioso, a volte inutile, sempre curioso e affascinante. Perché il passaggio al bianco e nero in postproduzione rende il film un’entità mutante, capace di cambiare la propria immagine e il proprio rapporto con lo spettatore, di diventare altro da sé sotto l’egida – sempre più potente – del suo creatore; è la contraddizione dell’arte digitale: quanto più l’artista si impone di non lasciarla mai andare via, tanto più l’opera prende vita propria.



Photo credits
Copertina – Frame da
Mad Max Fury Road: Chrome Edition (2015)



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