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Giovani e smarriti. Parigi, 13Arr. di Jacques Audiard



Nel corso degli anni Sessanta e fino alla metà degli anni Settanta, Parigi fu scossa da una vasta operazione di riammodernamento urbanistico chiamata Italie 13, per via del suo svolgersi prevalentemente intorno l’Avenue d’Italie, nel tredicesimo «arrondissement». Fiore all’occhiello di questa controversa trasformazione è il quartiere residenziale noto come Les Olympiades, caratterizzato da otto torri alte 104 metri identiche tra loro, tre condomini rettangolari e un ampio piazzale pedonale sopraelevato a otto metri dal suolo. Per gli ideatori di tale complesso, il modernismo offerto dai nuovi edifici e dalla funzionalità dei servizi presenti avrebbe dovuto richiamare l’attenzione di una popolazione di giovani, cosa che non si avverò però del tutto. La sintetica descrizione di questo contesto urbano permette di introdurre al meglio il film Parigi, 13Arr., titolo italiano che si sostituisce all’originale Les Olympiades, diretto da Jacques Audiard.

Audiard

Caratterizzata da film molto diversi tra loro per genere, temi e colori, la filmografia di Audiard può ad ogni modo essere sintetizzata in due caratteristiche ricorrenti ed esplicative della sua idea di cinema: una certa sensibilità nei confronti dei personaggi e l’importanza delle scenografie all’interno dei racconti. Entrambe si ritrovano anche in questo suo nuovo lungometraggio, presentato in concorso alla 74ª edizione del Festival di Cannes e liberamente tratto dai fumetti Amber Sweet, Morire in piedi e Hawaiian Getaway, di Adrian Tomine. Ancor di più, queste due caratteristiche si legano qui profondamente tra loro, divenendo l’una il completamento dell’altra e permettendo ad Audiard di farsi cantore di una generazione al bivio, smarrita eppure profondamente intrisa di vitalità.

Parigi, 13Arr. si apre proprio sugli alti edifici del quartiere poc’anzi descritto. Li inquadra con dovizia di particolari, permettendoci da un lato di acquisire familiarità con questo ambiente tanto affascinante quanto impersonale e dall’altro di sbirciare dalle finestre dei vari appartamenti in cui si svolge la vita dei residenti. Di questa ampia gamma di storie, Audiard sceglie di raccontarci quella di Émilie (Lucie Zhang), di Camille (Makita Samba) e, solo in seguito, di Nora (Noémie Merlant). Tre giovani sulla soglia dei trent’anni alle prese con problemi lavorativi e, in maggior misura, sentimentali. Per quanto diversi possano sembrare, su un piano etnico e culturale, questi personaggi hanno in comune un elemento particolarmente significativo, ovvero la paura di affrontare la realtà che li circonda e, di conseguenza, anche le emozioni e le ferite che ne possono scaturire.

Il quartiere Les Olympiades sembra allora il luogo ideale in cui nascondersi, in cui rifuggire da ogni possibile coinvolgimento sentimentale e dolore altrimenti difficilmente sopportabile. Gli edifici che si vollero uguali tra loro diventano la personificazione di quell’anonimato che ai protagonisti appare tanto rassicurante e la scelta di Audiard di avvalersi di una fotografia in bianco e nero non fa che aumentare questo senso di indistinguibilità, di monotonia e di grigiore. Ecco dunque che Émilie può passare indenne da un partner sessuale a un altro, comunicando a distanza grazie al suo lavoro da call-center e delegando ad altri le strazianti visite alla nonna malata di Alzheimer. Similmente, Camille sfugge da ogni possibile relazione amorosa non appena l’attrazione fisica svanisce, rimandando inoltre le sue ricerche dottorali impiegandosi in mestieri che nulla hanno a che vedere con lei. 

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Nora, dal canto suo, si distingue nella sua necessità di protezione per il rendere questa molto più esplicita. Inizialmente aperta al mondo e a nuove avventure, sarà sempre più portata a ricercare una distanza confortevole, da cui potersi confrontare con la realtà senza però doverla realmente affrontare. Nasce così il suo rapporto con la pornostar Amber Sweet, una figura che, fatta eccezione per il finale, comparirà sempre mediata dallo schermo del computer. Ed è proprio quest’ultima a farsi ulteriore manifestazione del discorso portato avanti da Audiard. È Amber Sweet a comparire brevemente a colori all’interno di un film altrimenti totalmente in bianco e nero. L’unico colore possibile è dunque quello offerto dal medium, che ci permette di entrare in contatto con il mondo ma da una debita distanza di sicurezza. Quando questa distanza si annulla, il peso di quel contatto a cui non si è più abituati diventa difficile da sopportare, portando ad un punto di rottura che può in realtà essere l’inizio di un nuovo percorso di scoperta di sé e del mondo.

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Anche quando ciò avviene, tuttavia, risulta difficile lasciarsi alle spalle in un sol colpo tutte le paure fino a quel momento provate. Le affermazioni più forti continuano ad aver bisogno di una mediazione per poter essere espresse, proprio come il «ti amo» che uno dei protagonisti pronuncia attraverso un citofono, apparentemente incapace di rivolgere quelle stesse parole al loro destinatario, guardandolo negli occhi. Il loro percorso di crescita è dunque lontano dal potersi definire concluso, ammesso che possa mai esserlo, ed è anche in questa volontà di non fornire facili soluzioni che sta la bellezza del film di Audiard. Il regista si avvicina a una generazione che non gli è propria, eppure, insieme alle sceneggiatrici Léa Mysium e Celine Sciamma, compone per i suoi giovani un racconto sincero e realistico, che diviene con poche semplici scene un’ode alla gioventù, tra musica, materialità e introspezione. Una gioventù ammaliante anche quando smarrita. Quello di Audiard è infatti lo sguardo di chi prova profonda attrazione per quanto avviene davanti l’obiettivo della macchina da presa, di chi non giudica mai le scelte dei tre protagonisti, neanche quando sembra impossibile non farlo. Piuttosto, egli si limita a fotografare una realtà dove i rapporti umani sono sempre più superficiali e il sesso è un atto spogliato di ogni significato se non quello di un proprio personalissimo piacere. Trasformazioni radicali, simili a quelle di cui è stato protagonista il quartiere che li ospita e che non sono colpa di chi le vive nella pratica, ma di un contesto sociale che non fornisce più indicazioni sulle strade da seguire.

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