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Beef: ridere e raccontare il vuoto



Datemi la serie giusta e vi solleverò il mondo. Con buona pace di chi è convinto che i giganti dello streaming stiano uccidendo il cinema. Qualcosa è cambiato, certo, e indietro non si torna, anche questo è vero. C’è molto in gioco e ci sarebbe parecchio da discutere sugli effetti collaterali del passaggio dall’era del grande (e del piccolo) schermo a quella degli schermi diffusi (troppo per parlarne in questa sede). Ma è innegabile che dopo anni di faticoso apprendistato, dopo un’interminabile gavetta nel retrobottega delle majors, le nuove forme di intrattenimento, sfruttando a pieno le infinite possibilità che la serialità estesa mette a disposizione (ci erano già arrivati Edgar Reitz con Heimat e David Lynch con Twin Peaks), hanno raggiunto livelli di eccellenza assoluta e stanno fattivamente contribuendo a reinventare l’immaginario cinematografico globale.

Prendete Beef (Lo scontro, in italiano) ad esempio, arrivata da qualche settimana anche in Italia e diventata subito un titolo di largo consumo. Dieci episodi ad assetto variabile (si va dalla mezz’ora alla quarantina di minuti di durata) che è impossibile non prendere cinematograficamente sul serio. Non a caso il progetto è nato dalla collaborazione tra Netflix e lo studio A24, ovvero la casa di produzione e di distribuzione che ha accompagnato sul tappeto rosso degli Oscar il fenomeno Everything Everywhere All at Once (sette statuette in bacheca dopo la notte delle stelle di Los Angeles) e che negli ultimi anni ha messo in catalogo una meraviglia dopo l’altra: Uncut Gems, The Firt Cow di Kelly Reichardt, Midsommar di Ari Aster (che è tornato da poco in sala con lo sconvolgente Beau ha paura: correte!), The Lighthouse, First Reformed di Paul Schrader, Lady Bird di Greta Gerwig, Moonlight di Berry Jenkins (altri tre Oscar a referto) ma anche serie di culto come Irma Vep di Olivier Assayas o di grandissimo successo come il teen drama Euphoria. Insomma, il meglio che si possa desiderare in questo momento a livello planetario.
E infatti c’è tanto, tanto di buono e di giusto tra le pieghe di Beef.

A partire dai due protagonisti: l’attore coreano Steven Yeun, passato dall’apocalisse zombie di The Walking Dead ai set di Burning di Lee Chang-dong e Minari (altra produzione targata A24), e l’astro nascente della stand-up comedy Ali Wong, nata e cresciuta a San Francisco in una famiglia sino-vietnamita. Due scelte dettate non solo da questioni di casting: per entrambi infatti è stata confezionata una parte su misura, in una perfetta sovrapposizione tra l’attore e il ruolo da interpretare. Per Steven Yeung quello di un muratore di origine coreana, Danny Cho, prototipo del fallito che si dibatte tra inadeguatezza e frustrazioni, avvinghiato morbosamente al fratellino e con il fiato della famiglia sul collo; per Ali Wong quello dell’imprenditrice Amy Lau, di padre cinese e di madre vietnamita, con una figlia bellissima e un marito (giapponese) adorabile, a un passo dall’obiettivo di diventare milionaria grazie a una boutique a misura di reddito con tanti zeri che vende piante e fiori rari.

Dove siamo? Sotto il sole di Los Angeles. Per l’esattezza nel parcheggio di un supermercato. È qui che i nostri due eroi si incontrano per la prima volta: un quasi scontro in automobile che, dopo un robusto colpo di clacson e l’immancabile dito medio che spunta dal finestrino, entrambi di Amy, si trasforma in un casus belli. Già, perché Steven è a metà di una di quelle giornate in cui si aspetta solo che la proverbiale goccia faccia traboccare il vaso già colmo della sopportazione. Segue folle inseguimento a tutta velocità, con tanto di semafori rossi bruciati e derapate tra le aiuole delle villette. Il primo atto di una resa dei conti che diventa il motore del plot, in un crescendo parossistico di sgarbi incrociati, di cattiveria gratuita, di violenza incontrollata; una spirale di rabbia inestinguibile che risucchia Amy e Steven in un vortice di grottesca follia che finisce per mettere a rischio tutto ciò che di più prezioso hanno, comprese le loro stesse vite e quelle dei loro cari.

Sembra di stare in un film di Buñuel girato dai fratelli Coen. Acidissimo, feroce, beffardamente ironico, sinistramente comico (si ride e si ride tanto in Beef). Soprattutto negli ultimi due episodi, che all’improvviso, dopo una fase di quiete solo apparente, deviano verso momenti di puro compiacimento splatter e sequenze ad alto tasso di psichedelia.
Il punto più alto di una serie che racconta del vuoto attorno al quale ruotano le esistenze di due brutte persone, divorate da un’insoddisfazione atavica, inestinguibile, dal senso di colpa, alle quali non resta che la rabbia per sentirsi vive; due figli di immigrati che si ritrovano a sbattere il muso contro la fallacia del sogno americano, una trappola sia per chi sta alla base della scala gerarchica, per chi sgomita per passare dall’altra parte (Steven), sia per chi dall’altra parte ci è passato ma solo per scoprire che non c’è niente per cui valga davvero la pena lottare, che possono non bastare una figlia e un marito perfetti, la piscina e l’affare della vita per avere un buon motivo per alzarsi dal letto ogni mattina (Amy).

Centro pieno. Anche grazie alla sceneggiatura firmata dal coreano Lee Sung-jin, ennesimo portabandiera della rivoluzione “orientale” che sta investendo Hollywood e sobborghi (Everything Everywhere All at Once, Michelle Yeoh e Ke Hui Quan, dopo la bomba Parasite e dopo Nomadland di Chloé Zhao, ce lo hanno ricordato a suon di Oscar). D’altronde la fabbrica dei sogni funziona così fin dai tempi di Lubitsch, Billy Wilder e Fritz Lang e lo ha fatto di recente anche con la new wave messicana dei vari Guillermo del Toro, Alfonso Cuarón e Alejandro Iñárritu: includere, diluire e metabolizzare. Colpa di un mercato il cui asse di rotazione si sta inevitabilmente spostando verso il “Far East”. Non solo la Corea del Sud, diventata ormai un colosso a livello produttivo, ma anche la Cina, la Thailandia, la Malesia, Taiwan e il ritorno di Hong Kong.
Checché ne dicano i pessimisti e i nostalgici, la morte del cinema non è mai stata così lontana.

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