Anna Karina
Camera Obscura

Anna Karina, l’ultima corsa dentro al Louvre

Vivere “nel vuoto delle metamorfosi”. E in quel medesimo segmento, riempito di pellicola e di frammenti di esistenza, andarsene come in una dissolvenza a nero. La vita di Anna Karina, al secolo Hanne Karin Blarke Bayer, è terminata a 79 anni a Parigi, dopo una battaglia contro il cancro. Con lei, se ne va il volto femminile della Nouvelle Vague, con la sua cesura verso la scrittura cinematografica classica e con i ruoli di una società sull’orlo del riassetto del maggio francese. Rimangono i film, e l’aura da 24 fotogrammi al secondo emanata dal proiettore cinematografico.

Nata a Copenaghen nel 1940, «cuspide tra vergine e bilancia, tendente alla bilancia», Hanne aveva sempre desiderato scappare, fino a quando a 17 anni arrivò finalmente a Parigi. Viene notata in un caffè, e inizia a fare la modella per la fotografa Catherine Harlé, che dichiarerà di essere rimasta subito affascinata da quella ragazza con l’aria un po’ arruffata, avvolta in un grosso cappotto da uomo e con le scarpe consumate, ma con gli occhi «che divoravano chiunque attorno a sé». Diventerà presto Anna Karina, nome coniato da Coco Chanel in persona. É giovanissima, non ama posare, vuole guadagnare soldi. «Era come una bambina sordomuta che voleva essere notata da qualcuno» chiosa la Harlé. Quel qualcuno altri non poteva essere che un regista della “nuova onda” che stava travolgendo Parigi.
Jean-Luc Godard ha solo trent’anni ed è già considerato tra i registi più talentuosi d’Europa. À bout de souffle (1959) è diventato un piccolo caso cinematografico, in Francia non si parla d’altro di questi giovani registi che stanno sovvertendo le regole; François Truffaut, Éric Rohmer, Jacques Rivette e Claude Chabrol sono i nuovi profeti del cinema moderno. Jean-Luc non può fare a meno di notare quella giovane ragazza dagli occhi nordici, e la vuole nel ruolo di Veronica Dreyer nel suo secondo film Le petit soldat (1960, ma uscirà solo nel 1963) e l’anno successivo come protagonista di Une femme est une femme. Si sposeranno al termine delle riprese, sancendo col loro rapporto il definitivo abbraccio tra arte e vita, tra finzione e realtà.

«Un’immagine è una pura creazione dell’anima. Non nasce dallo scontro, ma dalla riconciliazione di due realtà che insieme vivono più che divise.»
Jean-Luc Godard, Re Lear

Anna Karina
Jean-Luc Godard e Anna Karina, 1961

«In fin dei conti, finiamo con l’assomigliare ai personaggi che recitiamo» dichiarava col suo malinconico sorriso alla TV francese. «Oppure, i personaggi finiscono con l’assomigliarci». Il volto di Anna diventa ben presto il simbolo di una nuova generazione; l’interpretazione di Une femme est une femme le vale l’Orso d’argento al Festival di Berlino del 1961, portandola definitivamente alla ribalta. Ma è con Vivre sa vie (1962) che Godard costruirà la sua cattedrale di celluloide per la compagna, raccontando la storia della ventiduenne Nana che, lasciata la famiglia, se ne va in città per entrare nel mondo del cinema. La sceneggiatura, composta rossellinianamente in dodici tableaux, attinge a piene mani dall’inchiesta giornalistica Où en est… la prostitution? di Marcel Sacotte sul mondo della prostituzione e crea l’immortalità sul grande schermo del volto della Karina.
«Anna è Louise Brooks» sentenzia il regista, destinando alla storia del cinema alcune sequenze destinate a sopravvivere ai suoi artefici; su tutte, l’improvviso sguardo in camera di Nana/Anna durante il celebre monologo su responsabilità e libertà («Un volto è un volto. Dei piatti sono dei piatti. Gli uomini sono degli uomini. E la vita è la vita») e la dissertazione filosofica al tavolino di un cafè con il filosofo Brice Parain («La verità è in ogni cosa, e un po’ anche nell’errore» le fa dire Godard). Ma più di tutto, a tracciare un vertice della poetica godardiana è la vertiginosa sequenza nella quale Pierre Kassovitz legge a Nana/Anna un passaggio dal racconto Il ritratto ovale di Edgar Allan Poe, che diventa allo stesso tempo un messaggio d’amore alla Karina, che poco prima aveva tentato il suicidio, e la profetica dichiarazione d’intenti di un regista che non sa – non vuole – separare la macchina desiderante del cinema dalla propria vita privata, in un gioco che condurrà la coppia al massacro.

– É la nostra storia, un pittore che fa il ritratto della moglie. Vuoi che continui?
– Sì.
– «Con il passare del tempo, arrivato quasi alla fine del dipinto, il pittore non volle più nessuno nello studio (…). Così non vide che i colori che disponeva sulla tela, erano sottratti alle cose di colei che era seduta a suo fianco. Passarono le settimane, e l’opera era quasi giunta al suo termine. Dopo l’ultimo tocco, il pittore si scostò e sostò estatico di fronte all’opera che aveva finalmente terminato. Ma un istante dopo, mentre così guardava, tremò, fu invaso dal terrore e gridò con voce tonante “In verità è la vita stessa!”. Si voltò allora di colpo per guardare la donna amata. Era morta».  

Seguiranno altri film, ma qualcosa si è rotto per sempre tra i due. Anna tenterà nuovamente il suicidio e verrà ricoverata in un ospedale psichiatrico. Nel 1964 arriva Band à part con la sua iconica corsa all’interno del Louvre («Non so se devo ridere o piangere» confessa Anna, da poco dimessa dalla struttura ospedaliera), l’anno successivo il capolavoro Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution e Pierrot le fou con la star Jean-Paul Belmondo e il cameo di Samuel Fuller. Persino laddove Anna non è scritturata, il suo fantasma aleggia sulla sceneggiatura, come accade in Le Mépris dove Brigitte Bardot davanti allo specchio si prova una parrucca che simula il celebre caschetto moro della Karina.
Nel 1966, quando ormai il divorzio è alle porte, sarà Made in U.S.A a rappresentare il capitolo finale del rapporto professionale e umano tra i due. Si rivedranno solo vent’anni dopo, il 25 dicembre 1987, nel salotto della trasmissione Bains de minuit condotta da Thierry Ardisson; quando Jean-Luc afferma che non ha potuto donarle altro che i suoi film e che «un film non è niente», Anna scappa dallo studio senza riuscire a controllare le lacrime. «Devo aver detto qualcosa che l’ha ferita. Non piangerò qui sulla scena» sibila Godard nell’imbarazzo dello studio.

Anna Karina
Jean-Luc Godard e Anna Karina nel loro appartamento
(Photo by Giancarlo BOTTI/Gamma-Rapho, Getty Images)

Lontana da Jean-Luc, prima e dopo quello che resterà l’incontro più importante della sua vita, Anna Karina raccoglierà i cocci della propria esistenza e si costruirà una carriera da attrice che passerà attraverso i grandi autori degli anni Sessanta e Settanta, spesso recitando in pellicole di forte matrice letteraria. Da Susanna Simonin, la religiosa di Jacques Rivette (1966), Cleo dalle 5 alle 7 (1962) di Agnès Varda, Le soldatesse di Valerio Zurlini, Lo straniero di Luchino Visconti (1967), Lamiel (1967) di Jean Aurel dal romanzo di Stendhal, In fondo al buio (1969) di Tony Richardson da Vladimir Nabokov, Pane e cioccolata (1974) di Franco Brusati, L’invenzione di Morel (1974) di Emidio Greco fino al Rainer W. Fassbinder di Roulette cinese (1976). Tra una pellicola e l’altra, non disdegnerà l’incursione nel mercato discografico a fianco di Serge Gainsbourg, che di fronte ai giornalisti ammetterà sornione «Ho scritto per lei 12 canzoni, mai fatto per nessuno. Sono stato conquistato».

Oggi tutto il mondo piange la scomparsa di questa attrice che ha saputo essere qualcosa in più, diventando il simbolo dell’emancipazione femminile e al tempo stesso il simulacro della poesia del cinema, della sua stessa essenza. «La bellezza è l’inizio del terrore che siamo capaci di sopportare» scriverà Godard in Prénom Carmen (1983) attingendo parola per parola da Rilke, e forse continuando a pensare alla sua musa perduta. La stessa bellezza che oggi rimane allo spettatore come antidoto alla transitorietà della carne, consacrata dalla luce catturata dall’otturatore di una cinepresa e consegnata al domani, guardando e riguardando il ballo di Anna/Odile con Arthur e Franz nel salone di Band à part, la camminata sulla spiaggia di Pierrot le fou, la folle corsa in auto nel finale di Alphaville.

Quella stessa bellezza, infine, che sembra attraversare la sequenza cardine di Vivre sa vie, nella quale le lacrime di Anna di fronte a La passion de Jeanne d’Arc di Dreyer diventano l’emblema stesso della purezza del cinema, laddove il confine tra sogno e realtà diventa soltanto una finissima membrana che ci separa dalla morte della Pulzella d’Orleans, mentre dalla sua poltrona Anna continua a sognare. E noi un po’ con lei, oggi e domani ancora, avvolti nel buio di una sala cinematografica.

Vivre sa vie, 1962