Search
Close this search box.

Dove sono i nostri morti? Il ricordo di Deborah Rhode



Nella sua poesia In Blackwater Woods, Mary Oliver ci avverte: 

«Per vivere in questo mondo

devi essere capace
di fare tre cose:
amare ciò che è mortale;
stringerlo

contro le tue ossa sapendo
che la tua vita ne dipende;
e, quando è tempo di lasciarlo 
andare,
lasciarlo andare.»

Nel corso dell’ultimo anno, la morte si è avvicinata a tutti noi. La pandemia ci ha tolto persone che abbiamo amato, e altre che abbiamo solo incontrato brevemente. Le loro morti si sono susseguite così rapide che non c’è stato il tempo di trasformarle in parole, di raccontarle. Sono velocemente diventate soltanto numeri, cresciuti in maniera così esponenziale da non potere neanche annoverare tutti i cadaveri ammucchiati negli ospedali e i corpi che si sono spenti come candele nelle case di tutto il mondo. Come spesso accade, noi che siamo rimasti abbiamo sbrigativamente riassunto la vita di quelli che se ne sono andati con la loro morte. Abbiamo ridotto la loro esistenza al nome della malattia che li ha colpiti, all’incidente che li ha travolti o, appunto, al virus che li ha sopraffatti nello spazio di pochi giorni o settimane. 

In molti abbiamo imparato ad anestetizzarci alla tragedia, assuefatti alla morte che ormai non faceva più notizia. Ci siamo intenzionalmente distratti, per paura, o per difesa; ingenuamente insolenti o infinitamente grati che non fosse ancora il nostro turno o quello dei nostri cari. Alcuni di noi si sono consolati nel dolore comune, così diffuso e condiviso da diventare più facile da sopportare e da capire. Per almeno un momento, forse, abbiamo tutti trascurato le nostre piccole preoccupazioni, insoddisfazioni e malumori, pensando alla sventura scampata. E infine, i già gravemente malati di altro si sono magari sentiti meno soli nella disperazione e nel viaggio insondabile verso la fine.

Ma mai come adesso ognuno di noi si è probabilmente domandato come riuscire a fare quello che Mary Oliver suggerisce. Come riuscire a lasciare andare, a tempo debito, chi abbiamo amato così visceralmente da farne dipendere la nostra vita, pur conoscendone la mortalità e intravedendo la scadenza di quell’amore. E ancora, come riuscire ad amare sapendo che ogni storia d’amore è, in fondo, anche una storia di abbandono. Forse, solo immaginando dove i nostri morti vanno ad aspettarci possiamo separarcene, tenerli ancora stretti contro le nostre ossa, e ringraziarli, come dice Mariangela Gualtieri, per rendere «la morte un luogo abitato». Quel posto dove anche noi finiremo, quando sarà il nostro turno, attraverso l’immaginazione di coloro che ci hanno amato e che ci sopravvivranno.

Leo Benvenuti, sceneggiatore di grande fama, oltre ad essere stato il mio primo maestro e quello di molti altri, diceva che immaginava i suoi morti, compagni di film e altre avventure, passeggiare insieme in un prato dove l’erba profuma di vento e c’è sempre il sole. Quando scomparve, nel lontano 2003, io vivevo a Londra da diversi mesi. Negli ultimi tempi lo avevo visto meno regolarmente. La distanza geografica attutì il dolore della sua mancanza e mi aiutò a immaginarlo non più a scrivere e discorrere, dietro l’anello di fumo della sua pipa, all’A.N.A.C. (Associazione Nazionale Autori Cinematografici) a Roma, ma, piuttosto, a camminare e conversare divertito con i suoi morti, in quel campo dall’erba alta e fresca dove è sempre primavera. 

Deborah Rhode

Lo scorso gennaio si è spenta Deborah Rhode, nota scrittrice e giurista americana. La sua scomparsa è apparsa sui quotidiani più letti oltreoceano. Prolifica autrice di trenta libri e oltre duecentocinquanta articoli, ancora mai tradotti in lingua italiana, Deborah Rhode fu la seconda donna a ottenere la cattedra alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Stanford in California. La sua attività di ricerca ha spaziato dalla discriminazione di genere, all’etica giuridica, al tema della leadership, alla giustizia sociale, fino a esplorare le tematiche più intime dell’adulterio, del carattere, dell’ambizione, e della malattia mentale. Il suo libro The Beauty Bias («Il Pregiudizio basato sulla Bellezza»), per esempio, svela la discriminazione legata all’apparenza che pervade la società attuale, compromettendo l’eguaglianza di opportunità nella scuola, nello sport, nel lavoro, nella retribuzione, e nella politica. Nel suo ultimo libro Ambition («Ambizione»), ancora in fase di pubblicazione, Deborah Rhode rivela i rischi associati allo stress che deriva dall’ambizione di eccellere e competere, e allo stigma e al silenzio che ancora oggi sono legati alla malattia mentale, malgrado la sua prevalenza. Il suo impegno a difesa dei più fragili e il suo coraggio nel denunciare le ingiustizie le valsero numerosi riconoscimenti, incluso il titolo di Champion of Change della Casa Bianca, conferitole durante la presidenza di Obama. La scomparsa della sua penna limpida e incisiva è una perdita per tutti. Ma i molti che l’hanno conosciuta di persona rimpiangono la sua sagacia, la sua generosità intellettuale, e il suo umorismo, che riusciva a trarre il meglio anche da una brutta giornata. 

Io conobbi Deborah Rhode quindici anni fa, quando arrivai a Stanford per lavorare con lei sul mio dottorato di ricerca. Inizialmente la fama che la precedeva, la sua inarrivabile genialità e le sue alte aspettative mi intimidivano e mi facevano sentire come una piccola impostora finita, per sbaglio e per caso, in un mondo a cui non apparteneva. Poi, lei cominciò ad invitarmi regolarmente a parlare del mio progetto e dei miei progressi camminando insieme lungo sentieri ripidi e soleggiati da cui si intravvedeva l’oceano in lontananza. Nel tempo, dietro la sua statura intellettuale, nascosta in un corpo leggero come una piuma e nei suoi occhi tersi incorniciati dai suoi capelli d’argento, cominciai a conoscerla davvero. Le nostre passeggiate divennero appuntamenti abituali che si snodarono negli anni, mentre noi, sempre più vicine, condividevamo le parti più intime di noi stesse: l’ansia della nostra fragilità, gli errori commessi, la solitudine, la maternità, e il languore delle storie che finiscono. Deborah Rhode rimase il mio giudice più temuto, ma diventò anche la mia più fiera sostenitrice. Come amava ripetere: «La capacità di realizzarsi individualmente è ciò che consente alle persone di raggiungere posizioni influenti, ma una volta raggiunte tali posizioni, quelle stesse persone devono concentrarsi per creare le condizioni per il successo degli altri».

La sua morte mi ha lasciato un vuoto incolmabile personalmente e professionalmente. La nostra vicinanza, anche geografica, non ha aiutato. Ma di recente, ho ricominciato a camminare, da sola. E camminando, ho iniziato a immaginarla passeggiare a sua volta sulle spiagge bianche battute dalle onde, o nuotare in quella macchia d’oro dove il sole si specchia nell’oceano. Nell’immaginare dove mi sta aspettando posso di nuovo sentirla bisbigliare i suoi consigli, incoraggiamenti, battute e rimproveri. Posso riuscire ancora a stringerla contro le mie ossa, e infine, ad accettare di lasciarla andare.

categorie
menu