Se scrivere tra le altre cose è anche la metafora di un viaggio, questa inchiesta rappresenta per chi l’ha svolta il viaggio dei viaggi, il più lungo e tortuoso. Partendo ormai dieci anni fa dai luoghi di quello che ancora oggi chiamano in borgata a Roma “il fattaccio”, l’omicidio di Pier Paolo Pasolini avvenuto la notte fra il 1° e il 2 novembre del 1975, dai suoi vicoli ancora poco percorsi, le sue periferie ancora poco illuminate; o dalla parte opposta le strade magnificate della Grande Bellezza, e infine dalle carte impolverate di una storia che finisce tra due tribunali (quello dei minorenni adiacente a Via Giulia e quello ordinario di Piazzale Clodio, invaso dai cronisti che si scambiano le notizie per spalmarle sulle tre maggiori testate), L’inchiesta spezzata di Pier Paolo Pasolini, da poche settimane in libreria per Ponte alle Grazie, è la tappa successiva, il “raccordo” naturale alla prima dal titolo Pasolini, massacro di un Poeta per lo stesso editore (2015).
Con il primo lavoro infatti ho compiuto dapprima tabula rasa su tutto ciò che era stato detto e scritto sull’omicidio, prese in mano tutte le carte del processo che si celebrò contro l’ex ragazzo di vita, Giuseppe Pelosi, e svolto un’inchiesta approfondita senza lasciare in sospeso nulla: anche la possibilità di un assassinio maturato durante un incontro sessuale, quale poi ho dimostrato non sia stato nonostante quanto indicato dall’ufficialità del processo che si è celebrato fra il 1976 e il 1979 (il quale riconobbe in Pelosi il solo autore dell’omicidio). Era necessario infatti esporre uno per uno su un tavolo immaginario tutti i pezzi di storia per escluderli o confermarli, ripercorrendo anche le settimane precedenti e successive a quella notte. Su Massacro ho pubblicato inoltre le foto del corpo dello scrittore, alcune di queste inedite, e svolto su quelle immagini, per quanto dure, delle analisi mettendo a confronto le perizie del tempo – allora già monche – con i segni effettivi sul corpo, intervistando uno dei periti della procura ancora in vita, altri personaggi, e studiando anche la conformazione di quei segni riferiti ad altri oggetti contundenti che colpirono Pasolini prima che più macchine lo schiacciassero (la versione ufficiale imputa solo al passaggio della sua Alfa GT sul corpo dello scrittore per mano di Pelosi in fuga la causa specifica della morte per schiacciamento). D’altronde come abbiamo avuto modo di vedere per storie più recenti, a esempio quella terribile che ha riguardato l’omicidio di Stefano Cucchi, le foto dei corpi spesso “parlano”. Senza l’evidenza dei segni lì lasciati, mostrare e dimostrare l’orrore e il crimine è più difficile, quasi impossibile. E dimostrare le modalità del crimine porta dritti agli esecutori. Ho sentito inoltre persone dimenticate nel tempo, messo in dubbio – affrontandoli – assunti e tesi che non portavano a una dinamica o a un movente certi e trovate nuove carte, rinvenuti nuovi documenti.
Da quel lavoro sono poi ripartita e con lo stesso metodo, arricchito però da un lavoro di analisi più completo e da una ricerca documentale più estesa, sono arrivata a questa seconda tappa. Una tappa che ha avuto un suo giro, una sua deviazione, una “fermata”, per restare in tema di viaggi, sul caso Aldo Moro per cui ho poi pubblicato nel marzo del 2018 per La nave di Teseo il libro-inchiesta La Criminalità servente nel caso Moro, sui cui sviluppi sto tuttora lavorando. Ma è stata solo una deviazione apparente perché anche quel libro, come potrà comprendere chi vorrà leggerlo, ha fatto parte di questo percorso a ostacoli ma prezioso: Moro e Pasolini sono stati entrambi vittime della strategia della tensione. Con L’inchiesta spezzata ho inteso dunque chiudere un cerchio apertosi prima indagando sul “come” e sul “chi” e in “quanti” abbiano agito la notte fra il 1° e il 2 novembre del 1975 e occupandomi finalmente del “perché”. Non si poteva racchiudere tutto in un libro: bisognava lasciar sedimentare le tante informazioni che nel primo lavoro avevo consegnato, far fluire anche un po’ l’orrore vivido di quella notte le cui dinamiche ho rappresentato attraverso l’incrocio di tanti fatti e l’utilizzo di diverse fonti, aperte e meno aperte. Talvolta chiuse. Lasciare insomma il tempo a quel “massacro tribale”, come da me definito nel primo libro, di spiegarsi per bene in modo tale che si comprendessero finalmente, a tutti i livelli, le dinamiche di un agguato feroce. Gli ultimi atti di quel primo lavoro avevano però già lasciato una pista nuova da poter seguire riguardo al movente: le lettere che il neofascista Giovanni Ventura aveva scritte a Pier Paolo Pasolini fra il 2 marzo e l’8 ottobre del 1975, pubblicate in appendice al testo e da me rinvenute presso il Gabinetto Scientifico di Firenze Vieusseux, dove nell’apposito fondo, dedicato allo scrittore, si trovavano e che per 40 anni non erano mai state rese note. Un periodo precedente la notte del 1° novembre 75, dunque molto circoscritto anche se per farlo ho dovuto riannodare i fili di una vicenda di corruzione e bombe che parte dal 1969, con flashback temporali e geografici ben precedenti.
Il filo che tiene insieme quest’ultimo lavoro parte proprio da qui e rintraccia il dossier inviato allo scrittore nell’ottobre del 1975, secondo quanto da me ricostruito, mentre era occupato a presentare il film Salò da poco terminato, a scrivere sul Corriere della Sera i suoi articoli corsari e il romanzo incompiuto Petrolio, uscito postumo solo nel 1992, a presentare infine il suo lavoro in versi tradotto all’estero, su tutti Le Ceneri di Gramsci. Un vorticoso girare, il suo, fra Stoccolma, Parigi e Roma dove torna la sera stessa del 31 ottobre quando concorderà l’appuntamento all’Idroscalo di Ostia, già deciso per lui la sera prima da Pelosi e i suoi complici, per rintracciare le bobine di Salò, le ultime scene sottratte alla società di produzione nell’agosto del 1975. Fra il marzo e l’ottobre del 1975 Ventura scrive dunque più volte a Pasolini accompagnando le sue lettere con dei documenti tramite alcuni suoi collaboratori coinvolti nella strategia della seconda linea, operazione interna a quella della tensione, che mirava (riuscendoci) a infiltrarsi nella sinistra culturale politica ed extra-parlamentare. Da Ventura, nonostante i tanti solleciti che arrivano via posta dai suoi collaboratori, lo scrittore ottiene un’unica ma significativa risposta, una lettera datata 24 settembre 1975. I contenuti su cui vertevano quegli scambi riguardavano le stragi che dal ’69 continuavano a essere perpetrate. Siamo in piena strategia della tensione, quella definizione coniata da un giornalista inglese su L’Observer il 14 dicembre 1969 (da me intervistato qualche anno fa), periodo che in questo libro, proprio in virtù di quell’espressione entrata ormai nella pubblicistica storica e giornalistica, è approfondito e che sull’espressione stessa apporta dunque luce nuova.
È una doppia inchiesta, questa da poco data alle stampe, che intende proseguire il lavoro interrotto di Pasolini, la cui figura di giornalista d’inchiesta, poco considerata, è qui affrontata e sviscerata. Una denuncia, come lo sono tutti i suoi ultimi documenti incompiuti, che avrebbe fatto tremare sistema, governo e palazzo. E di doppia inchiesta si tratta perché oltre a far emergere il movente strettamente collegato alla sua morte (i segreti politici dietro la strage di Piazza Fontana e in generale intorno al piano di destabilizzazione che doveva attuarsi in tutta Italia) quei segreti li sviluppa e ricostruisce. Alla fine del libro, nelle conclusioni consegno poi al lettore la summa di tutto quanto raccolto e collegato fin lì in una ricostruzione precisa che non lascia scampo e che allo stesso tempo lascia l’arbitrio a chi legge di decidere se le mie argomentazioni siano state convincenti. Conclusioni che da sole contengono altre novità, altri documenti inediti e utili alla ricostruzione. Come lo scrittore avvertiva infatti negli Scritti Corsari (pubblicati in raccolta nel maggio del 1975), è il lettore che deve, anche nella sua «ricostruzione di questo libro», «rimettere insieme i frammenti di un’opera». È lui che deve «organizzare i momenti contradditori ricercandone la sostanziale unitarietà».
Un modo per prestare fede al messaggio che, anche con l’ultima intervista rilasciata a Furio Colombo poche ore prima di essere ammazzato, Pasolini ha lasciato: «Qui manca il chirurgo che ha il coraggio di esaminare il tessuto e di dire: signori, questo è cancro, non è un fatterello benigno. Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzesco, fuori da qualsiasi logica precedente». Tornare a essere chirurgo, magistrato, politico, giornalista e lettore, un lettore che ha la chiave di comprendere quali sono gli strumenti democratici con cui vivere. Ciascuno col proprio mestiere, consegnando ognuno un pezzo di cellula nella nostra società impazzita nel tentativo di riordinarla.