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L’ebanista che sapeva far volare. Un ritratto di Charles Aznavour



All’anagrafe era registrato come Shahnourh Varinag Aznavourian, ma tutti l’abbiamo conosciuto con il nome d’arte di Charles Aznavour. Cantautore e attore, è stato uno dei più amati chansonnier, il crooner più famoso d’Oltralpe: una voce unica, il portabandiera della canzone francese nel mondo. Ci ha lasciati cinque anni fa, il 1° ottobre 2018, all’età di 94 anni, nella sua casa di Mouriès, nel sud della Francia.
Era nato il 22 maggio 1924 a Parigi, dove la sua famiglia di origine armena si era trasferita per sfuggire al genocidio perpetrato nei confronti del popolo armeno dai Turchi dell’Impero Ottomano. I suoi esordi furono difficili; fu poco accettato dalla società francese, e ostacolato proprio per le sue origini armene. Da bambino inoltre gli era stata diagnosticata una paralisi che gli bloccava alcune corde vocali e gli conferiva quel caratteristico, inconfondibile, incedere canoro lievemente rauco ma evocativo, e a tratti istrionico, che gli valse il soprannome di Aznavoice, ma che molti stigmatizzavano. Agli inizi della sua carriera, un critico ebbe a scrivere di lui: «Non canta bene, scrive brutte canzoni e non è bello». Aznavour rispose con una canzone, La critique, che, dopo essersi ben accertato di avere un nutrito e benvolente parterre di giornalisti, eseguiva ad ogni première.
Furono il padre cantante, Micha Aznavourian, e la madre attrice, Knar Baghdassarian, a fargli prendere presto confidenza con il palcoscenico favorendo il suo inserimento nel mondo teatrale – dove debuttò a soli nove anni nella pièce Un bon petit diable e in seguito nell’universo cinematografico parigino. L’inizio folgorante di una carriera che lo porterà a cantare in nove lingue diverse (anche in dialetto napoletano). Nel 2004 è stato insignito in Francia della prestigiosa onorificenza della Legion d’Onore e dal 2009 è stato Ambasciatore dell’Armenia in Svizzera. Ha venduto oltre trecento milioni di dischi nel mondo, ricevendo ovunque premi e riconoscimenti. Nel corso delle sue tournée in 94 paesi ha incantato milioni di spettatori e ha preso parte a ottanta film (ricordiamo in particolare Il Testamento di Orfeo di Jean Cocteau e Tirate sul pianista di Franҫois Truffaut). Settant’anni di onoratissima carriera ne hanno fatto un’icona della cultura francese e di quella armena.

Aznavour
Aznavour in studio negli anni Settanta

Furono il fortunato incontro nel 1946 con Édith Piaf, che lo accolse sotto la sua ala protettrice e lo portò con sé facendolo conoscere anche sulle due sponde dell’Atlantico, e le esibizioni all’Olympia negli anni Cinquanta a consacrarlo come artista di fama internazionale. Da allora la sua carriera è stata tutta in ascesa. Ha duettato, tra gli altri, con Liza Minnelli, Céline Dion e Nana Mouskouri. Negli anni Sessanta approdò felicemente in Italia, dove divenne noto come interprete di canzoni quali Com’è triste Venezia, La Bohème, L’istrione, E io tra di voi, con partner come Mina, Iva Zanicchi (con la quale collaborò a un intero LP), Ornella Vanoni, Franco Battiato, Renato Zero, Gino Paoli, Domenico Modugno, Massimo Ranieri, Enrico Ruggeri, Mia Martini e Gilda Giuliani.
Si trattava di canzoni del suo repertorio, tradotte in italiano dai migliori autori presenti sul mercato, con la collaborazione di Giorgio Calabrese, Sergio Bardotti e Mogol nei primi anni Sessanta e successivamente di Lorenzo Raggi. Verso la fine del 1988 fu realizzato con Sergio Bardotti e con la sottoscritta un intero LP dal titolo Momenti sì, momenti no. Nelle interviste che rilasciava, Aznavour non dimenticava mai di citare queste collaborazioni e sottolineava anche di essere un perfezionista, puntiglioso – come diceva lui stesso – «con il microfono da una parte e il vocabolario dall’altra», esigente e attento anche all’apparentemente insignificante. Soddisfarlo nella traduzione dei suoi testi non è mai stata una passeggiata per nessuno…

Aznavour

Le sue sono per lo più canzoni d’amore, di un amore viscerale portato agli estremi, a volte tradito, raccontato anche nella sua realtà nuda e sconvolgente: senza sovrastrutture, tabù, freni e mezze parole. Quel che si dice parla apertamente di omosessualità. L’amore è raccontato con forza prorompente, ma non per questo meno tenera, dalla voce profonda di Aznavour, che dà corpo all’emozione senza essere importuna.
Oltre che artista straordinario, fu anche un uomo straordinario. L’impegno per la sua terra, l’Armenia, e l’aiuto per il suo popolo non si limitavano a interventi astratti, a slogan o facili operazioni di facciata: si traducevano nei fatti. Pagava voli aerei, all’epoca particolarmente costosi, per chi doveva lasciare il Paese, sosteneva, senza mai esibirlo, costi ingenti per fornire aiuti e soccorsi. Non vedeva però il popolo turco come nemico: in Turchia aveva molti fan, ma affermava che non potevano bastare le mezze scuse di Erdogan per il genocidio degli armeni. E paventava l’ingresso del Paese nell’UE. Sul piano religioso, ha sottolineato più volte di credere in un Dio unico e cosmico, e non faceva distinguo tra i vari credo, tra sinagoghe, moschee, chiese. 

Aznavour
A New York nel 1963

Quando Sergio Bardotti, che aveva già lavorato con il Maestro traducendo tra gli altri E io tra di voi e L’amore è come un giorno, mi aveva annunciato telefonicamente che c’era un lavoro “interessante” da fare, non avrei mai pensato che potesse trattarsi di un intero album di Aznavour, un mito. Il saperlo mi terrorizzò al punto giusto, tanto da stimolarmi e convincermi a provarci. Certo, il fatto di avere lavorato con Bardotti, alla cui scuola ero cresciuta nutrendomi della frequentazione e della conoscenza di grandi autori, da Endrigo a Chico Buarque, da Jobim a de Moraes, da Bindi alla scuola francese, mi rendeva meno ansiosa. Ma non mi sarei mai aspettata che Bardotti, divenuto nel frattempo autore televisivo a tempo pieno, arrivasse a Breno con le registrazioni delle canzoni in francese e mi affidasse il compito con un laconico «qui si parrà la tua nobilitate».
Panico puro. Avevo due Maestri di razza da non deludere. Sul lavoro Bardotti era un professionista preciso, inflessibile, a tratti duro. Non perdonava nulla. E sapevo già anche della severità di Aznavour, di quanto tenesse al suono esatto e preciso delle parole, e alla fedeltà assoluta nella traduzione. Era un osso durissimo. Però mi sono sempre piaciute le sfide.

Nel lavoro, come nella vita, amo le emozioni che rovesciano dentro, che rendono ben coscienti dei propri limiti e della propria fortuna. Quel lavoro era una samba delle benedizioni, tutto insieme, tutto per me.
Così mi sono messa al lavoro di cesello giorno e notte su quel materiale, tenendo conto di tutto, dalla fedeltà nella traduzione alla necessità di evitare qualche lettera, qualche parola che potesse compromettere la perfezione nella pronuncia di Aznavour. Certo, alla fine Sergio Bardotti avrebbe reso magico tutto, ma il primo step di approvazione del lavoro passava attraverso Aznavour e dovevo, volevo, essere all’altezza del ruolo. Si può quindi facilmente immaginare quale felicità ho provato quando, sul testo Je me raccroche à toi (il titolo italiano è Mi aggrappo ancora a te), mi sono vista recapitare un «Bravo Nini!” con la firma di Aznavour, senza neanche una riga che ne cancellasse un verso o ne chiedesse la sostituzione. Commento ovviamente incorniciato, e tra le cose più belle che custodisco oggi.

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Mancava un vero incontro tra noi, perché nella fase di costruzione dell’album Momenti sì, momenti no lo avevo sentito solo telefonicamente. Ebbi finalmente occasione di incontrarlo al Festival di Sanremo del 1989, dove era ospite d’onore e aveva cantato proprio la canzone che dava il titolo all’album. La concitazione che caratterizza la kermesse sanremese, la breve permanenza di Charles e l’esiguo tempo a disposizione non tolsero pathos all’incontro. Peraltro, all’epoca io ero molto “selvatica” (così come in parte sono ancora), le luci della ribalta mi hanno sempre messo a disagio. Da montanara abituata alla tana, faccio fatica a controllare il senso di inadeguatezza che mi prende quando le luci sono troppo forti. Questo però non mi ha impedito di cogliere la statura di Aznavour: artista generoso, uomo di grande schiettezza, dotato di un’ironia sottile, profonda e leggera. In scena scherzava anche sulle défaillances dell’età. Nonostante il successo, aveva mantenuto intatto un grande senso di umanità.
Conservo gelosamente nel mio studio camuno, ricco di ricordi, un provino di Aznà per il brano Je veux te dire adieu, che, benché tradotto e cantato in italiano, non si poté inserire nell’album perché vi era una traduzione precedente che ne impediva il deposito Siae. Quel brano fu inciso anni dopo, per un disco dedicato a Bardotti e realizzato dal Club Tenco, da un meraviglioso Massimo Ranieri, accompagnato magistralmente al pianoforte dalle mani di Stefano Bollani. È questa la canzone che, con Le barche sono fuori, mi ha più coinvolta emotivamente.

Aznavour
Charles Aznavour con Nini Giacomelli

Negli anni, seguendo la sua carriera, ho sempre guardato a lui come a un intellettuale attento, come traspare dalle sue canzoni. C’era una grande Persona in quel piccolo uomo. E c’era un senso della professionalità che manca nella maggior parte degli artisti di oggi. Aveva una grande padronanza del palco, una gestualità precisa e pulita, anche a novant’anni. Lo chiamavano “il poeta del dolore armeno” e forse è stata proprio quella vena di dolore che lo ha reso istrionico, capace di dare alle parole la forza del sorriso, del riso, del pianto. Sapeva cogliere il momento esatto in cui la parola si fa musica, sussurro, grido.
Di sé stesso l’ho sentito dire «Non sono una star. Le stelle sono filanti, passano e non ci sono più. Io sono un ebanista che consegna il suo lavoro di cesello». Basta questa affermazione a dare le dimensioni del personaggio. E della sua generosità, che traspariva ogni volta che citava i quattro o cinque autori che hanno tradotto in italiano alcune sue canzoni (da lui definiti “straordinari”): con mio grande stupore non si scordava mai di me, che ero l’ultima arrivata, e di quell’ultimo suo disco italiano al quale era affezionato.
Sì, sono una vecchia ragazza fortunata, perché mi sono stati regalati sogni che mi permettono di continuare a sognare ancora oggi, a 68 anni suonati. Forse perché ho seguito alla lettera il suggerimento di Aznavour che meglio lo rappresenta, «fai della tua vita un’avventura, sorprendi gli uomini e le donne intorno a te. Con umiltà, gentilezza, semplicità». Proprio così, Charles.

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