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La verità negata. Perché a distanza di 40 anni le stragi di Bologna e Ustica non hanno risposte

Un lettore ha sintetizzato al meglio perché le mie inchieste raggiungono obiettivi che spesso sono sotto gli occhi di tutti ma che non vengono né visti, né percepiti: «Cucchiarelli mette insieme nella maniera più giusta tessere che già c’erano e che tutti – chi più, chi meno scientemente – hanno sempre montato in modo maldestro. E così finisce per arrivare prima di tutti quanti».
Il modo con cui si arriva a certi risultati è il frutto di un “immergersi” totale nel tema; una dedizione totale alla ricerca di quelle tessere sicuramente vere – genuine – del puzzle che piantate sul tavolo della ricerca indicano rotta, obiettivi, suggeriscono e richiamano altre tessere, temi, riscontri su bugie, documenti, affermazioni, interviste, ecc. Di fatto sono le tessere “certe” messe sul tavolo che indicano il passo successivo della ricerca. Ad esempio; il tanto criticato “doppio” è presente nella nostra storia fin dalla prima strage, quella di Portella della Ginestra del maggio 1947. Come anche sono presenti gli americani attraverso gli uomini della X Mas addestrati per l’operazione. E il doppio lo ritroviamo sia in Ustica, sia in Bologna e anche dopo a Capaci e, vedremo e capiremo presto, anche in via D’Amelio. Si tratta di schemi operativi di intelligence, non è una fissa di un giornalista ma un modulo operativo che indica che qualcuno vuole intervenire senza essere ufficialmente presente.

Da anni lavoro con la carta utilizzando tutto quello che è utile alla ricerca; il giornalismo e quello di inchiesta in particolare ha il privilegio di una immensa, unica, libertà di manovra; può utilizzare tutto quello che è utile all’inchiesta; basta essere onesti con la ricerca, se stessi e il lettore anche perché altrimenti i risultati non arrivano e non arriveranno mai. E capisci che stai sulla strada giusta quando i “misteri” diventano leggibili, le tessere del puzzle si vanno a deporre nella giusta collocazione e le cose si legano l’una all’altra, come nell’attacco non ortodosso al DC9 di Ustica dove ho visto allinearsi, anche per il contributo dell’amico Giuseppe Saraceno, tutti  i dati anomali che fino a quel momento erano solo incongruenze di una storia senza un ben preciso percorso. E ti accorgi che non hai sbagliato quando, come nel biliardo, tutte le palle vanno a buca e sul tavolo non rimane più nulla.
Spesso mi è stato chiesto da amici e lettori perché mi interessassi di fatti così lontani e non invece di questioni maggiormente prossime. Credo che indagare sulle radici dei problemi sia più interessante e fruttuoso che soffermarsi su depistaggi, mancata giustizia, incertezza dei fatti e delle perizie, scomparsa dolosa di prove o testimoni; cioè le manifestazioni conseguenti un intervento esterno. La prospettiva miope sui fatti offre inoltre una possibilità maggiore di muoversi con una logica presbite che aiuta a capire cosa si cerca per svelare l’occulto ancora presente.

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Ho cercato di raccontare questo lungo periodo durante il quale l’Italia si è persa per strada. Il mezzo, come già detto, è stato il doppio. La doppia bomba di Piazza Fontana che tutti “incastra”: il doppio soggetto politico che gestisce e controlla il rapimento e l’omicidio Moro (BR e strutture segrete americane); il doppio Air Malta che sferra il primo attacco al DC9; il doppio esplosivo dentro la sala di aspetto della stazione. In fin dei conti una banalità ma che cela agli occhi dei più quel doppio Stato che ha agito dentro quello ufficiale. Guido Calvi, già difensore di Pietro Valpreda, ha detto che la sinistra «si è ostinata a leggere le ragioni della strage di Bologna con la stessa chiave di Piazza Fontana. È stato uno sbaglio. Bologna si spiega forse solo come il punto di soluzione di un conflitto oscuro tra i poteri di uno Stato che si era fatto doppio». Appunto. È stata una cavalcata dentro un’Italia che non c’è più da tempo ma fatti e accadimenti, scelte e silenzi maturati in quel periodo, ancora pesano sulla nostra storia. Spero che ora questo sia più chiaro.

Per il resto è stata una grande esperienza di vita e professionale, perché il giornalismo di inchiesta, quello investigativo in particolare, può ricercare la verità dei fatti con tutti gli strumenti utili e varcando confini che a tanti sono sbarrati o preclusi. Lo si può e deve fare anche quando la ricerca della verità sembra inutile perché in un paese come l’Italia ogni briciolo di disvelamento, di verità dei fatti, anche lontani, aiuta ad irrorare le radici sempre più esangui di questo Stato.
È stato un tentativo di raccontare quello che finora non si poteva “vedere”. Ecco perché in questa inchiesta non c’è un solo documento segreto, sottratto alla pubblica opinione, ai magistrati o ai giornalisti; sono tutti sotto gli occhi di tutti, cioè nel posto più invisibile della nostra nazione. In questo racconto non esiste nessuna gola profonda, nessun pentito, nessun misterioso personaggio che di punto in bianco decide di rendere noto tutto quello che sa. Non solo: non esistono neanche misteriosi documenti segreti magicamente resi pubblici, carte desecretate, nessuna clamorosa rivelazione del politico di turno, niente di tutto questo. Si è lavorato secondo una precisa tecnica e con una logica: come in quel famoso gioco della Settimana enigmistica si sono collegati i puntini evidenti di una storia sommersa nelle carte. È sufficiente, per farla emergere, non forzare nessuna verità precostituita, farsi guidare solo dai fatti e alla fine le testimonianze s’incastrano fra loro perfettamente, sostenendosi e validandosi a vicenda.

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Paolo Cucchiarelli

Credo che sia ormai universalmente acquisito che anche il terrorismo può essere utilizzato per raggiungere obiettivi politici che non si possono centrare con mezzi militari convenzionali. Queste due stragi rappresentano l’esordio in Italia e in Europa di un nuovo modo di fare la guerra a uno stato per determinare un cambio d’indirizzo politico e un riallineamento agli impegni sottoscritti e alle alleanze ufficiali.
In Ustica & Bologna. Attacco all’Italia, pubblicato da La nave di Teseo, il lettore troverà, come nelle mie inchieste precedenti, il tentativo di identificare e delimitare quello che possiamo definire lo “spazio narrativo iniziale”; perché è proprio quell’area, molte volte di pochi metri, che determina e motiva le mille mani che si sono alzate a occultare, manipolare, distruggere, uccidere. L’area da cui si dipanano le due contorte vicende giudiziarie riguardanti le stragi del 1980, ormai rubricate per gran parte degli italiani sotto la voce “misteri”; termine che dovrebbe essere cancellato dal linguaggio giornalistico, a meno che non si scriva per L’Osservatore Romano.

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La strage di Ustica

Le inchieste giornalistiche si soffermano, di solito, a ricostruire i passaggi che conducono verso quello spazio narrativo iniziale degli avvenimenti – arrestandosi davanti al perimetro esterno – oppure raccontano le conseguenze che scaturiscono esattamente dal confine di quell’area, che è insieme un luogo, un fatto e una non cosa. Qualcosa d’indicibile o di non definibile, ma presente. Un segreto che motiva e determina il mistero, cioè l’impossibilità pratica di capire cosa accadde in quelle due nere giornate di attacco al nostro paese. Unico dato certo è che da quell’iniziale grumo di silenzio si sono irradiati e manifestati per molti anni depistaggi, scomparsa di prove o testimoni, espressione tangibile ma inspiegata di una cieca volontà di non vedere, non sentire e non capire.
Ormai si dà per scontato che sia impossibile varcare quell’area in cui accadde “il fatto”; un’impotenza politica che è diventata un’ovvietà storico-giuridica. Nessuno, però, ha mai convintamente spiegato per quale ragione l’Italia abbia dovuto (e debba) rinunciare a darsi una spiegazione del perché oltre centosessanta persone siano morte sul proprio territorio senza un’apparente motivazione. La ridondanza d’ipotesi ha annacquato la possibilità di comprendere il fatto nella sua essenzialità.

Ecco cosa manca in queste due vicende: l’essenziale; cioè il perché delle due stragi, cosa aveva motivato un tale duplice sanguinoso attacco contro l’Italia. Cosa si deve coprire? Perché non è possibile capire cos’è effettivamente accaduto nei pochi metri e nei pochi secondi dell’accadimento che porta alle due stragi?
È tutto molto difficile da districare, ma se c’è la matassa ci deve essere anche il bandolo. Sempre, per quanto difficile sia da rintracciare, perché – come ci dice Leonardo Sciascia – quell’area di verità esiste; è una realtà concreta, è un fatto. Nessun mistero, né insondabili “poteri occulti”, solo responsabilità per lo più politiche. Lo spazio di verità, il luogo in cui si può comprendere cosa è accaduto e il perché lo si voglia coprire a tutti i costi esiste sempre, anche nei casi apparentemente più aggrovigliati. Quelli diventati pezzi della nostra storia.

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La strage di Bologna

Il 1980 è un anno rivoluzionario; in Italia si apre con l’omicidio, mai effettivamente chiarito, di Piersanti Mattarella, presidente della regione Sicilia che aveva ventilato di realizzare a Palermo quello che a Roma non era riuscito ad Aldo Moro e cioè la presenza delle forze popolari, DC e PCI, nel pieno governo dell’isola.
Ma, quello stesso anno, l’evento più importante per il futuro del paese fu all’epoca quasi impercettibile. Uno scatto del telecomando appena tre giorni dopo l’omicidio di Mattarella. Il 9 gennaio, un mercoledì, Silvio Berlusconi lancia la sua sfida alla Rai. Una sua trasmissione da Telemilano viene trasmessa, “sfalsata” di pochi minuti, lungo tutta la penisola. È il primo network televisivo privato. Inizia un’epoca.  
Nel 1980 cambia pelle la mafia, che inizia il suo passaggio dalla guida di Stefano Bontade a quella dei corleonesi di Totò Riina. E Giulio Andreotti, per la giustizia italiana, ha collaborato da esterno con le cosche almeno fino al 1980.
Questo è l’anno in cui – per la prima volta – i politici difendono pubblicamente la corruzione. Franco Evangelisti, il braccio destro di Giulio Andreotti, un uomo che – secondo diversi testimoni – incontrava gli oltranzisti di destra poco prima della strage di piazza della Loggia, si dimise perché uno dei finanziatori della corrente andreottiana, Gaetano Caltagirone, sotto scacco per la vicenda dei finanziamenti politici della Italcasse, rilasciò una clamorosa intervista per dire che lui i soldi li dava ben contento: «A Fra’ (Franco) che te serve?», diceva quando gli telefonava o si avvicinava il cassiere della corrente. Lui, Caltagirone, firmava in bianco l’assegno. La cifra la metteva Fra’.
Andreotti, in difficoltà e senza incarichi politici dopo la guida dei governi di solidarietà nazionale, aspirava a fare il presidente della DC, la carica di Moro quando venne ucciso dalle BR, dagli americani e dallo stato.

Giulio Andreotti e Aldo Moro

Nel 1980 si cercò di spaccare e condizionare proprio la DC e il PCI. Nel giugno del 1979 uno stretto collaboratore di Benigno Zaccagnini denunciò le massicce pressioni di autorevoli esponenti del grande capitale, a cominciare da Eugenio Cefis, che finanziò proprio quell’ala della DC tecnocratica e filoamericana da cui aveva messo in guardia Aldo Moro nel memoriale dalla “prigione BR”.
Il 20 febbraio 1980 la DC, scaricato Andreotti, giubilò anche Zaccagnini cambiando la maggioranza al congresso del preambolo – una pregiudiziale che chiudeva nettamente il confronto con il PCI aperto nel novembre del 1968 da Aldo Moro.
Nel luglio del 1980, il capo CIA a Roma Clarridge ipotizzò di proporre al PCI una “operazione soluzione finale” che avrebbe dovuto risolvere una volta per tutte la presenza comunista in Italia; un accordo in tre fasi con test ai capi del PCI. Si ipotizzarono trattative segrete con un numero ristretto di alti dirigenti comunisti. In una delle sentenze per Bologna si trova un capitolo dal titolo Progetto scissione del PCI che “forse” fa risalire al 1981 il progetto di finanziare con fondi americani la spaccatura del PCI: «Si trattava di cosa molto grossa, superiore al livello di influenza italiano», afferma la sentenza.
E il PCI in quell’anno terribile volta le spalle alla DC. Si chiude un arco temporale che va dal novembre del 1968, con l’apertura di Moro alla strategia dell’attenzione al PCI con cui si rispose con la strategia della tensione, al 28 novembre del 1980 quando Berlinguer abbandona la strategia del confronto con la DC nella drammatica riunione di Salerno. Da novembre a novembre. É stato questo l’arco di indagine di questa lunga inchiesta in quattro libri.
Era stato anche lo sfascio dello Stato dopo il terremoto dell’Irpinia a spingere il PCI a quella rottura. Ucciso Moro (1978), uccisa la sua politica (estate 1980) poco rimaneva su cui dialogare tra DC e PCI che scelse la via della “alternativa democratica”. Iniziano gli anni Ottanta con il loro sinistro sbrilluccichio, sfociato in Tangentopoli.

Un dato è certo: dagli anni Ottanta in poi, l’Italia è diventata un paese ammalato di narcisismo, presuntuoso, arrogante, infantile e invecchiato malamente, sempre pronto a sfuggire a ogni concreta forma di responsabilità individuale e collettiva. Si tratta di una vera e propria mutazione genetica, che è insieme politica, culturale e sociale che apre la strada all’era dei “nani e delle ballerine” – e Craxi non era il peggiore tra i politici di quell’era, anzi – che sfocia in Tangentopoli e poi in quella che senza fondamento, né morale, né politico, né giuridico, si definisce Seconda Repubblica. È un discorso complesso che non si può correttamente condensare.
A questa mutazione contribuirono proprio le due stragi più sanguinose della Repubblica, non solo per il bilancio di morte ma precipuamente per il peso del condizionamento politico che esercitarono sul paese in termini di indirizzo generale rispetto alle scelte future. E ciò in virtù del ricatto cui si dovette piegare l’Italia e dell’ammonimento in termini di libertà dello stato.
Ecco perché ho dedicato questo lungo lavoro di inchiesta a questo periodo decisivo per capire da dove sia “uscita” l’Italia che oggi abbiamo tutti sotto gli occhi.

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