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I sacrificabili. Voci silenziose dalle RSA lombarde ai tempi del Covid


Quando gli chiedo cosa sia stato, in questi anni, il suo rapporto con gli anziani, la vecchiaia e la vita che cammina a passi lenti verso la fine, Lorenzo consuma il silenzio più lungo della nostra conversazione.
Non si tratta solo di parlare degli anziani con cui ha lavorato ma di associare parole esatte a vite che sono state considerate, sottotraccia, perdibili, nello spirito del tempo di questa pandemia.
Gli anziani, cioè i sacrificabili.
La frase proibita, espressa sotto forma di spallucce alzate prima con soggezione, e poi con sempre meno esitazione. Che sarà mai, diceva l’eco dell’imbarazzo.
Pluriottantenni. Pazienti con patologie pregresse.
Formule, sì, ma non solo. Alibi della coscienza collettiva, inconfessate giustificazioni della paura di morire. Meglio a un altro che a me, se poi è un anziano, in fondo, doveva essere.
Perciò, quando ho chiesto a Lorenzo cosa gli anziani gli abbiano insegnato e consegnato nei suoi anni di lavoro in una RSA del bresciano, si prende il tempo per scremare le parole: «Memoria, mi hanno affidato la responsabilità della memoria».
L’anziano è saggio, recitano i luoghi comuni sulla terza età. Quel luogo comune, per Lorenzo, è un luogo abitato dalle lezioni della terra. La struttura residenziale in cui lavora Lorenzo non è un ospizio di città, è una residenza di paese, gli anziani che la abitano sono stati contadini, in fondo lo sono ancora, perché quando hai trascorso la vita intera a intrecciare una conversazione con la terra, resti parte di quel legame per sempre.

Il primo ricordo che evoca non è una memoria di strazio, è vitale.
Lorenzo è un fisioterapista, fino a sei mesi fa, prima della pandemia, lavorava in tre strutture per anziani nella provincia di Brescia, poi ne ha lasciata una, si è avvicinato a casa, ha aperto uno studio privato con sua moglie che lavora con lui, investendo i risparmi di una vita.
A marzo, però, la vita si ferma. E Lorenzo si siede accanto a uno dei saggi anziani della terra, racconta e piange. Che ne sarà di me? Che ne sarà dei progetti della mia famiglia? L’anziano che per tutta la vita aveva dialogato con la terra gli mette una mano sulla spalla e dice: «I bambini vengono sempre grandi e i debiti si pagano sempre».
La dimestichezza con tutto quello che esiste malgrado noi e a prescindere da noi.
«Prendi frasi come queste e te le porti via, e ogni volta che le tiri fuori decidi se siano carezza, ammonimento o insegnamento» dice Lorenzo, che cammina da allora con quelle parole in tasca, voce popolare, voce della terra, voce che racconta un rapporto con il tempo e la natura che fino a tre mesi fa ci era estraneo. Di più, ci era nemico.
Chi ha lavorato una vita legato alla terra sa che non è padrone di nulla, che nulla gli appartiene. Chi ha vissuto della terra sa convivere con l’imprevedibile, sa che dopo una grandinata che compromette la raccolta del grano si mangerà di meno, sa che se arriva la pandemia può sperare di venirne fuori, ma non pretende né chiede di poterla controllare.
«Ci è mancata questa disposizione d’animo. Il Covid-19 ha bussato alla nostra porta e pensavamo di poter trovare il farmaco in due giorni. Certe cose non si controllano, l’anziano lo sa. E se lo ascolti, te lo insegna».

Covid

Lorenzo riordina le idee, parla nell’ultima domenica di lockdown, ripete come una preghiera: non possiamo controllare tutto.
Lui che si era riavvicinato a casa, che aveva appena progettato un nuovo lavoro, improvvisamente fermo un giro, costretto a rivedere i piani, riaggiustare il tiro. 
Lorenzo lavora in due strutture, ognuna ospita – o meglio, ospitava – settanta anziani, 140 in totale. Ne sono morti la metà. Forse di Covid.  
Forse, perché ancora, a metà maggio, non si conosce il numero esatto dei contagiati totali, né ci sono dati sulle morti accertate per l’epidemia. Non tutti i deceduti erano sottoposti a tampone, quindi le cause delle malattie sono presunte, ma le morti certe e numerose.
Prima dell’epidemia Lorenzo non aveva compiti assistenziali, ma riabilitativi. Per lui, lavorare con gli anziani, significava accompagnarli a un miglioramento della mobilità, prevenire problemi. Poi, perché in questa storia per ognuno di noi c’è un prima e un dopo, ha trasformato il suo tempo di lavoro nelle RSA in un supporto agli infermieri e agli ospiti.
Benché questa parola non gli piaccia affatto.
«Li chiamiamo ospiti, ma siamo noi a entrare in casa loro, nell’intimità del loro spazio. Come è entrato il virus, senza bussare, disintegrando la loro routine, isolandoli in una doppia solitudine».

La ritualità per un anziano è parte del contatto col mondo esterno.
In strutture di paese lo è in modo vivido, significa visite dei bambini dell’asilo del quartiere una volta al mese, o quelle settimanali degli altri anziani del paese, quelli più fortunati che arrivano con buste di dolci o lavoretti da fare.
Interrompere questa routine significa interrompere gli stimoli, e significa un decadimento cognitivo rapidissimo che lascia le persone disorientate in uno spazio stretto, circondato da altre persone che muoiono senz’aria.
Oggi che il conto dei morti e dei contagiati è rallentato, Lorenzo si guarda indietro di due mesi. I giorni in cui rientrava in casa e la prima domanda di sua moglie non era: Come è andata? Né: Hai mangiato? Ma: Quanti morti oggi?
E lui recitava il bollettino quotidiano, il numero dei morti, dei contagiati accertati, se erano accertati.
Un giorno, ricorda, non c’erano più posti nella camera mortuaria, così ha preso il lettino della fisioterapia nella sua stanza e l’ha trascinato lì, in attesa di una salma. La quarta in tre ore.
E non era solo il numero dei morti, racconta Lorenzo, con la voce di chi sta elaborando solo ora a tre mesi di distanza, era la forma della morte, privata dei suoi dettagli: la cura, il rispetto, il riguardo.
I morti dovevano essere velocemente spostati dal letto verso la camera mortuaria, in attesa delle onoranze funebri. Ma non venivano spogliati, né rivestiti. Morti accertate senza elettrocardiogramma per toccare i pazienti il meno possibile, corpi avvolti in lenzuola bianche con tutti gli ausili che avevano addosso: flebo, catetere.
Una volta chiuso il lenzuolo ad avvolgere piedi e volto e mani e tutto il resto, pannoloni e aghi, uno spray disinfettante. Corpo chiuso nella forma più innaturale della morte. Quella privata del saluto a chi muore.
«Se ne andavano così, una sera li salutavi allegri con un’alterazione della temperatura, il giorno dopo avevano la febbre alta e quello successivo erano morti» racconta Lorenzo. Morti di fame d’aria. Quando gli chiedo come la descriverebbe dice: un’ansia senza rimedio, che ti fa sentire impotente.

Covid

Quell’impotenza è stata per Lorenzo, e per i tanti Lorenzo della zona rossa, l’espressione di una scelta, il bivio quotidiano della coscienza.
«Ho quindici pazienti nello stesso momento con difficoltà respiratorie, che hanno bisogno di ossigeno, e due sole bombole perché le bombole non arrivano. E devi scegliere in pochi minuti se dare ossigeno a chi sta un po’ meglio e forse può venirne fuori, o usare quell’ossigeno per accompagnare a morte dignitosa chi sta già morendo».
Cosa resta di queste scelte?
Un’idea del tempo che è ripartita da zero.
La scienza inciampa, ha bisogno di tempo «e noi non ne avevamo» dice Lorenzo. Che non ha perso la fede nella scienza, ma ha modificato radicalmente il rapporto che la scienza ha con il suo tempo.
Le telecamere, i titoli dei notiziari, dei giornali – ricorda – succhiavano le energie di tutti. Un vociare costante di sperimentazioni, farmaci, plasma, virologi e medici che si smentivano tra loro in diretta TV ventiquattro ore al giorno, mentre gli operatori sanitari dividevano due bombole d’ossigeno per quindici pazienti, perché non ce n’era abbastanza.
Ma la scienza procede per inciampi, smentite e prove. Non può avere fretta, perché per dare risposte alle domande della scienza, servono numeri «e tra questi numeri purtroppo ci sono anche i morti e i non guariti» dice Lorenzo, in un sospiro, «due miglioramenti gridati ai quattro venti non fanno statistica, purtroppo».

Lorenzo non ha mai avuto paura per sé, non era incoscienza, né cieco fatalismo.
Era la fiducia nei numeri. Non ha saltato un giorno di lavoro, nemmeno quando molti colleghi si davano malati per evitare i contatti con i corpi contagiati. E quando lo dice non giudica, Lorenzo. Elenca. Riporta.
Perché non si può giudicare la paura della morte. Soprattutto quando mancano camici, mascherine, copriscarpe. Tutto quello che, nel vocabolario burocratico della crisi, si riassume sotto la locuzione: dispositivi di protezione individuale.
«Siamo un gruppo di lavoro giovane. Giovane nelle nostre strutture ha significato tante cose, la consapevolezza che una morte di Covid a 35 anni ha un impatto mediatico forte ma non rilevante statisticamente. Quindi ho sempre pensato: se mi ammalo, probabilmente guarisco, perché i dati dicono questo».
Ma giovane ha significato anche subalternità intimidita, condotte spaventate dei direttori sanitari che di fronte alla richiesta di accogliere pazienti ospedalieri in struttura non sono stati capaci di dire no. «Da quel momento sono iniziati i contagi, da quando abbiamo registrato nelle RSA i pazienti che ci venivano mandati dagli ospedali».
Lorenzo e i suoi colleghi hanno cominciato a unire i puntini di questi mesi solo nelle ultime settimane, mettere in fila eventi, circostanze e numeri conseguenti.
Numeri dei morti.
«E non è solo una questione economica, non credo che le decisioni delle direzioni sanitarie fossero dettate dalla convenienza economica, non solo. Credo piuttosto che siano state determinate da una sudditanza verso l’istituzione: ti mando i pazienti, li prendi». Una questione di opportunità, buone relazioni, educazione e buon vicinato.
Il senno di poi lo infastidisce, eppure un “se” lo scomoda. «Se avessimo fatto come altre strutture del bresciano che non hanno seguito le indicazioni dei vertici di Regione Lombardia, se avessimo rifiutato i pazienti che arrivavano dagli ospedali, avremmo salvato qualche vita».
E invece le strutture in cui lavora piangono metà degli ospiti, o meglio degli uomini e delle donne che vivevano lì.
E i tamponi dei pazienti in arrivo dagli ospedali, che erano stati richiesti dal personale, non sono mai arrivati. Erano stati dichiarati non-Covid, eppure tutte le persone che sono entrate a contatto con loro nel giro di due settimane sono morte.
Cos’è il Covid, Lorenzo, a tre mesi dal suo arrivo?
«La benzina che aspetta il fiammifero che la accenda».

Covid

Anna ha cinquant’anni. Un figlio di diciotto che già lavora in fabbrica e uno di dodici.
Una madre ottantenne che vive al piano sotto il suo appartamento e che – dice Anna – è invecchiata di dieci anni in due mesi, un marito operaio.
Il proprietario dell’azienda per cui lavora suo marito, un mese dopo l’inizio dell’epidemia, ha donato un centinaio di camici e maschere alle strutture per anziani intorno Brescia.
Anche a quella in cui lavorava Anna.
Lavorava, tempo imperfetto, perché Anna si è licenziata due settimane fa.
Chiedeva il part-time da due anni alla direzione della struttura, sempre negato.
Mai un giorno di lavoro perso. L’infanzia dei suoi figli trascurata per prendersi cura degli anziani.
Poi il Covid. 110 pazienti in struttura, 40 casi. 35 morti.
Nella struttura in cui lavorava Anna non c’era un reparto Covid fino a tre settimane fa. Gli operatori sanitari condividevano i camici e non venivano sottoposti a tamponi.
Alla richiesta di spiegazione la direzione sanitaria ha risposto: se risultate positivi, poi, chi lavora?
Le mascherine FFP2 erano poche, quindi chi la usava a fine turno doveva disinfettarla e usarla il giorno dopo e dividerla con i colleghi del turno successivo. L’indicazione – comunque – era usarla solo nelle stanze di persone con la febbre.
Dopo le prime due settimane di emergenza la struttura ha esaurito i camici, così Anna e le colleghe del suo piano usavano i sacchi dello sporco. Quelli neri, dell’immondizia. Un taglio sul lato inferiore per inserire la testa e due sui lati per le braccia, che, però, restavano scoperte. E anche su questo, le indicazioni della direzione erano chiare: lavatele.

Covid

Anna ha visto tanta morte in struttura in ventitré anni, ma la morte col Covid è diventata un’altra cosa.
«Una mattina ero sola in reparto, stavo distribuendo la biancheria. La collega al cambio turno mi ha detto che c’era una paziente che non stava bene, tossiva molto, di darle un’occhiata. Sono scesa in camera sua, aveva un colore strano, ho messo su guanti e mascherina. Le ho alzato il braccio e l’ho trovata morta».
Si dice constatare il decesso, e oggi significa catalogare un numero. Un corpo che non è lavato, vestito ma avvolto come una mummia in un lenzuolo impregnato con l’alcool, in attesa che le pompe funebri portino via la salma, infilata di fretta in una bara.
E questo è tutto.
Anna ha sostituito le famiglie dei malati decine di volte in vent’anni. Famiglie che vivevano distanti e non sono riusciti a raggiungere i loro cari in tempo per l’ultimo saluto, o famiglie che quei cari, invece, li avevano abbandonati a una mesta solitudine.
«Ma tenevamo loro la mano», dice. Era il corpo che accompagnava un altro corpo alla morte, un corpo che attendeva che un corpo malato, o solo consumato, si congedasse dalla vita.
Poi la pandemia. Che ha moltiplicato la solitudine, come la valle amplifica la voce di Eco.
La solitudine nuova che priva la morte del corpo e della pelle, dell’accudimento e del rispetto del rito, che – certo – serve a chi resta e non a chi ci lascia, ma è parte del processo di comprensione della fine. La cognizione della morte.
Che, invece, con il Covid resta opaca, minacciosa, sospesa.

A marzo Anna ha avuto febbre alta per giorni, poi anche i suoi figli e suo marito.
38.5, 39. La telefonata al medico del paese: prendi gli antibiotici, non posso venire a casa, lo sai, non è sicuro.
Antibiotico e aspetta.
E Anna e la sua famiglia hanno aspettato, fino al giorno in cui lei avrebbe dovuto tornare al lavoro.
Anna compone il numero della struttura, chiede alla segreteria di parlare con la direttrice sanitaria: ho avuto febbre alta, sono senz’altro sintomi Covid, non sento né odori né sapori, dice Anna, ho bisogno di capire se posso tornare al lavoro, se posso fare un tampone.
Ma i tamponi non c’erano, la direttrice sanitaria non ha voluto parlarle ma le ha mandato a dire che se la febbre e la tosse fossero passate, sarebbe potuta tornare a lavorare.
E così ha fatto. Il sedicesimo giorno è tornata in RSA. Forse contagiata, forse portatrice di contagio. Di certo senza protezioni né indicazioni e protocolli a proteggere né lei, né gli anziani che accudiva.
Una sera, aveva il turno di notte, dalle nove alle sei del mattino dopo, Anna riceve una chiamata di suo figlio maggiore.
«Mamma vorrei farti compagnia», sapeva che Anna e le sue due colleghe erano sole a prendersi cura di un piano intero.
Anna l’ha rassicurato, invitato a riposare: Non preoccuparti, Michele, sto bene.
Poi gli ha tirato un bacio, è uscita dalla stanza degli anziani con tosse e fame d’aria, è arrivata nella stanza che era la stanza comune fino all’inizio della pandemia e ha pianto per mezz’ora.
La mattina dopo alle sei è tornata a casa, si è spogliata sul pianerottolo, è corsa in bagno a lavarsi – un solo bagno, come potevamo evitare di contagiarci tutti, con un solo bagno? Dice – è uscita dalla doccia, indossato gli abiti di casa. Ha abbracciato suo figlio e si è licenziata.
«Oggi ci sei, domani no. Mi sono sentita colpevole verso gli anziani, ma non sono un’irresponsabile».
«Proteggi solo se sei protetto», dice Anna.
Poi dall’altra stanza si sente la voce di Michele, «Sbrigati mamma, la pasta è pronta».
Oggi ha cucinato lui.





Photo credits: Alessio Romenzi, 2020

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