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Essere popstar, costruzione e decostruzione della mitologia



L’ultimo in ordine di apparizione è Billie Eilish: The World’s a Little Blurry, ma sempre più la forma documentario sta diventando parte fondamentale dell’immagine pubblica delle grandi popstar globali, in particolare femminili, da Lady Gaga, a Taylor Swift, a Beyoncé: prodotti realizzati in grande stile sotto l’egida degli stessi oggetti di osservazione, da loro a vario titolo prodotti, diretti, o comunque controllati e approvati. Nulla di nuovo all’orizzonte, verrebbe da dire, se già Madonna, da A letto con Madonna in poi, aveva portato sullo schermo i propri tour dando alla parte musicale un ruolo minoritario, e focalizzandosi invece sulla creazione del proprio mito. Madonna aveva già messo in scena messaggi politici, in particolare sulla sessualità e la religione, utilizzando un indubbio valore di shock e con l’intento di evidenziare la straordinarietà di una singola persona rispetto alle convenzionalità della massa.

A suo modo l’approccio era già sul modello dell’arte confessionale, a celebrazione però di una forza (“Io sono unica”). Ora invece i temi che si stanno facendo largo sono quelli della debolezza e dell’umanità (“Io sono come tutti”): la cifra della gestione odierna della celebrità punta sulla modestia e l’accessibilità. Le star non si propongono più come divinità assolute, e forse gli unici dei rimasti nell’immaginario contemporaneo sono i campioni olimpici, che portano ancora in sé un’idea di trascendenza e superamento del possibile umano. Per tutti gli altri l’approccio comunicativo è cambiato e le star non sono più irraggiungibili, ma anzi sui social fallibilissime, imperfette, e adorate quando postano foto senza trucco. I talk show a cui partecipano le coinvolgono in giochini da salotto e scherzi puerili, un approccio ludico funzionale sia alla dimostrazione delle loro abilità performative che in qualche modo alla loro messa in ridicolo.

Popstar

Allo stesso modo i documentari rilasciati dalle popstar, da quello già citato su Billie Eilish, a Gaga: Five Foot Two su Lady Gaga, a Miss Americana su Taylor Swift, non celebrano il divismo ma dei valori propri dell’umanità stessa, dei quali l’artista di turno diventa testimonial in quanto individuo sì dotato di talento, ma soprattutto di tenacia di fronte alle avversità. Se il mondo fiorentissimo del self-help e del motivational si è allargato a dismisura in una manciata di decenni dalla letteratura, alle magliette, ai quadri da appendere alle pareti di casa, alle massime postate in qualsiasi spazio digitale, ecco che il marketing delle grandi celebrità musicali, caratterizzate da un’immagine pubblica molto più coesa di quelle, ad esempio, cinematografiche, non può certamente farsi sfuggire l’aspetto valoriale.

Eppure le star restano in bilico fra divinizzazione e umanizzazione, perché di fatto la stessa narrazione delle loro difficoltà, unita al dato incontestabile del successo, il loro saper restare comunque al top of the game, si configura come trionfo della volontà  e mitica vittoria contro l’avversità. Naturalmente il racconto delle prove e delle fatiche dell’eroe/artista per arrivare al pubblico riconoscimento del suo lavoro sarebbe un topos più che consolidato, ma anche di scarso appeal su generazioni la cui fede nella consequenzialità fra merito e risultato ha vacillato da un pezzo. In un mondo in un cui persino i supereroi, a mimetismo delle loro audience principali, sono sempre più irrisolti e a volte persino disperati – vedi il recente enorme riscontro di WandaVision – occorre che anche le popstar affrontino un nemico un po’ più interessante.

Così ora i documentari non costruiscono più la mitologia di personaggi cui la popolarità non può che arridere per logica conseguenza di straordinarie doti, ma mettono in scena protagonisti nei quali si incarnano valori che stanno attraversando la società, valori spesso in crescente ascesa di consensi, dei cui segnali deboli le popstar si fanno al contempo testimonial e appropriatori. Sono dunque documentari che implicano un allargamento del pubblico, da oggetti riservati agli iniziati del fandom quali erano un tempo, a motivo di interesse per chiunque si avvicini incuriosito dal personaggio e si ritrovi poi coinvolto su temi che aleggiano nel comune sentire. Naturalmente ciò non significa affermare che per le persone dietro i personaggi tali idee e opinioni non possano essere realmente sentite, ma solo riflettere su come la loro rappresentazione possa con facilità indurre nello spettatore un percepito di intimità simile a quello indotto dai social media, in un formato però temporalmente esteso molto più adatto all’argomentazione di concetti.

Un tema pressoché ubiquitario in questo corpus di opere è la conflittualità verso il proprio lavoro, in un segno per molti versi contrario alla celebrazione dei risultati raggiunti. E per quanto le riflessioni sulla fama siano invariabilmente iscritte nel corpus dei testi, con tutte le popstar a patirne a vario titolo gli effetti, non ci si ferma agli aspetti più evidenti: in Billie Eilish: The World’s a Little Blurry il vero struggimento della protagonista è il processo compositivo in sé, con l’ammissione rabbiosa e angosciata di quanto detesti farlo, e Lady Gaga tramite Gaga: Five Foot Two consolida la sua posizione di artista pura, pronta a compromettere salute e felicità personale in virtù della sua espressione creativa. In tal senso Open, l’autobiografia del 2009 di Andre Agassi, coadiuvato dal premio Pulitzer J. R. Moehringer, si è affermato come il vero game changer del modo di narrare se stessi di lì a venire per le celebrità: un racconto di sé che si sviluppa a partire dall’ammissione sin dall’incipit di odiare il tennis e di averlo sempre odiato.

Taylor Swift, da par suo, ha portato avanti il discorso già affrontato in molte composizioni di come certi aspetti negativi della fama siano solo le tumefazioni più esposte di una grave patologia interna alla società in merito a tutto il femminile. Lo ha fatto in Miss Americana ma anche in Taylor Swift’s Reputation Stadium Tour che, pur essendo un film concerto dalla struttura classica, sottintende una narrazione in tre atti: l’apertura dello show è un montaggio frenetico di immagini e voci a esemplificare il chiacchiericcio malevolo dei media attorno alla figura della musicista; nel corso dello spettacolo, la cui scenografia abbonda di enormi serpenti, l’eroina si difende dalle cattiverie del gossip attraverso le sue canzoni e la sua volitiva presenza, e vince alfine riaffermando se stessa e la propria volontà di non far dipendere il proprio giudizio di sé dalle maldicenze altrui, in un profluvio di lacrime dei fan in platea.

Se si è sempre dato per scontato che un personaggio famoso dovesse sorbirsi la sua buona dose di cattiva stampa e pubblicità, quasi a contrappasso della notorietà, l’acutizzarsi del fenomeno dell’hating nell’era digitale, e dello slut shaming anche verso chi famosa non è, ha posto le basi per aprire un dibattito nella scena pubblica. Taylor Swift ha ribattuto ai commenti sulla sua vita sentimentale e sessuale molto spesso, anche in alcuni dei suoi più grandi successi come Blank Space e Shake It Off, peraltro finendo per venire accusata di mercificare a sua volta il gossip, facendogli da cassa di risonanza e guadagnandoci sopra – ciò a dimostrare, peraltro, quanto la lotta fra eroina e nemico sia per definizione manichea e inesausta. In un periodo nel quale, in particolare nella cultura statunitense, stiamo assistendo a un cambio epocale della narrazione di chi ha subito abusi, dal rassegnato “victim” all’orgoglioso “survivor”, Swift si pone alla testa di chi vince resistendo e rintuzza lo scrutinio dei media, da sempre rivolto in prevalenza al corpo e alla sessualità femminili.

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E proprio la conflittualità col proprio corpo resta nonostante tutto un centro nevralgico delle attenzioni di queste protagoniste: Taylor Swift confessa in Miss Americana la sua passata anoressia, e sia il documentario su Billie Eilish che quello su Lady Gaga tematizzano il corpo come un luogo di dolore, nel primo caso per un grave infortunio, nel secondo a causa di una malattia cronica. Per entrambe vengono mostrati interminabili trattamenti medici, e il corpo del performer si riconfigura anche come ostacolo alla realizzazione della propria creatività e possibilità espressiva. Anche Beyoncé si presenta in Homecoming come intenta ad applicare l’etica del duro lavoro alla ricostruzione del proprio corpo dopo un parto gemellare, ma dietro alla ferrea volontà fanno capolino allenamenti logoranti e diete violente.

Col film concerto Homecoming, Beyoncé si dimostra la più incline di tutte a proporsi con un’immagine di forza: fiera e ieratica, rimanda negli spettatori l’idea di essere al cospetto di una divinità – una dea in felpa, shorts sexy e stivali scintillanti, campionessa di sincretismo culturale. Tramite una moltitudine di oltre 200 ballerini e musicisti neri sul palco, mostra però di voler trascendere la singolarità e rappresentare l’intera comunità afroamericana, una comunità vitale, creativa e grintosa. Il suo carisma diventa quindi non quello individualistico di chi si staglia sugli altri, ma la presenza sciamanica che polarizza e ricomprende al proprio interno tutta l’energia e i valori della comunità. Poi riprende il tema del femminismo e, fra citazioni di Toni Morrison e Maya Angelou, lo declina sulla cultura e la valorizzazione delle donne nere.

Col musical Black Is King, in un compendio di stili dall’underground sperimentale, al gangster movie, alla Blaxploitation, Beyoncé poi ha tentato il passo successivo: sacralizzare la comunità nera globale, attraverso l’utilizzo di maestosi tableau vivant. Ma, fra mille evocazioni dell’immaginario, l‘effetto finale è una sazietà semantica tale da non evocare più nulla in chi guarda. Black Is King resta però a testimonianza ultima di come le ambizioni delle popstar a incarnare e dirigere il presente si stiano facendo sempre più alte.


Copertina: frame tratto da Billie Eilish: The World’s a Little Blurry,

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