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Come (non) si parla delle autrici all’università



Nel 1961, dopo un lungo e travagliato periodo di cambi di direzione, tentativi di mutilazione del testo, e letture imprecise e a volte approssimative, Il secondo sesso di Simone de Beauvoir viene finalmente pubblicato da Il Saggiatore, ben dodici anni dopo che l’originale ha generato scalpore e furore in Francia. Questo «libro-monumento» che «terrà insieme l’impresa filosofica, pacata, e la testimonianza, veemente, di quanto accade nella realtà alle donne in carne e ossa», come lo descrive bene Liliana Rampello1, è lontano, oggi, dall’essere parte delle letture ritenute “necessarie” in Italia. Pur mantenendo il proprio (problematico) statuto di Bibbia femminista, Il secondo sesso è ancora oggi poco letto, poco studiato, ma soprattutto poco ascoltato come testo che cerca di decostruire determinati presupposti patriarcali. Ne sono testimoni i corsi universitari negli atenei di filosofia, per esempio, dove ancora si fatica a fare posto a un Canone non necessariamente maschile, o anche, seppur in misura forse minore, i dipartimenti dedicati alla letteratura e alla cultura in senso ampio, vittime e carnefici della stessa marginalizzazione delle donne all’interno dei loro corsi. Questo spazio vuole essere un tributo a Beauvoir e, al tempo stesso e in maniera forse ancora più pregnante, un tentativo di riportare l’attenzione sulle nostre narrazioni acritiche delle donne, del femminile, specialmente – ma non solo – in letteratura. La volontà di trattare di “fatti” e di “miti”, ma soprattutto di “esperienza vissuta”, la dobbiamo non solo a Beauvoir, ma a tutti quei pensieri critici che hanno alimentato e trasformato il mondo culturale e la realtà tutta.

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I fatti e i miti: come (non) si parla di Simone de Beauvoir oggi

La donna, scrive Beauvoir in Il Secondo Sesso (1949), «si determina e si differenzia rispetto all’uomo e non quest’ultimo rispetto a lei; lei è l’inessenziale davanti all’essenziale. Lui è il Soggetto, lui è l’Assoluto: lei è l’Altro». Per quanto fondata su postulati binaristici di genere, l’osservazione di Beauvoir rimane tremendamente attuale: ancora oggi capita di sentire, in ambienti peraltro colti, un rumore di sottofondo che vorrebbe che la coppia Beauvoir-Sartre fosse l’inizio e la fine di ogni discussione su Beauvoir. Nonostante una fetta consistente ed estremamente combattiva della critica abbia cercato, già a partire da L’Étude et le rouet (1989) di Michèle Le Doeuff, di decostruire determinati preconcetti eterocispatriarcali che stanno alla base del nostro modo di pensare il nesso donne e scrittura, se non il mondo nella sua interezza, la narrazione dominante vorrebbe Beauvoir relegata alla differenza da Sartre, all’inessenziale, all’Altro sartriano. Non è raro, d’altronde, ritrovare questo tipo di narrazione perpetuata in ogni ambito, da quello mediatico a quello culturale in senso stretto: Virginia Woolf faceva giustamente notare, in Una stanza tutta per sé (1929), come le donne abbiano fatto per secoli da specchio dentro il quale l’uomo può guardare la propria figura riflessa ad altezza raddoppiata. Se Woolf scampò a questo rischio – per quanto potesse essere problematica la sua ricezione in ambito internazionale prima degli anni Ottanta, il problema non era legato all’uomo che aveva sposato –, così non è stato per Beauvoir, la quale conosce una fioritura di studi incentrati su di lei e la sua opera, almeno in ambito internazionale, solamente dalla prima metà degli anni Novanta, con l’attenzione critica inaugurata da Toril Moi con la sua bella monografia Simone de Beauvoir: The Making of an Intellectual Woman (1994).

Beauvoir soffre oggi, perlomeno in Italia, della posizione preponderante di Sartre nella sua narrazione. La pubblicazione postuma di suoi scritti, come per esempio il recentissimo Le inseparabili (2020), la sua corrispondenza con lo scrittore statunitense Nelson Algren (1998) o i suoi diari da studente di filosofia, i cosiddetti Cahiers de jeunesse(2008), dovrebbe essere riuscita ormai a spodestare Sartre dal suo trono di Soggetto, di assoluto, di essenziale per la trasmissione di quella scrittrice poliedrica che era Beauvoir. In Le inseparabili a ricevere titolo di merito non è più quel suo “amore necessario” con Sartre tanto decantato da una critica poco al passo coi tempi, ma Zaza, soprannome di Elisabeth Lacoin, sua amica d’infanzia con cui allaccia un legame intimo e fondamentale per la sua formazione. Dalla sua corrispondenza con Nelson Algren emerge un ritratto di una donna che in Sartre ha trovato un «amico incomparabile del suo pensiero», sì, ma di rado, in maniera preponderante, un vero e proprio amante. Nei suoi diari da studente di filosofia alla Sorbona, prima quindi del tanto millantato incontro con Sartre, leggiamo di una studiosa vivace che assorbe le tradizioni filosofiche studiate e ne individua delle impasses che permetteranno una decostruzione della filosofia come sistema complesso e universalizzante. Perché la verità è che, checché ne dica chi ancora oggi vuole presentarla come l’ancella dell’esistenzialismo sartriano, Beauvoir una sua autonomia l’ha sempre ricercata, perseguita e nutrita. Lungi dall’essere una divulgatrice delle idee del suo compagno di vita, con cui peraltro aveva una relazione molto meno romantica, sessuale e totalizzante di quanto non vogliamo pensare, l’intellettuale parigina ci ha lasciato un’eredità che è diventata terreno di prova delle sue stesse teorie sull’alterizzazione della donna: è ancora raro, oggi, sentir parlare di amore, relazione, coppie durante dibattiti su Sartre, mentre, a quanto pare, in certi ambienti sembra essere ancora fondamentale ricordare che Beauvoir era la “compagna” di Sartre, peraltro senza problematizzare ulteriormente questo termine.

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Se è vero che di passi in avanti ne sono stati fatti per quanto riguarda il riconoscimento perlomeno formale di diritti alle donne2, è altrettanto vero che da un punto di vista radicale e intersezionale manca ancora una messa in discussione dei nostri presupposti quando pensiamo non soltanto alla cultura prodotta da autrici donne, ma anche, banalmente, e in maniera più generale, alla cultura tout court. Perpetuiamo un canone che è appannaggio pressoché esclusivo di uomini colti, in maggioranza bianchi, in maggioranza eterosessuali, dando per scontato che le loro parole, il loro immaginario, i loro criteri di lettura del mondo debbano necessariamente essere anche i nostri. Diamo valore alla creazione a prescindere dallo sfondo biografico dell’Autore, ma se si tratta di un’autrice riportiamo l’attenzione sulla sua vita, sugli uomini che ne facevano parte, e vediamo l’opera come una sua diretta emanazione, togliendo così alle donne l’autorialità che è il presupposto fondamentale di ogni creazione artistica e letteraria. Abbiamo imparato, se non altro, a riconoscere l’importanza dei movimenti femministi nel recupero e nella rivalutazione dell’opera di autrici di ogni secolo, salvo poi riservare loro un posto solamente all’interno di insegnamenti specialistici di “letteratura delle donne”, “storia delle donne”, “teorie femministe”, rinnegando quindi la loro appartenenza e la loro utilità all’umanità tutta e confermando così l’attualità dell’uomo Soggetto assoluto ed essenziale individuata e criticata da Beauvoir già nel ’49. Diamo per scontato che una donna che scrive debba posizionarsi in qualche modo rispetto al suo genere e al femminismo, ma ci tacciamo davanti a una mancata problematizzazione degli stessi aspetti da parte di uno scrittore: la posizionalità, insegna Beauvoir, la situazione che fa da sfondo a ogni nostro tentativo di esistere nel mondo, ci abbraccia, ci costringe, ci limita, tutti, tutte e tuttə. Forse sarebbe il caso che, oltre a leggere e citare Il secondo sesso in corsi sui femminismi, anche in filosofia e in letteratura si discutesse più ampiamente dei presupposti della scrittura, delle sue condizioni di possibilità, delle sue condizioni di fruizione e trasmissione. A più di sessant’anni dalla traduzione italiana di Il secondo sesso edita da Il Saggiatore, dobbiamo questo sforzo a tutte coloro le quali hanno gettato inchiostro, sudore e sangue su un’ideologia eterocispatriarcale così pervasiva da averci resə ciechə alle nostre stesse premesse.

Di risorse su Beauvoir come intellettuale autonoma rispetto alla coppia Beauvoir-Sartre oggigiorno ce ne sono molte, anche se rimangono perlopiù relegate a pubblicazioni in inglese o francese mai tradotte in italiano. Bisogna ricordare, per esempio, la più recente biografia di Beauvoir, Becoming Beauvoir: A Life (2019), scritta da Kate Kirkpatrick e edita da Bloomsbury. Oltre al volume di Toril Moi ricordato sopra, peraltro arricchito di ulteriore materiale nel 2008 a causa della pubblicazione di nuovo materiale inedito, va ricordato il volumetto Simone de Beauvoir philosophe (2006) di Michel Kail, che restituisce dignità di menzione e di complessità a una filosofa che stentava a riconoscersi come tale e che tuttora soffre, evidentemente, dei presupposti patriarcali con cui guardiamo alla scrittura delle donne. Nel Cahier de l’Herne dedicato a Beauvoir del 2012 è possibile trovare, oltre a una grande quantità di scritti (allora) inediti3, una collezione di saggi di grandissime studiose di Beauvoir che illuminano aspetti della sua opera che rimangono tuttora inesplorati in Italia. Oltre a quelli già citati, di nomi da fare ce ne sarebbero ormai tanti, in ambito internazionale, tra cui Meryl Altman, Ursula Tidd, Sonia Kruks, Sara Heinämaa, Margaret A. Simons, Penelope Deutscher, Debra Bergoffen, Karen Vintges, Kathryn Sophia Belle, Laura Hengehold, Nancy Bauer, Danièle Sallenave, Manon Garcia, tutte concordi nel destinare a Beauvoir uno spazio più ampio al di fuori dell’ombra di Sartre. Perché se è vero, come diceva Woolf, che all’ombra dello “I” patriarcale il terreno si fa sterile, è forse ancora più vero che lasciare le donne al riparo dal mondo sotto al tetto dell’uomo più vicino a loro, che sia loro padre, il loro fratello, il loro amante, il loro compagno di vita, non permette loro di respirare a pieni polmoni, di occupare spazio, di prendere parola. E quindi, per quanto possa sembrare quasi paradossale doverlo ripetere nel XXI secolo, ascoltiamo, leggiamo, osserviamo la scrittura delle donne mettendo in discussione chi siamo, che presupposti portiamo alla lettura, che narrazioni siamo tentatə di produrre a partire dalla nostra posizione.

L’esperienza vissuta: studiare letteratura in Italia

L’esempio di Beauvoir è paradigmatico di molti atteggiamenti diffusi all’interno dell’università italiana. Quasi sempre, seguendo dei convegni o delle lezioni all’università, sono pervasa dalla frustrazione. Le lezioni universitarie sono sempre forzatamente unidirezionali, frontali, non partecipative – poco importa se si decide di chiamarle lezioni, seminari, workshop, conferenze –, prevedono sempre il fatto che una persona prenda la parola per un periodo di tempo piuttosto lungo, mentre la maggior parte delle altre persone che occupano lo spazio restino in silenzio e siano chiamate a parlare, riassumendo pensieri e riflessioni, nell’arco di pochi minuti, una dietro all’altra, senza che ci sia veramente l’interesse all’ascolto e al confronto.
Ma farsi capire è un atto politico: leggere un testo inadatto all’esposizione orale, con ritmo forsennato per stare nei tempi, noncuranti del fatto che le persone che ascoltano capiscano, significa perpetuare una narrazione egoriferita imperniata sull’esibizione di sé e poco capace di farsi carico delle perplessità di chi ascolta. Una forma mentis per cui l’incomprensibile è degno, il comprensibile è sciatto ed emotivo. Ignorare la partecipazione delle persone, pretendere ascolto, ignorare prese di parola è l’esatto contrario di ciò che ritengo un approccio educativo e formativo. All’interno dei dipartimenti universitari che ho attraversato vige la convinzione che la ricerca sia più importante e prestigiosa dell’insegnamento, insegnamento a cui chi lavora all’università dedica una minima parte del proprio impegno, sicuramente anche a causa del sovraccarico di lavoro amministrativo e burocratico in un clima ipercompetitivo e dettato da criteri poco realistici di produttività ipertrofica.

Nello spazio universitario si ripetono le stesse dinamiche di potere che si agiscono al di fuori di esso, si perpetuano gli stessi rapporti di subalternità. Questo è visibile nella struttura gerarchica che caratterizza le persone che animano l’ambiente universitario, ma anche nel modo in cui i concetti sono veicolati, nel modo in cui sono scelti, dal tipo di temi e narrazioni che trovano spazio nelle aule e nei convegni.
Non è un caso se, come in ogni spazio sociale, le persone socializzate come uomini sono quelle che parlano di più, che alzano la mano con sicurezza, che intervengono tendenzialmente di più, forse per via di un’ideologia eterocispatriarcale che intima alle donne di occupare meno spazio possibile, di farsi da parte, mentre rassicura gli uomini nel loro essere detentori del Verbo, della Conoscenza. Spesso sforano i minuti che gli vengono concessi, si dilungano nelle loro considerazioni che raramente sono vere domande e più spesso esercizi di retorica. Queste situazioni annullano il pensiero critico e la reale possibilità di un dialogo e di uno scambio proficuo, annullano la possibilità di ascolto e di una reale comprensione e spesso si riducono a delle semplici esibizioni di erudizione.

Quando entriamo nel merito della letteratura per come viene insegnata negli atenei italiani, diventa lampante come negli studi letterari non si faccia (quasi) mai lo sforzo di parlare di autrice e lettrice: Autore e Lettore sono i punti di vista che guidano le analisi letterarie, anche quando a parlare è una persona non maschio cisgenere, anche quando l’oggetto dell’analisi è il testo di un’autrice non maschio cisgenere. Questo assunto, che a persone in malafede potrebbe sembrare una forzatura, è in realtà specchio dello spazio in cui questi discorsi si muovono: uno spazio per la quasi totalità occupato, controllato, gestito da maschi, uno spazio in cui le donne possono occupare, tendenzialmente, le fasce più basse della gerarchia ma solo in percentuale gradualmente decrescente i gradini più alti4. La letteratura prodotta da persone che non sono maschi viene invisibilizzata, così come viene invisibilizzato lo sguardo di ricercatrici e studiose che non sono maschi. Le autrici negli atenei italiani sono sempre fuori campo, un po’ più in là rispetto all’inquadratura, ma, come evidenzia Daniela Brogi in Lo spazio delle donne, «lo spazio delle donne» da costruire insieme «può funzionare come fuori campo attivo, vale a dire come tipo di messa a fuoco dinamica che genera dubbi e domande intorno a ciò che si vede, creando una dialettica tra ciò che è visibile e riconoscibile e ciò che invece è invisibile, ma tuttavia è implicato.» Anche quelle rare volte in cui si decide di parlare di testi scritti da donne, si giustifica la scelta appellandosi alla tremenda definizione di “scrittura al femminile”, una dicitura che lascia intendere che ci sia, invece, una Scrittura vera e propria che per sua stessa definizione non è scritta da donne. Per anni ho partecipato a corsi universitari senza rendermi conto che trattavano di letteratura maschile, senza che venissero esplicitati i criteri per cui ciò che si leggeva nel corso dovesse essere stato scritto da un uomo per essere degno di essere insegnato, tramandato, analizzato. 
Il mio sguardo di studente è stato colonizzato per anni dallo sguardo dell’Autore. Io stessa ho impiegato anni a decostruire questo immaginario, con sforzi enormi per capire come e perché dovevo farlo. Sono stata sicuramente sfortunata, forse non mi sono posta il problema quanto avrei dovuto, ho raggiunto sicuramente tardi certe consapevolezze che oggi mi sembrano basilari della mia persona, ho sicuramente incontrato tardi il femminismo nel mio percorso di vita o, perlomeno, ho capito tardi quale nome dare a pratiche e riflessioni che sono le uniche che mi fanno sentire a mio agio nel mondo. Sta di fatto che in circa trenta esami tra triennale e magistrale, tutti inerenti studi letterari e materie affini, nessuno di questi aveva come oggetto di studio l’opera letteraria di una persona che non fosse un uomo. Descritto questo scenario, mi pare necessario farsi una domanda che mi pongo spesso, e cioè: perché parlare di autrici è ancora così difficile? Ma soprattutto: come si parla delle autrici le rare volte in cui questo accade? 

È chiaro che il contesto che abbiamo descritto alimenta il modo in cui parliamo delle autrici le rare volte in cui lo facciamo. L’invisibilizzazione del patrimonio letterario prodotto da voci non maschili è l’esatto corrispondente dell’invisibilizzazione delle persone che dentro allo spazio universitario lavorano con corpi che non sono quelli di un maschio bianco cisgenere. Uno spazio in cui decidere di declinare il proprio titolo professionale al femminile (professoressa/professora, dottoranda, ricercatrice) sembra talvolta una forzatura inutile, quando non uno svilimento della propria posizione professionale.5
In questo contesto, le voci autoriali “diverse” – preferirei definirle plurali – hanno bisogno di essere giustificate per essere considerate degno oggetto di studio. Il biografismo, strumento già inadeguato (o quantomeno insufficiente) per analizzare i testi letterari, quando si applica a una donna diventa ossessivo e si concentra quasi esclusivamente e in modo morboso sulle vicende sentimentali. La definizione dell’autrice è sempre data in negativo, rispetto a ciò che non è (un autore maschio), che non ha scritto (un testo scritto da un autore maschio), che non ha detto (ciò che ha detto il suo compagno, il suo amico, il suo parente maschio) o ​​chiamata in causa solo come “appendice” (moglie, amante, sorella, collaboratrice, mecenate) di un autore; un’autrice sembra non aver diritto di parola se non paragonata a un autore, che la definisce meglio, ne descrive i confini, le dà – in sostanza – l’autorevolezza che da sola non avrebbe né, quindi, meriterebbe. 

Tutto questo ha conseguenze ben più gravi della sola assenza dai programmi d’esame o della difficoltà di creare corpus di ricerca plurali, ma contribuisce a creare immaginari univoci e unidirezionali, in cui si può sempre e solo avere accesso a una storia unica, a una possibilità unica. L’oggetto di studio non descrive solamente il mondo e il contesto sociale, ma – un po’ come accade con il linguaggio – contribuisce a crearlo.  Il discorso si estende e mostra enormi criticità se si osserva l’assenza – in questo caso, in certi contesti, totale – di voci di persone non binarie. In questo contesto scegliamo di non appropriarci di narrazioni che non abitiamo in prima persona, ma non dimentichiamo che l’invisibilizzazione aumenta quando aumenta la marginalizzazione delle persone nella società e che, anche se in questo articolo ci stiamo concentrando prevalentemente su questioni di asimmetrie di genere, non si può non ricordare che le asimmetrie e i rapporti di subalternità descritti e prodotti dalle scelte fatte per i programmi dei corsi riguardano anche questioni di classe, di eurocentrismo, di colonialità; tutto questo dimostra l’enorme lavoro di (ri)scoperta e risignificazione che è ancora necessario fare.
Nonostante le eccezioni a tutto questo esistano, nonostante le cose stiano cambiando e sempre più studenti e docenti cerchino di aprire il loro sguardo, purtroppo quella descritta è la situazione che vivono molte persone che ancora oggi frequentano i dipartimenti di letteratura delle università italiane.  Laddove le cose stanno cambiando, si tratta di cambiamenti molto recenti e spesso isolati, che esistono solo grazie al lavoro di singole persone e non per una messa in discussione sistemica e collettiva. In generale il richiamo alla necessità di riflettere sui metodi e sulle pratiche interne agli studi accademici, ad adottare un’ottica intersezionale, viene spesso rifiutata perché “troppo ideologica”, come a voler suggerire che tutto ciò che esula dalla norma sia per sua stessa natura una forzatura, una riappropriazione politica che stona con l’impianto puramente estetico della letteratura, perpetuando così il mito che non esista un’ideologia vigente (ciseteropatriarcale e borghese) che rende questo processo di alterizzazione del femminile pressoché automatico. 

Lo spazio linguistico, discorsivo, e concreto all’interno dei dipartimenti di studi letterari è ancora molto difficile da decolonizzare6 dallo sguardo maschile bianco occidentale, ma anche da pratiche che all’interno dell’accademia sono diventate la norma e che riflettono il sistema sociale e culturale in cui l’accademia è immersa: una società neoliberale e capitalista basata su dinamiche prestazionali, performative, sul profitto e la produzione a ogni costo. Il corpo scientifico è un corpo di potere, contiene e agisce violenza epistemica, e le dinamiche universitarie perpetuano un sistema di dominio, subalternità, oppressione.
Ma allora cosa si può fare? È necessario creare «spazi di sospensione della norma all’interno degli spazi dell’istituzione»7, spazi in cui si dia reale spazio alla discussione, alla riflessione, alla creazione di conoscenza collettiva, al confronto tra pari. È chiaro che non si tratta semplicemente di inserire delle “quote” di letteratura non maschile, di farne solo oggetto o tema di studio, ma di smettere di invisibilizzare il sapere prodotto da altre soggettività, interrogarsi a livello critico e metodologico, di tornare a inserire all’interno dell’università pratiche politiche di problematizzazione della gerarchia, tornare a interrogarsi sui motivi di ciò che si fa e sui metodi con cui lo si fa, sul proprio posizionamento e privilegio, sulla relazione tra accademia e mondo, e non solo all’interno dei dipartimenti di studi umanistici. Dobbiamo scrollarci di dosso quel ruolo di vittima a cui ci siamo abituatə, perché troppo spesso è uno strumento di deresponsabilizzazione di fronte a un sistema che sì, ci opprime e ci toglie spazio e tempo, ma che contribuiamo a legittimare anche attraverso il nostro agire. Chi ha più potere dovrebbe volerlo condividere, nella consapevolezza che le dinamiche di potere sono sempre dannose; chi ne ha meno dovrebbe confrontarsi con le altre persone e non cedere alla dinamica competitiva che ci vuole tuttə contro tuttə e che ci fa vedere le nostre colleghe e i nostri colleghi come nemicə invece che come alleatə.


Nota:
Questo articolo nasce dalla frustrazione causata da un certo atteggiamento frequente in ambito accademico per il quale tutto ciò che esula dal maschile universale viene relegato al rango di “ideologia” e di rado viene trattato in maniera adeguata. Ripensare il nesso tra scrittura e politica, tra accademia e cultura è fondamentale per una messa in questione sistemica di che cosa intendiamo per formazione.


Per approfondire:

Simone de Beauvoir, La femminilità, una trappola. Scritti inediti 1927-1983 (L’orma, 2021)
Manuela Manera, La lingua che cambia. Rappresentare le identità di genere, creare gli immaginari, aprire lo spazio linguistico (Eris, 2021)
Daniela Brogi, Lo spazio delle donne (Einaudi, 2022)
Musecolmuso, un podcast di Beatrice Carvisiglia e Lucia De Angelis su donne, letteratura, film e serie.
Mis(S)Conosciute – Scrittrici tra parentesi, un podcast e profilo Instagram sulle scrittrici degli ultimi 60 anni. Per saperne di più: https://missconosciute.wordpress.com/


Note

1 Liliana Rampello, “Postfazione. Voci d’Italia. Breve storia della ricezione italiana del Secondo sesso”, in Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, pp. 701-715; qui p. 704.
2 Sulla questione dei diritti riproduttivi, consigliamo gli articoli di Jennifer Guerra, che instancabilmente da anni affronta queste questioni su diverse testate nazionali: citiamo qui, in maniera indicativa, “Vietare o ostacolare l’aborto non significa avere meno aborti, ma solo più rischi per le donne”, The Vision, 10 novembre 2021 (https://thevision.com/attualita/conseguenze-divieto-igv/?sez=author&ix=2&authid=110) e “L’obiezione è un’incoscienza. Se non vuoi praticare aborti, puoi fare il dermatologo”, The Vision, 4 giugno 2020 (https://thevision.com/attualita/aborto-obiettore-di-coscienza/ ).
3 Una selezione di questi materiali inediti è stata pubblicata di recente da L’orma Editore in Simone de Beauvoir, La femminilità, una trappola (2021).
4 “Nel corso della formazione universitaria, in Italia, le donne rappresentano stabilmente ben oltre il 50% della popolazione di riferimento a tutti i livelli: esse sono il 55,5% degli iscritti ai corsi di laurea; il 57,6% del totale dei laureati; il 50,0% degli iscritti ai corsi di dottorato ed il 51,8% del totale dei dottori di ricerca (Graf. 1).
Il successivo passaggio dalla formazione universitaria alla carriera accademica mostra invece che la presenza femminile diminuisce man mano che si sale la scala gerarchica: nel 2017 la percentuale di donne si attesta al 50,3% tra i titolari di assegni di ricerca (Grade D), al 46,6% tra i ricercatori universitari (Grade C), al 37,5% tra i professori associati (Grade B) e al 23,0% tra i professori ordinari (Grade A; Graf. 1).” (Focus “Le carriere femminili in ambito accademico” del MIUR, disponibile al link http://ustat.miur.it/media/1155/focus-carriere-femminili-universit%C3%A0.pdf, qui p.6).
5 Sull’importanza di un linguaggio attento a rappresentare diversi generi e la necessità di aprire lo spazio linguistico a soggettività diverse da quella maschile, consiglio i lavori di Alma Sabatini, Vera Gheno, Manuela Manera.
6 Utilizzo questo termine seguendo le riflessioni di Rachele Borghi, Decolonialità e Privilegio, Meltemi, 2020.
7 https://www.roots-routes.org/pratiche-di-hackeraggio-dello-spazio-universitario-di-rachele-borghi-julie-coumau-emilie-viney-brigata-scrum/





Photo credits
Copertina – Simone de Beauvoir a Parigi, 1949. Elliot Erwitt, Magnum

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