Comma 22

Il trip report come sottogenere della letteratura di viaggio




Come centinaia di migliaia di persone al mondo nell’ultimo secolo, anch’io devo alcune delle rivelazioni più importanti della mia vita agli psichedelici, in particolare all’LSD – su cui mi concentrerò in questo articolo. Anche per me, come per tanti altri, l’esperienza psichedelica è stata quanto di più vicino all’esperienza religiosa fuori dalla preghiera o dalla pratica della meditazione o dal sesso. La dissoluzione dell’ego, l’estasi, la percezione di squarci di bellezza assoluta e senza scampo, la sensazione di unità con il creato – ma anche il contatto diretto con la follia e con il caos, la materia che si fonde e si disgrega, il razionale che sprofonda nell’informe: ogni volta che ci ritorno, il cosmo lisergico è sempre lì, sempre uguale a se stesso nel suo carattere peculiare di luogo eterno, territorio di archetipi, e sempre misterioso e intimamente terrorizzante. E pure a ogni ritorno c’è questa impressione che riecheggia sempre: quella di essere in un posto che, per quanto strano, per quanto assurdo, è popolato da una folla di altri – tutti gli uomini e donne che prima di me hanno varcato la stessa soglia. E l’idea che i fenomeni straordinari, spaventosi e bizzarrissimi che accadono a me siano già successi, più o meno simili, anche agli altri, mi è sempre stata di conforto durante i trip, specialmente quelli difficili. La domanda che mi sono sempre fatto è: simili quanto? Quanto c’è di ricorrente, e quindi di più condiviso, nell’esperienza psichedelica?

Va da sé che da almeno sessant’anni la psichedelia è parte fondativa dell’immaginario collettivo della controcultura, con frequenti incursioni nel mainstream. In particolare la mitologia intorno all’LSD ha prodotto romanzi, dischi, cinema, arte visiva e sponsor illustri. Insomma, già nel tardo Novecento chi avesse voluto provare a disegnare una mappa del mondo psichedelico avrebbe potuto attingere a una folla di riferimenti: dai classici resoconti di Hofmann, alle visoni di Junger, ai dischi dei Beatles, a tutta la reportistica scientifico-accademica sui trial di LSD dagli anni ’50 in poi. Poi venne Internet, e con Internet quella che è stata fondamentalmente una forma di enunciazione di massa dell’esperienza di viaggio psichedelico. Con la nascita di siti dedicati, forum e blog, migliaia di psiconauti in tutto il mondo si sono sentiti liberi di condividere con i propri colleghi in tutto il mondo le proprie visioni, emozioni e incontri straordinari nei territori lisergici. E quella che per mezzo secolo era stata solo una forma di resoconto di stretto appannaggio della letteratura specialistica o degli artisti, si è solidificata in qualcosa che assomiglia a un canone: una popolazione di testi che, insieme, possono essere interpretati come un particolarissimo sottogenere della letteratura di viaggio.

Premessa: come è fatto un trip report? La forma più classica è probabilmente quella istituzionalizzata in era pre-internet da Alexander Shulgin in Pihkal e Tihkal – i due monumentali diari di viaggio del mitologico chimico californiano dedicati rispettivamente alle feniletilamine e alle triptamine. Per ogni sostanza scoperta e sperimentata (centinaia, come è noto: alcune inerti, altre semi-tossiche, altre rivoluzionarie come la magical half-dozen delle 2c-, prima di morire a novant’anni), Shulgin indica innanzitutto per ogni assunzione il dosaggio e il setting. Il trip report vero e proprio consiste nella scansione temporale degli effetti sensibili – sensoriali, psichici, spirituali – dal minuto 0 lungo tutta la durata del trip. Anni di esperimenti su decine di molecole diverse nella più vasta varietà di dosaggi hanno condotto questo padre nobile della psichedelia all’elaborazione della Scala di Shulgin, una sorta di metro di misurazione degli effetti psichedelici con una certa pretesa di oggettività, che va da zero (nessun effetto) alle quattro ++++ delle esperienze di picco, quelle paragonabili alle estasi mistiche o al nirvana. Nei trip report che si trovano oggi in rete, questi elementi – setting, durata, occasionalmente la scala di Shulgin – tornano con una certa continuità, in particolare nei resoconti degli psiconauti più esperti. I report hanno una sceneggiatura per forza di cose ricorrente: cominciano sempre con la quantità di sostanza assunta e la descrizione del setting, segue inevitabilmente la suspence dell’attesa più o meno ansiosa, quindi i primi effetti. In generale, siccome l’LSD ha il suo picco verso la seconda ora dall’ingestione, dalla terza in poi i report finiscono fatalmente per diventare più confusi – anche se, altrettanto fatalmente, è proprio in quella zona che accadono le cose più interessanti – per poi adagiarsi nell’affaticamento psichedelico verso il comedown, dalla quinta / sesta ora in poi.

Per questo articolo ho attinto da quello che è probabilmente il più vasto e meglio indicizzato database sulle sostanze disponibile in rete: Erowid, un gigantesco – e benemerito – sito sulla riduzione del danno che contiene reportistica, documentazione e letteratura scientifica su praticamente qualsiasi sostanza, naturale e non, abbia un qualsiasi tipo di effetto psicoattivo sull’essere umano: dalla nicotina ai rospi allucinogeni. Soltanto sull’LSD sono presenti su Erowid circa 700 trip report, tendenzialmente in forma anonima ma non solo – provate a moltiplicare la cifra per tutte le sostanze sperimentate e raccontate su questo ma anche su decine di altri siti, forum di psiconauti, anfratti oscuri del deep web. Mai come in questo momento storico abbiamo avuto a disposizione una tale mole di racconto sulle misteriose quanto affascinanti regioni della psichedelia. La piccola guida che segue non ha ovviamente nessuna pretesa di scientificità. Si tratta di appunti di viaggio raccolti attraverso una ricognizione tra qualche decina di trip report e di memorie personali, in cerca di ricorrenze e sincronicità. In cerca soprattutto di pattern che ritornano: quelle rivelazioni che l’LSD dischiude a chiunque sia interessato a conoscere l’universale. 

NATURA
L’LSD dialoga fittamente con il mondo naturale. È uno dei motivi per cui molti psiconauti esperti consigliano di assumerla all’aperto, possibilmente di giorno. Le texture delle cortecce, le venature nelle rocce, le ramificazioni dei capillari delle foglie: sono sistematicamente tra i primi elementi che prendono vita quando la sostanza si comincia a sentire. Con l’aumentare degli effetti, la natura vive di vita propria, si fa cosciente e può svelare un carattere cangiante…

Il cielo si è fuso con gli alberi in un’unica forma radiante, con gli alberi che iniziavano a assomigliare a delle enormi, bellissime penne di pavone che sbocciavano dal suolo.
(Uomo, 21 anni, anno dell’esperienza: 2008

Se non addirittura capriccioso…

Le foglie su un albero hanno cominciato a ridere, perciò ho chiesto cosa c’era da ridere e, telepaticamente, mi hanno detto che le stelle stavano scopando.
(Uomo, anno dell’esperienza: 2003)

Tra gli attori naturali che si animano convocati dall’LSD, posto d’onore lo meritano le nuvole che, se già in condizione di sobrietà si prestano a proiezioni fantastiche, nella psichedelica danno il meglio di sé.

Ho alzato lo sguardo al cielo e il cielo ha abbassato il suo sguardo su di me, sovrastandomi: ogni nuvola adesso era una specie di ameba gigante, coperta di puntini pulsanti come la superficie di una seppia. Ogni ameba gigante aveva un enorme occhio umano blu che mi osservava.
(Uomo, anno dell’esperienza: 2003)

Ricordo perfettamente un trip in Perù nell’estate del 2014: dall’alto del Canyon del Colca, un posto famoso per l’avvistamento dei condor. Mentre l’acido entrava nel pieno effetto, le grandi cordigliere sotto di me, fino all’orizzonte respiravano solennemente. Questo respiro si innalzava a ondate per fondersi nel cielo e in quel momento le cordigliere mi apparvero per quello che erano: una sterminata preghiera.

CREATURE
Se la geografia del mondo lisergico è sfuggente e mutevole, la sua zoologia lo è ancora di più. Al netto degli alieni di McKenna, e delle entità azteche di Don Juan, è un peccato che nessuno abbia mai pensato di stilare un bestiario delle creature psichedeliche. Ne risulterebbe un catalogo di varietà impressionante, in cui pezzi del mondo reale si fondono con pezzi dell’inconscio, generando entità che partecipano di entrambe le nature: reale e fantastica, naturalistica e archetipica. Gli incontri con queste creature possono essere a volte spaventosi…

Mentre gli effetti diventavano più intensi, ho visto insieme l’inferno e il paradiso, e la cucina in cui mi trovavo non era più una semplice cucina, ma una palude, punteggiata di grandi foglie e sprofondata in un’atmosfera di nebbia. Nel bidone dell’immondizia ho visto delle creature vermiformi che si nutrivano del mio cibo avariato. E poi il mio stesso corpo, un corpo grigio che giaceva nella polvere, un corpo morto e putrefatto. Se ne cibavano vermi e mosche.
(Uomo, anno dell’esperienza: 2008)

…a volte illuminanti. 

Oltre la porta ho notato il quadro di Zac. Era un drago orientale che volava tra le nuvole accostato a dei simboli che sembravano kanji. Il drago sembrò uscire dal quadro, muoversi e contorcere il suo lungo corpo attraverso la stanza, con le nuvole che lo seguivano. “Wow”, ho pensato. Com’è possibile che una cosa così bella possa essere anche così minacciosa? Il drago si è rivolto a me e ha aperto le fauci e dentro ho visto la terra intera, la stanza faceva rumore e le nuvole che uscivano dal quadro scagliavano tuoni e fulmini, era insostenibile. 
(Uomo, 18 anni, anno dell’esperienza: 2009)

Anni fa ho vissuto per circa sei mesi con una gatta, una bastardina che avevo battezzato Matilda: pelo lungo e grigio, attitudine selvatica (l’avevo trovata in un bosco in Umbria). Ricordo con una precisione assoluta un trip nella mia vecchia casa di Roma, un piccolo appartamento al quarto piano affacciato su piazza Testaccio. Verso la terza ora, il sole tramontava oltre la piazza, inondando il soggiorno di una luce ultraterrena – potevo distinguere la vibrazione di ogni singola stringa di energia nella trama del cosmo. Matilda ebbe la bella idea di venire a mettersi sulle mie ginocchia. Non lo faceva mai: non era una gatta giocosa, non era particolarmente simpatica, e difficilmente cercava le coccole. Però, con il fiuto pischedelico che hanno solo i felini, doveva avere intuito che qualcosa di affine alla sua natura stava accadendo in me.

Non dimenticherò gli occhi di Matilda che non si staccarono dai miei per un tempo infinito – le sue pupille erano due faglie nere, profondissime, incise in due canyon di roccia color smeraldo. Ma la cosa più incredibile erano le vibrisse, cioè i baffi. Monumentali tronchi di conifere che svettavano nella giungla tropicale del suo pelo grigio. Rimanemmo a fissarci non saprei dire per quanto tempo. Cinque minuti? Un’ora? Per tutto quel tempo, Matilda si era trasformata, espansa, in un animale geografico – mezza gatta, mezza Amazzonia. Potevo perdermi, letteralmente, nel suo pelo, sprofondare dentro le sue orecchie. Successivamente, per molto tempo, ogni volta che la prendevo in braccio avrei avuto l’impressione di accarezzare un continente.

MUSICA E SUONI
Nei trip report tornano spessissimo i riferimenti alla musica e, in generale, alle esperienze sonore. La musica è da sempre una compagna di viaggio per gli psiconauti: incoraggia il trip, a volte lo guida, e dischiude sempre dei significati inaspettati.

Ho messo Bjork: meraviglioso. La musica era pura, e specialmente la canzone Frosti: ascoltandola ho visto una delicata, bellissima concrezione di ghiaccio. Le altre canzoni erano come esseri umani, dettagliatissime e ricche di significati. Ognuna era un viaggio, a volte sincero, a volte bello e sereno, a volte molto scontato e privo di immaginazione.
(Uomo, 18 anni, anno dell’esperienza: 2008)

Sull’armonica, inspirando si produce l’accordo di quinta e espirando l’accordo di prima. Quinta/prima è l’intervallo musicale di base: tensione e risoluzione. Alcuni musicologi hanno teorizzato che l’articolazione da prima a quinta rappresenta la partenza da casa, mentre quella da quinta a prima rappresenta il ritorno. Inspirare / espirare – Quinta / prima – tensione / risoluzione – partenza / ritorno. L’inclita dualità dell’armonica fu per me una rivelazione. Adesso, di colpo possedevo le basi per comprendere la realtà frammentata che mi circondava.
(Uomo, anno dell’esperienza: 2007)

Siamo andati in un’altra stanza, arredata con un pianoforte e qualche sedia. Mi sono seduto e lei ha iniziato suonare il piano. Con 13 anni di studio, è ovviamente molto brava, eppure quando ha iniziato ha suonare il mondo per me è letteralmente esploso. Le risonanze della musica nel mio corpo erano devastanti, attivate dalle note che letteralmente fluivano dalle sue dita. (…) Le singole note amplificavano singoli colori: come se controllasse un software di foto-editing della realtà.
(Uomo, anno dell’esperienza: 2006)

C’è una canzone che ormai non riesco più a ascoltare senza sentire una lisergica stretta al cuore – è Rhubarb di Aphex Twin, una sorta di inno sacro fatto di droni, semplicissimo e incredibilmente solenne, che per otto minuti si innalza al cielo come una cattedrale di cristallo. Ricordo perfettamente il cielo grigio carico di pioggia su un sentierino in un bosco della Tuscia durante un trip in solitaria. L’acido aveva da poco cominciato a fare pesantemente effetto, sollevando un velo di angoscia – per la pioggia incombente, per il fatto che ero solo, perché attraversavo un momento complicato della mia vita e non sapevo cosa aspettarmi dentro quel bosco grigio. Mentre le cortecce degli alberi (credo querce) cominciavano a liquefarsi, Rhubarb è partita dagli auricolari e, esattamente nello stesso momento, uno stormo di uccelli a bassa quota si è innalzato nel cielo lattiginoso – era chiaramente un segnale rivolto direttamente a me. Il creato e Aphex Twin mi rassicuravano: sarebbe andato tutto bene. 

La stessa canzone la ascoltai con il mio amico S. sui Monti Aurunci – in un prato alle falde di quella che avremmo poi battezzato la Montagna Sacra. Un paio d’ore prima fissando quella montagna in silenzio per dieci minuti mentre l’acido saliva, ci eravamo voltati nello stesso istante uno verso l’altro pronunciando la stessa parola: «Respira». Adesso che l’acido era entrato in pieno effetto, sdraiati in mezzo all’erba, guardavamo le nuvole fare cose pazze nel cielo e ascoltavamo Rhubarb. Ricordo che piangemmo entrambi. Ricordo che pensai che quello era uno dei momenti che avrei portato con me per tutta la vita, e in effetti è stato così. Ricordo che fui grato immensamente a qualcuno, non so bene a chi, per avermelo regalato, mentre Rhubarb ci sollevava dal suolo, me e S., verso le nuvole.

ETERNITÀ
Ho accennato all’inizio che un carattere ricorrente del mondo psichedelico sembra essere quello dell’archetipico, in qualche caso del mitologico. Con l’LSD, gli oggetti, le architetture, i corpi delle persone, anche senza particolari distorsioni della percezione, spesso appaiono circonfusi da una caratteristica aura di eternità. Un fenomeno peculiare, che riguarda anche gli oggetti più quotidiani, a volte con esiti comici. Ricordo un pomeriggio d’estate (credo nel 2013), in una meravigliosa pineta sul mare in Cilento, con tre amici di sempre (tra questi, ovviamente, S.): verso la quarta o quinta faticosissima ora di trip alla base di un gigantesco pino marittimo, di fronte al mare trasparente, osservavamo i resti del nostro accampamento. Nelle ultime ore erano successe troppe cose incredibili perché potessimo occuparci di tenere la nostra roba in ordine: adesso davanti a noi c’erano dei taralli in una busta plastica, dell’uva non proprio in forma e qualche resto di merendine del supermercato. Fondamentalmente un casino, eppure in quel casino credemmo tutti e quattro di riconoscere delle reliquie sacre di un tempo molto antico. I taralli erano “atavici” (sic.), l’uva spiaccicata era il frutto prezioso di cui si nutrivano anche i nostri antenati nel bacino del Mediterraneo. E le formiche che avevano preso d’assalto le merendine industriali erano creature benedette che compivano il loro nobile dovere millenario, sempre allo stesso modo dall’origine dei tempi. Non so quanto tempo rimanemmo incantati lì davanti – i taralli atavici, l’uva archetipica: a noi sembrava incredibile, visti da fuori eravamo quattro fattoni ipnotizzati da resti di cibo.

In realtà, l’eterno sembra echeggiare con una certa ricorrenza nei trip report. E se a volte gli scenari sono piuttosto generici…

Ero un personaggio mitologico che lottava contro un’aquila gigante.
(Anno dell’esperienza: 2006)

…in altri casi, i riferimenti sono stranamente precisi.

Ero in un’antica cambusa romana, mi preparavo a mettere vela sul fiume, incoraggiato dalle persone alle mie spalle: «Ti diamo il benvenuto tra noi».
(Uomo, 27 anni, anno dell’esperienza: 2012)

Mi piace menzionare questa testimonianza particolarmente toccante, una coppia di neo-sposi che prende l’acido durante il viaggio di nozze, in una luna di miele lisergica.

Ryan mi tiene ancorata alla realtà con le sue parole: «Stai al caldo e mangia, e ricordiamoci Dio, l’amore e la famiglia. Ricordiamoci che tra un po’ torneremo a casa e cominceremo una nuova vita e insieme costruiremo una famiglia» (…) Così sono tornata dentro la realtà. L’ho ascoltato parlare di noi e del significato mitologico del matrimonio. Sentivo che le nostre anime si conoscevano da molto prima e che il nostro matrimonio era solo un anello della nostra storia eterna insieme. Ho capito che sono eterna, e anche Ryan lo è. Sono eterna nel passato, nel presente e nel futuro, e in questa vita attraverserò il tempo e la morte. 
(Donna, 30 anni, anno dell’esperienza: 2018)

TEMPO
Il che ci conduce a una riflessione sul tempo: categoria dell’essere puntualmente brutalizzata dall’esperienza psichedelica. Durante il trip il tempo, come le percezioni, può assumere connotati elastici, ricorsivi, frattali. Spesso il temuto bad trip non è altro che questo: l’impressione di ritrovarsi intrappolati in una bolla di tempo che ritorna angosciosamente su se stessa.

La psicologia cognitiva ci insegna che la nostra mente è progettata per funzionare su nessi di causa e effetto. La temporalità consequenziale è parte integrante della nostra natura: è il motivo per cui ci interessano le storie, ed è il motivo per cui le religioni hanno avuto un discreto successo nello sviluppo dell’umanità. Le strutture di eventi organizzati che danno forma al caos ci rassicurano e incidentalmente creano comunità: ci illudono, a torto o a ragione, che esista una causa prima da cui discendono le conseguenze, ci danno l’impressione che al disordine sottostia una trama, e quella trama è il fondamento della nostra esperienza e in ultima istanza di ciò in cui crediamo – come singoli o come gruppo. La psichedelia invece scardina il tempo, e col il tempo la consequenzialità degli eventi. Ci porta in un mondo in cui a un effetto non è necessariamente presupposta una causa. In qualche modo, simula la schizofrenia.

Il concetto di tempo diventava sempre più difficile da comprendere e la sua sostanza si sublimava in un movimento di onde senza fine. Quante volte ci perdemmo in un sogno di un’ora o tre ore, rimanendo seduti a ascoltare la musica o in silenzio, o in attesa che quell’energia defluisse? Erano le nove quando abbiamo pensato per la prima volta che gli effetti stessero scemando? Solo per sentire poi che tornavano più forti alle nove e mezza? 
(Uomo, anno dell’esperienza: 2008)

Viviamo nelle storie, viviamo dentro una fitta ragnatela di racconti. Non solo la religione, anche la politica, anche le micronarrazioni che reggono la nostra vita relazionale, i nostri rapporti che continuamente rinegoziamo raccontandoci agli altri: ai nostri amici, ai nostri psicanalisti. Ma se le nostre identità hanno sempre bisogno di essere confermate nella loro tenuta nel tempo del racconto, la psichedelia ci mette davanti a una domanda spaventosa: e se il tempo esistesse solo perché noi ne abbiamo bisogno? Se il tempo non fosse altro che – per l’appunto – un costrutto narrativo, un appendiabiti mentale che c’è solo nella misura in cui ci serve per attaccarci le nostre povere identità?

Questo mi ha portato a credere per un momento che il tempo stesso fosse solo un’illusione, che ogni singolo attimo della mia vita accadesse nello stesso momento.
(Uomo, anno dell’esperienza: 2007)

Ero congelato. Non ero più un essere umano. Ero un piccolo ingranaggio nella quarta dimensione. Un essere extradimensionale […] Una voce mi circondava. Mi chiedeva quale fosse la mia percezione del tempo. Non lo sapevo. Mi ha spiegato le difficoltà che la gente ha con il tempo. Ha detto che il motivo per cui tante persone sono spesso in ritardo è perché devono credere nel tempo, ma in fondo dubitano che il tempo esista davvero. Io ho detto che in verità il tempo non esiste. Siamo noi che l’abbiamo inventato. La voce mi ha risposto che una singola idea può essere più forte di un pezzo di roccia. Un’idea può vivere per terra mentre la roccia prima o poi rotolerà a valle. Il tempo è reale solo nella misura in cui noi lo rendiamo reale.
(Uomo, anno dell’esperienza: 2003)

AUTOPERCEZIONE
E – tanto per continuare a scardinare – Non guardatevi mai allo specchio. È un avvertimento che torna spesso nei report di psiconauti esperti. In effetti è vero – gli specchi sotto LSD possono essere una trappola infernale, e ci sono poche esperienze più spaventose di vedere se stessi e non riconoscersi – la mia identità misteriosamente decomposta e ricombinata in una forma che assomiglia a me, ma non sono più io.

Ho guardato il mio braccio. Ho la pelle scura e i capelli lunghi, e guardando i miei capelli che cadevano sul braccio ho cominciato a perdermi, il braccio diventava di sabbia e i peli del braccio piccoli cactus. Poi tutto ha cominciato a distorcersi: (dal mio braccio) spuntavano colline. Il braccio era un deserto e i miei capelli neri attorcigliandosi sopra formavano dei burroni che gli davano un aspetto ancora più realistico. Solo dopo un po’ sono riuscito a distogliere lo sguardo dallo spettacolo del mio braccio per guardare al campo aperto davanti a me, e lì ho visto il paradiso.
(Uomo, 18 anni. Anno dell’esperienza: 2009)

Tornato in camera mia, mi sono messo a fare facce buffe allo specchio, che è una cosa che faccio sempre. Sotto acido è ancora più divertente: sghignazzavo a me stesso, alle mie pupille dilatate. Concentrando l’attenzione sulla mia faccia e ignorando lo sfondo, un clone di me stesso è balzato all’improvviso fuori dallo specchio, portandomi letteralmente faccia a faccia con la mia replica in 3D. Questo è stato particolarmente divertente.
(Uomo, 19 anni. Anno dell’esperienza: 2007)

Lette così, le esperienze di autopercezione suonano buffe. Io stesso più volte ho ritrovato nella mia immagine riflessa l’amichevole figura di un pesce gatto sornione che vive da sempre negli specchi di casa per affiorare solo con l’LSD. Eppure, all’estremo opposto, l’acido specialmente a alte dosi, è corrosivo per l’identità. Ecco la mitologica ego-loss, la dissoluzione della coscienza: uno stato parente all’estasi mistica o al nirvana, in cui l’essere fluttua in purezza, fuori dal tempo, fuori dai condizionamenti delle percezioni, della biografia, e del ricordo – dimentico di se stesso, immobile nel vuoto.

La mia identità cambia di attimo in attimo, pezzi di identità si distaccano e cadono a spirali intorno a me. Ciascuno di questi pezzi è un meccanismo di percezione individuale, o un modo del pensiero. Non identifico la mia soggettività con nessuno di questi in particolare: ne sono formato complessivamente come la pianta lo è dalle singole foglie. […] Ogni mia manifestazione ordinaria è il prodotto dell’interazione tra il mio Sè e l’Universo. (Nella vita ordinaria) è come stare immersi in un turbinio di foglie, ciascuna di esse una singola percezione puntuale.  […] ma l’Universo, è a sua volta una singola soggettività complessiva, vale a dire Dio. È un singolo frattale, radiante da un singolo polo. E il mio Sé, se voglio, può identificarsi con quella soggettività cosmica. Fino a dove posso spingermi, io posso essere l’intero universo. Posso sentire l’amore per tutte le manifestazioni del mio Sé. Non c’è più nessuna consapevolezza di me nel passato, nessun trascorso della mia infanzia, non c’è nient’altro che il modo in cui in questo momento identifico me stesso e il resto del mondo sulla stessa matrice del mio Sè. […] Al livello più alto del satori, la coscienza puntuale diventa una superficie che si estende attraverso tutto l’universo conosciuto. 
(Uomo, 30 anni. Anno dell’esperienza: 2009)

La dissoluzione dell’io è un’esperienza che molti psiconauti cercano, perché ci distacca finalmente da noi stessi e dal sistema di automatismi che governa la nostra vita quotidiana, ci richiama all’origine che sta prima del nostro essere gettati nel mondo: anche nella prospettiva di ritornarci poi, nel mondo, purificati da quell’abbandono. Per altri può essere, facilmente, un incubo. Perché, disciolto l’io, quello che rimane è la domanda più spaventosa di tutte: chi sono veramente? E dietro quella domanda, un’altra, ancora più terribile, e ultimativa: Sono veramente qualcosa?

FOLLIA
Da un certo punto in poi, c’è una cosa che ho fatto sempre per prepararmi a un trip. Questa cosa è: portare con me una domanda. Entrare nel mondo lisergico con una questione da risolvere, un interrogativo personale, il più possibile pratico (una scelta di lavoro per esempio). Non tanto per trovare una risposta, quanto per tenermi attaccato a una specie di paracadute logico, una specie di gancio che, durante il trip può tenermi ancorato alla realtà se le cose si mettono male. In effetti, dalla prospettiva della mente razionale, nell’LSD le cose si mettono quasi sempre male. Al culmine dell’intensità, la psichedelia smonta le catene di senso, le avviluppa su se stesse in spirali di non-significato che tornano ossessivamente su se stesse. È la regione più spaventosa della psichedelia, quella che affaccia direttamente sul bad trip.

Ho acceso la tv e su un canale c’era un presentatore che parlava guardando in camera, rivolto al pubblico. Di colpo ero certo che guardasse me, come se fosse certo che c’ero proprio io a guardare la tv, e non un pubblico generico. Insomma si rivolgeva direttamente a me. Dopo un po’ ho capito che era un pensiero assurdo e ho avuto paura […] Ho pensato che stavo impazzendo, e che sarei stato rinchiuso in un ospedale psichiatrico per il resto della mia vita, perché non sarei mai tornato come prima.
(Uomo, anno dell’esperienza: 1970)

Non esiste psiconauta al mondo, credo, che non abbia pensato almeno una volta nella vita di essere impazzito e non poter più tornare come prima. Le volte che è capitato a me, è sempre stato nelle ultime fasi del trip, verso la quinta o sesta ora, quando la ragione lungamente sbatacchiata dalle mareggiate lisergiche minacciava di arrendersi. Tante volte la domanda che avevo portato con me è stata un salvagente. In qualche caso, pochi per fortuna, non è bastata nemmeno quella.

Non stavo più pensando in un senso cosciente. Concetti ricorsivi si inseguivano nella mia testa, non in senso cronologico, ma nella forma eterna del pensiero puro. Idee spiraliformi come: Vita – morte – nascita – madre – padre – vita – morte – nascita – madre – padre.
Cibo – caldo – aria – vivo – cibo – caldo – aria – vivo.
(Uomo, anno dell’esperienza: 2004)

Cosa resta dell’uomo occidentale quando gli togli la logica? Resta la cosa che ci spaventa di più, la scottatura dell’irrazionale. Ancora, come quando il tempo si sfalda, il dubbio che il mondo – quel costrutto che noi percepiamo e abitiamo come mondo – si regga su una specie di gioco di specchi mentale che mima un ordine nel disordine solo per permetterci di sopravviverci dentro. Ma se questa impalcatura è così fragile che basta un quadratino di carta di mezzo millimetro per farla crollare, allora, oltre la ragione, cosa rimane? I buddisti diranno che rimane il respiro dell’essere, la vita in purezza, oltre la mente proliferante e i condizionamenti.

Qui non ci spingiamo oltre, perché non è questa la sede per tentare risposte. Ci basta dire che, a un certo punto, anche dopo il peggiore dei bad trip, l’effetto passa, la ragione si ricompone, e noi torniamo a vivere in mezzo agli altri. Non siamo morti, non siamo diventati pazzi. La sensazione, nella mia esperienza personale, è sempre quella di una specie di nudità di creatura – oltre l’impianto della nostra ragione esiste un ordine superiore, un divino disordine, che ci sovrasta e se vuole può travolgerci con un soffio. Ma dopo aver sperimentato il trauma dell’illogico, avremo smitizzato almeno un po’ l’onnipotenza della mente: e se le nevrosi che ci tormentano nella vita quotidiana non sono che delle superfetazioni della ragione, smitizzare la mente non può che farci bene.

DIO

Ho visto Dio. Ma forse dovevo dirlo alla fine?
(Uomo, 30 anni. Anno dell’esperienza: 2009)

Impossibile, alla fine di questa breve visita guidata nelle regioni lisergiche, non fare almeno un riferimento en passant a un grande personaggio ricorrente dei resoconti degli psiconauti: una presenza mutevole e capricciosa che si manifesta, di volta in volta, nella forma di coscienza universale, o di luce, o di senso di unità con il creato, o di caos, o di armonia ordinatrice della creazione. Se quest’ultima forma è quella più prossima alla mia esperienza – una forma vicina a un singolo pensiero logico sottinteso a tutto il cosmo, non del tutto indifferente ai destini delle creature che lo abitano – la fenomenologia di Dio nella psichedelia meriterebbe un volume a parte e, in ogni caso, ci sono ancora troppi conti aperti con la Sua opera per sperare di essere imparziali. Una cosa è sicura: ed è che Dio può decidere di mostrarsi nel mondo lisergico dopo essersi negato per anni a chi lo cercava nel mondo reale. Questa, fino a oggi, è l’unica cosa certa che so di Lui.

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Ho conosciuto la psichedelia relativamente tardi nella vita: le mie prime, vere esperienze consapevoli con l’LSD e poi con altre sostanze risalgono più o meno alla diffusione del deep web, cioè intorno ai miei 26, 27 anni – da quando cioè quelle sostanze sono diventate alla portata di tutti, in dosi e purezze affidabili, fuori dal far west della strada o dalle feste. A quell’età, la personalità del medio maschio adulto occidentale si suppone debba essere già formata – e così, in effetti, era la mia. Avevo deciso cosa mi interessava nella vita (scrivere), avevo i miei amici storici (pochi ma fidati, grossomodo gli stessi di adesso: S. incluso, ovviamente), avevo consolidato le mie passioni musicali e artistiche e il mio bagaglio di irrisolti psichici, avevo deciso che la città in cui volevo vivere per i prossimi anni era Roma. Non posso dire con certezza, in tutta onestà, che l’LSD abbia indirizzato la mia vita in una direzione diversa da quello che pensavo sarebbe stato il mio destino all’epoca. Ma con la stessa onestà, non potrei nemmeno giurare il contrario. Ad oggi, a più di dieci anni di distanza dal mio primo, vero, trip in una casetta in un bosco a Frigolandia, posso dire con certezza che l’LSD mi ha portato in posti in cui, probabilmente, sarei arrivato comunque – ma in modo più rapido e, plausibilmente, più traumatico, e molto spesso senza la preparazione che sarebbe stata necessaria. Che ancora oggi, a quasi quarant’anni, ora che più che mai brucia la latitanza di Dio nella mia vita, l’LSD è stata una delle cose più vicine al sacro che io abbia potuto sperimentare. Che mi ha permesso di stringere un legame con persone a me care così profondo che è paragonabile solo al sesso e, forse, alla collaborazione artistica (o paradossalmente alla naja).

Ad oggi, dopo dieci anni, penso che l’LSD non contenga in sé nessuna risposta, ma sia un formidabile acceleratore di domande. L’LSD è una finestra, una scorciatoia, uno squarcio su un panorama misterioso e cangiante – che in certi momenti davvero non è nient’altro che un corto circuito tra le strutture innate della coscienza, la propria biografia e le fascinazioni della mitologia lisergica che leggiamo sui libri come questo che avete in mano. In certi altri, però, ci sono ricorrenze, c’è una geografia: quel mondo ha una struttura, per quanto molle e frattale, ma ce l’ha. E se crediamo in questo, possiamo credere alla realtà di quell’esperienza. E, oltre l’esperienza, alla realtà delle zone profondissime, impossibili, paradossali e contraddittorie di noi stessi, con cui quell’esperienza fatalmente ci mette in contatto. I trip report, queste svalvolate variazioni della letteratura di viaggio che ci commuovono ci fanno ridere e ci illuminano, al fondo non raccontano che questo: la straziante nudità della nostra anima a cospetto del caos. L’illogico, l’istinto, la follia, l’irrazionale – vissuti da una folla di nostri simili anonimi senza volto ma con cui ci sentiamo solidali. L’ingenuità che è parente della mistica, la via per l’assoluto che passa dal profondo di noi stessi, l’informe che tutti conteniamo, prima di ricompattarci, semplificati, nell’esperienza.

Ho usato psichedelici per anni. Ho superato un bad trip. Non ho mai perso il controllo. Ma ne ho sempre preso una discreta quantità, almeno due dosi. Questa volta è stato diverso. È stato un flusso di pensiero logico. Ho fatto dei disegni ed erano piuttosto buoni. Ho registrato della musica che, anche da lucido, era comprensibile. La conversazione era sensata. Allo stesso tempo, era del tutto psichedelica. Non del tutto estranea alla logica razionale. Mi ha permesso, da allora, di tenere insieme i due modi di pensare. Di adottare un approccio psichedelico alla vita. Ed è questo il punto. Cambiare la tua vita e il modo in cui guardi la realtà. Espandersi. Non solo per una serata di follia, ma per tutta la vita. Per questo consiglio a tutti di provare. Provate un paio di trip. Meditate, se ci siete portati. Lentamente, quell’esperienza scivolerà nella vostra vita di ogni giorno e sarete capaci di quel modo di pensiero tutto il tempo. Buona fortuna. 
(Uomo, anno dell’esperienza: 2000)

Roma, Jesi – Febbraio 2020

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Questo saggio è apparso originariamente all’interno dell’antologia La scommessa psichedelica, a cura di Federico di Vita e edita da Quodlibet.
Si ringraziano l’autore e l’editore per la gentile concessione.



Immagine di copertina di Alberto Casagrande