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Scrivere per guarire. Croire aux fauves di Nastassja Martin

«L’orso è partito da ore ormai, e io aspetto. Aspetto che la nebbia si dissolva. La steppa è rossa, le mani sono rosse, il volto tumefatto e lacerato non si somiglia più. Come ai tempi del mito, regna l’indistinzione. Sono una forma incerta senza più tratti sotto le faglie aperte del viso, ricoperta di sangue e umori. Poiché evidentemente non si tratta di una morte, dev’essere una nascita».

Allieva di Philippe Descola, titolare della cattedra di antropologia della natura al Collège de France, Nastassja Martin è una specialista delle popolazioni del Grande Nord e in particolare delle cosmologie animistiche, ovvero di quelle comunità in cui cade l’opposizione occidentale tra natura e cultura, e si considera che tutti gli esseri viventi – distinti soltanto dal loro involucro, la loro forma corporea – condividano un «fondo comune animato» capace di metterli in comunicazione.

Giunta in Alaska molto giovane per scrivere una tesi di dottorato, è colta di sorpresa: quella che si trova davanti non è una realtà vergine, preservatasi immune alla mondializzazione, ma un gruppo di individui massimamente esposti alla catastrofe globale. Degrado, miseria, droga, depressione. Dopo aver vissuto diversi anni con i nativi Gwich’in, minacciati dai progetti di estrazione petrolifera statunitense, si sposta dall’altro lato dello stretto di Bering, dove viene accolta in uno dei clan familiari eveni della Kamčatka tornati a vivere nella foresta alla caduta dell’Unione Sovietica. La sua diagnosi trova conferma: queste popolazioni sono le prime vere vittime della modernità. Questi luoghi sono gli avamposti della fine del mondo, i primi a toccare con mano i disastri del cambiamento climatico. «Un giorno è andata via la luce e gli spiriti sono tornati. Così abbiamo deciso di tornare a nostra volta nella foresta», le racconta Daria, la capo-clan. Ma non si tratta di un ritorno alla purezza di una terra ancestrale. L’ambiente è straziato, l’ecosistema scosso. Gli animali adottano comportamenti inusuali, imprevedibili. Seguirli sempre più lontano è un atto di resistenza: significa riattivare quei canali di comunicazione che la modernità ha intasato, infiltrandosi persino nei sogni di queste comunità. E proprio i sogni sono il terreno su cui un dialogo con gli altri viventi diventa possibile, perché nei sogni cade ogni frontiera fisica, linguistica, mentale. Il sogno non è mai un’esperienza del tutto privata: nella foresta si sogna con gli altri, si pianifica insieme l’avvenire.

Ma la vita in foresta è tutt’altro che idilliaca. Gli inverni sono spietati, le estati afose, la vita monotona, fatta di un’adesione totale al ritmo dei non-umani. È proprio per sfuggire a questo scambio ininterrotto, a questa promiscuità forzata, che un giorno Nastia – così la chiama la sua nuova famiglia – lascia la foresta per scalare il vulcano più alto della regione (il Ključevskaja Sopka). Sulla via del ritorno s’imbatte in un orso, probabilmente smarrito, nel mezzo di una morena dove di pesci o bacche non c’è neppure l’ombra. Entrambi spaventati, si mostrano i denti, entrano in collisione. Nel buio pesto e pestilenziale delle sue fauci, Nastia riesce a impugnare la piccozza e lo colpisce a un fianco facendolo fuggire, non prima che quello le abbia portato via una parte della mascella e fratturato lo zigomo destro. L’incontro ha un che d’ineluttabile, mitologico, fuori dal tempo. Eppure «niente è mai stato più reale, né attuale». Uno stato di alter-azione e con-fusione con l’altro che, lungi dall’introdurre a una dimensione spirituale, induce la più totale coincidenza con il presente: «sono più lucida che mai», «sono tutta sensazione». L’universo dell’altro è altrettanto mondano, concreto, gravido di conseguenze del nostro: «sento come la belva, sono la belva». 

Martin

Croire aux fauves, il racconto uscito per Verticales nel 2019 in cui Nastassja Martin cerca di ricucire i pezzi di un’identità dilaniata, prende le mosse dal suo calvario medico. Dal dispensario del campo di Klioutchy, centro d’addestramento dell’esercito russo in Kamčatka, dove viene fotografata come un fenomeno da baraccone, all’ospedale di Petropavlovsk, in cui si sveglia, dopo la prima di tante operazioni, legata al letto, sola, alimentata a forza come un’oca. Tornata in Francia dopo diverse settimane di interrogatori e privazioni, la sua mascella diviene dapprima il teatro di una guerra fredda ospedaliera – bisogna sostituire la placca sovietica e le sue grosse viti – e poi addirittura di una guerra civile – un’infezione da streptococco sulla nuova placca riaccende il conflitto mai risolto tra gli “ospedali-officina” di Parigi e quelli a misura d’uomo della provincia. Ma sul dolore e sulla commiserazione prevale la riscoperta, durissima, dell’alienazione imposta della civiltà. Un’incomprensione ineludibile, un’incomunicabilità che la separa dai medici, ma anche da amici e familiari, dalla loro «mania di attaccarsi alla sofferenza degli altri».

Tenendo fede alla tradizione del “secondo libro”, quello in cui lo studioso mette da parte le teorie apprese sui libri e lascia spazio a una riflessione più libera, pulsionale, selvaggia, Nastia tiene da tempo un quaderno nero che riempie solo la notte, quando tutto si spegne e la sua mente si fa sensibile al richiamo degli animali nel sonno. Il testo che leggiamo nasce in parte da qui. Ispirandosi al metodo inaugurato dall’antropologa americana Anna Tsing in Frictions (2005), che annuncia programmaticamente un obiettivo poetico oltre che pratico – non si tratta di “estrarre dati etnografici” sul terreno, ma di inventare nuovi tipi di racconto che spingano a interrogarsi più sulla forma che sul contenuto di ciò che si tramanda –, questa postura intellettuale non fa in realtà che riprendere l’insegnamento di Lévi-Strauss: il problema della nostra epoca è che l’ordine razionale e quello poetico sono ormai del tutto separati, cosa che non avviene presso i popoli primitivi. Il nostro sforzo dev’essere votato essenzialmente al ritrovamento di quest’alleanza profonda cui solo la scrittura, luogo di una dualità inscindibile tra soggettività e oggettività, può dare accesso.

«– Come sta? “Psicologicamente” intendo… – le chiede la terapeuta del reparto. Perché vede, il volto è la nostra identità. – La guardo sconcertata. […] Vorrei spiegarle che sono anni che colleziono racconti sulle presenze multiple che possono abitare uno stesso corpo per sovvertire il concetto di identità univoco, uniforme e unidimensionale cui siamo attaccati. Vorrei dirle quanto sia indelicato emettere un simile verdetto […]. Ma me lo tengo per me».

Pur isolandosi nella scrittura, rimane infatti il problema di doversi guardare allo specchio: «Non mi somiglio più, la mia testa è un pallone striato di cicatrici rosse e punti di sutura. Non mi somiglio più, eppure non sono mai stata così vicina alla mia costituzione animica». Se prima era matukha, «l’orsa», per via dei suoi sogni, ora gli eveni la chiamano miedka, colei che è stata “marchiata”, che vive tra i due mondi: mezza e mezza. Scrivere quindi, come guarire, per ricostruirsi con quel che le è rimasto dentro, decifrare le tracce dell’orso nella sua memoria ma anche sotto la sua pelle.

«Il 25 agosto 2015, l’evento non è: un orso attacca un’antropologa francese da qualche parte sulle montagne della Kamčatka, ma: un orso e una donna s’incontrano e le frontiere tra i loro mondi implodono». È un faccia a faccia archetipico, l’incontro enigmatico tra l’uomo e la bestia dipinto nelle grotte di Lascaux, dove chi entra assiste ogni volta alla nascita dell’arte, come ha scritto Georges Bataille. Credere alle belve, significa credere al silenzio e alla discrezione della foresta, al chi va là perpetuo dei non-umani a cui l’aveva iniziata il saggio Clarence a Fort Yukon: «Everything is being recorded all the time». La foresta è sempre in ascolto. A questo stesso riserbo ora aspira anche il corpo, retrocedendo in uno spazio di neutralità dove si tessono i legami con gli individui incontrati sul nostro cammino, in una metamorfosi continua che i trapianti, gli  innesti, i punti di sutura non fanno che portare avanti. Il corpo come un luogo di equilibrio e convivenza tra elementi esogeni, di cui vanno disinnescate le idiosincrasie attuali e immaginate le alchimie future. Il corpo come una rivoluzione, un’arca di Noè, che accoglie dentro di sé tutte le specie per sopravvivere al diluvio. Guarire è il processo che rivela la nostra unicità per ciò che è: un’illusione.

Se il sogno è mescolamento, d’altronde, esso è anche prefigurazione. Rivela un destino che riceviamo in eredità dalla nascita e inconsciamente predisponiamo, sul filo delle nostre scelte. Come dimostrano gli stralci più poetici del quaderno, il dialogo con la belva è già avviato da tempo: l’orso materializza un limite, una parte di sé che Nastia è andata a cercare fuori di sé. La violenza del loro abbraccio è reciproca. Per questo quando se l’è trovato davanti non è fuggita, come se ogni suo passo avesse per obiettivo di portarla fin lì. Non sorprende quindi che, appena le sue condizioni glielo consentono, Nastia ottiene un visto per la Russia e riparte. Ma un’altra disillusione l’attende. Daria le dice che, lasciandola in vita, l’orso ha fatto loro un dono. Sono in pochi quelli che tornano: per questo gli eveni hanno paura dei miedka, evitano persino di toccare le loro cose. Perché non sono più gli stessi, sono perseguitati, posseduti. Daria invece ha bisogno di lei e non vuole più che se ne vada. Anche nella foresta, insomma, l’incontro tra una donna e un orso è qualcosa di troppo grande per non venire immediatamente assimilato in un sistema di pensiero, in un discorso coerente. Un vuoto semantico che tutti si affrettano a riempire delle interpretazioni più triviali.

Martin

Ecco di nuovo l’incomprensione, l’“alterazione del proprio rapporto col mondo” che è la definizione stessa della follia. Come spiegare, d’altronde, di essere affetti da ciò che è fuori di noi? «Il mio problema è che il mio problema non è solo mio. La malinconia che si esprime nel mio corpo è la malinconia del mondo». Del mondo che cade a pezzi dappertutto simultaneamente. Nel testo non c’è nessuna mitizzazione di un luogo intatto, puro, iperboreo. Nessuna professione di fede animista o appello a far tacere la ragione. Solo l’ammissione di una presa di coscienza più vivida da parte di queste popolazioni escluse dalla modernità. È il racconto di una fuga costante tra dentro e fuori. L’equilibrismo di un soggetto alla ricerca di un punto d’appoggio oltre i propri limiti, di un qualcosa che pertiene al dominio dell’indicibile, dell’intraducibile. Questi popoli che abbiamo ridotto al silenzio per secoli hanno dei modi di reagire alla catastrofe più creativi di quelli che il nostro arsenale tecnico-militare-economico ci consenta d’immaginare. Seguire gli animali nella foresta, «aller rêver plus loin», significa fidarsi della loro inventività. Gli animali sono persone, capaci di valutazioni. Più che una necessità, la loro potrebbe essere una scelta: quella di propiziare una nuova genesi, una ridistribuzione delle carte. La crisi climatica rappresenta un’occasione di ripensare i nostri modi di rapportarci al vivente, poiché il vivente, ad ogni modo, sta già ripensando sé stesso.

Ma fin dove ci si può spingere nell’ibridazione? Sopravvivere implica il ricostruire dei limiti tra sé e l’altro. L’importante non è il soggiorno nella zona liminare, ma il movimento stesso verso questa zona. L’importante è non cadere nella trappola della fascinazione. È a causa dei suoi occhi se l’orso l’ha attaccata, le spiega il vecchio Vassia:  «Gli orsi non sopportano di guardare negli occhi un essere umano, perché ci vedono il riflesso della loro anima. […] Per fortuna che non hanno gli specchi, altrimenti diventerebbero tutti pazzi!». Fascinazione è il perdersi nello sguardo dell’altro, che è sempre sguardo della Medusa: se gli occhi sono lo specchio dell’anima è perché guardandoli si diviene altro da sé, si accede a una dimensione «dove l’alterità […] radicale è la più grande prossimità». Il cacciatore indossa la pelle dell’animale, il suo odore, ma sa che deve ucciderlo se vuole ritornare tra i suoi simili; oppure accettare di soccombere, farsi ingoiare dall’altro. La morte – o la follia – è l’unico epilogo che consenta di ripristinare un ordine, una distinzione, conclude l’autrice. Ma lei è tornata viva. Solo ora porta sul volto i tratti della maschera animista, la sua perenne reversibilità tra dentro e fuori.

Così come tramite il sacrificio si vive la morte per interposta persona, scrivere diventa un modo per sottrarsi all’alternativa tra fascinazione e morte. Un modo di “vivere oltre” la stabilità ontologica degli esseri. Ma per farlo bisogna ripristinare delle nuove frontiere coi materiali trovati nella “notte indifferenziata del sogno”: di cosa parlano d’altronde i miti cosmogonici di queste popolazioni? Di un viaggio in fondo al mare, o nella bocca di una belva, alla ricerca di disposizioni che non ci appartengono per tornare diversi, capaci di metamorfosi che ci permettano di rispondere alle metamorfosi del mondo. Solo che fuori dal tempo del mito la reversibilità si spezza e la nostra dualità diviene mortifera. Si deve fare in modo di poter tornare. Per attraversare coscientemente la nostra epoca, bisogna trovare un punto di mezzo tra «il mondo troppo alter della bestia [e] il mondo troppo umano degli ospedali».

Ma pretendere di ritornare, ricostruire, non significa avere una fede eccessiva nell’astuzia della ragione, nell’eterna capacità di restaurarsi dell’illuminismo? Le esperienze hors-cadre non derivano la loro grandezza dal fatto di essere tali, dal non poter fare-mondo? Come molta filosofia francese ha dimostrato, dopo Nietzsche, la questione del ritorno non è quella del ritorno nell’intimità del proprio, della coscienza, ma quella dello spettro che nessuna morte mette a tacere (Levinas dice più volte di credere che la storia della filosofia non sia che una serie di commenti all’opera di Shakespeare). Il mistero dell’arte, la sua sospensione così perfettamente immortalata a Lascaux, significa proprio questo : che non c’è morte né fine, solo ritorno. Ma un ritorno che non ci appartiene (basti pensare a Orfeo e alla sua vana pretesa di riportare un’ombra nel regno della luce). Il malinteso nasce forse dall’aver dimenticato la natura antropogenica dell’animismo, ovvero che esso attribuisca agli altri viventi un’intenzionalità per poter comunicare con loro: l’autrice d’altronde considera il quaderno nero come il rifugio della sua interiorità più privata, soggettiva, mentre il surrealismo ci ha insegnato che la catarsi prodotta della scrittura automatica deriva proprio dall’inappropriabilità dell’inconscio.

Per via della pandemia, l’occidente vive oggi sulla propria pelle l’instabilità che gli antropologi hanno riportato come condizione principale dei popoli relegati ai margini della civilizzazione. Circostanza che ci impone di abdicare da una posizione di osservatori intoccabili e immuni. Siamo tutti immersi in uno stesso fuori: “noi” e “loro” sono ormai categorie sorpassate. Le sfide e i cambiamenti di prospettiva cui ci pone di fronte lo studio delle cosmologie animistiche sono simili non solo a quelle dell’arte, ma anche a quelle della tecnica e dell’ormai capillare pervasività dei dispositivi tecnologici: una minaccia per ciò che eravamo, forse al tempo stesso una via di salvezza, se accettiamo di smettere gli abiti del soggetto cartesiano e di elaborarne il lutto. Ma siamo ancora noi a poter decidere se prendere una via d’uscita da quest’impasse?

Immagini: sito ufficiale Verticales

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