Comma 22

Ombre nella mente. Il sodalizio Dossi e Lombroso, tra Genio e Follia



«I pazzi aprono le vie che poi percorrono i savi». Questa frase attribuita a Carlo Dossi (all’anagrafe Alberto Carlo Pisani Dossi), tratta dal suo Note azzurre, troneggia sulla quarta di copertina di Ombre nella mente. Lombroso e lo scapigliato di Maria Antonietta Grignani e Paolo Mazzarello, saggio uscito per i tipi di Bollati Boringhieri, che si prefigge di analizzare il rapporto privilegiato che lo scrittore e diplomatico intrecciò, nella seconda metà del XIX secolo, con il contemporaneo Cesare Lombroso, fondatore di quell’alveo di studi che risponde al nome di Antropologia criminale.
Per quanto le teorie del Lombroso siano ad oggi considerate démodé e del tutto prive di validità scientifica — e benché fossero stimate come tali, dalla gran parte degli accademici, già al tempo in cui furono vergate — è difficile negare l’importanza dei suoi studi e soprattutto la caratura quasi paradigmatica del personaggio prima ancora che dell’autore. La figura di Lombroso, se considerata retroattivamente da noi cittadini del terzo millennio, si erge come emblematica della Weltanschauung del periodo in cui si trovò a vivere; un’epoca che, pur fondata sul crescente dogma del metodo scientifico e sull’avvento della rivoluzione industriale, si distinse per aver conosciuto anche una ripresa, sotto diversi punti di vista, dei fiori del Meraviglioso e del Fantastico. Fu in quegli anni che nacque la letteratura fantastica vera e propria, con Edgar Allan Poe in America e il suo omologo europeo E.T.A. Hoffman dalla nostra parte dell’oceano, e da questa prospettiva si potrebbe dire che Lombroso, pur in un ambito del tutto diverso, seppe far germogliare nelle sue opere gli stessi semi — e gli stessi germidel Grottesco, del Bizzarro e, appunto, del Meraviglioso:

«Leggendo quei libri si veniva gettati negli abissi tenebrosi della mente con tutti i loro conturbanti interrogativi sulla morbosità della natura umana. Libri avvincenti come romanzi, pieni di strane collisioni creative, sconcertanti contorsioni psichiche, azioni delittuose, prove straordinarie dell’ingegno e del genio. Tutto ciò che era anormale, innaturale, esagerato, vi trovava la sua collocazione, il suo spazio denso di significato. Il lettore si avvicinava avidamente a quei mondi alieni collezionati da Lombroso, ne era rassicurato perché segnavano una distanza di sicurezza dalla vita del medio lettore borghese, ma anche inquietato, perché ognuno percepiva nel morboso un frammento tangenziale alla propria realtà psichica.»[1]

Le bizzarre teorie lombrosiane sull’atavismo e sulla fossetta occipitale, nonché i suoi altrettanto pittoreschi studi sulla pellagra, sono cose note anche ai non “addetti ai lavori”, ormai quasi elevate a una dimensione mitica, incentrata su quel Meridione Magico che tanto interessò l’antropologo Ernesto De Martino da lì a pochi decenni, con la sua arretratezza e il suo brigantaggio. In questo senso, egli anticipò la poetica propria del grande Thomas Bernhard, i cui romanzi come Gelo e Perturbamento trovano un precedente persino biografico nell’operato di Lombroso, il quale «sotto la spinta dell’interesse per la diversità umana si mise in viaggio come un naturalista, a esplorare le valli […] e i villaggi dimenticati» per fare in prima persona la conoscenza «di quella umanità ignorata che viveva come un’escrescenza celata di una società cittadina in marcia trionfale verso il progresso».[2] Da cui, l’idea del delinquente come una sorta di «scheggia impazzita dell’evoluzione», e la connaturata definizione di atavismo quale «espressione degli istinti animaleschi che “rintuzzati per un certo tempo, nell’uomo dall’educazione, dall’ambiente, dal terror della pena”, potevano riemergere in certi momenti “sotto l’influenza di date circostanze».[3]

Lombroso

Meno conosciuta è invece la sua ipotesi, su cui si fonda questo saggio di Grignani e Mazzarello nonché lo stesso rapporto che Lombroso intratteneva con Dossi, di un background comune tra Genio e Follia — questo il titolo di quella che probabilmente fu l’opera più paradigmatica del metodo lombrosiano (prima ed. 1864), con tutti i suoi pregi e difetti, alla cui stesura progressiva partecipò anche lo stesso Dossi. A tal riguardo, fu quest’ultimo a rilevare come

«Le opere di Cesare Lombroso seguono, nel loro sviluppo, la via tenuta dalla maestra natura per le proprie. Presentandosi, in generale, la prima volta, con brevi concetti, vigorosi, arditi, spesso anche nelle apparenze temerari e tali da sembrare più divinati che dedotti […] le opere di Lombroso, sotto il calore della assidua meditazione e del conforto dello sperimentato severo, si organizzano, si arrotondano, ingrandiscono a poco a poco, cosicché, dopo due o tre edizioni, ci ritornano, innanzi nel rigoglio della perfetta salute e colle armoniche proporzioni delle cose complete.»[4]

E gli autori sottolineano che il successo delle sue opere, per quanto bizzarre, derivasse dal fatto che queste ultime fossero autoriflessive, e quindi suscettibili di diventare

«strumenti per guardarsi dentro nel corpo e nella mente, specchi attraverso i quali riconoscersi, diaframmi che permettevano il passaggio nei labirinti degli alberi genealogici per risalire lungo le generazioni e guardare vertiginosamente la genesi delle proprie tare psichiche e somatiche ma, naturalmente, anche l’origine del proprio genio.»[5]

Sì, perché a parere di Lombroso, come già anticipato, Follia e Genio deriverebbero dalla medesima fonte, concezione questa che avrebbe trovato il consenso dei più grandi scrittori del Fantastico di inizio ‘900, come H.P. Lovecraft e Arthur Machen. Il Genio sarebbe sorto, a parere dell’antropologo, «quando qualità regressive erano accompagnate da straordinarie doti creative»; da ciò, l’idea della degenerazione come «trasgressione di individui che riuscivano a vedere oltre le convenzioni sociali o intellettuali, esplorando il nuovo in qualsiasi ambito della realtà»[6], più o meno stimati dal mondo esterno che essi risolutamente rigettavano.
Richiamando — con tutta probabilità del tutto involontariamente — concezioni filosofiche precedentemente avanzate dal già menzionato Hoffmann (si veda, ad es., il suo celebre racconto L’Uomo della Sabbia, del 1817) e poi riprese, più di un secolo dopo, da Hermann Hesse nello Steppenwolf (1927), Lombroso e Dossi, «in accordo con le inquietudini tardo-ottocentesche e con i presagi della diffrazione o moltiplicazione del soggetto che dilagherà nel Novecento»[7], considerarono «l’io stesso […] privo di realtà unitaria»[8], al punto che Dossi poté chiosare: «Non ho io forse in me stesso una popolazione di Ii, uno diverso dall’altro? Se ne vuoi vedere qualcuno, mettiti allo specchio»[9]. «Non solo criminalità e atavismo, ma anche creatività geniale e pazzia»[10], riassumono i due autori. «Ogni angolo dello spettro abnorme della mente era preso in considerazione da Lombroso», il quale «non aveva paura di affrontare gli argomenti più scabrosi, dandone una descrizione poco rassicurante per quella società perbenista e imborghesita»[11]. Da questo punto di vista, i punti di contatto con il Great God Pan di Machen (1890), romanzo-manifesto in quanto a critica verso la bigotta società vittoriana, sono molto più netti di quanto si potrebbe immaginare di primo acchito[12]. In un caso come nell’altro, potremmo chiosare prendendo in prestito le parole di Grignani e Mazzarello:

«Il linguaggio inceppato, deformato, colorato e formicolante, che sapeva scardinare tutte le convenzioni, era o voleva essere tale in quanto specchio di una realtà insopportabile, perché essa stessa malata.»[13]






[1] M. A. Grignani – P. Mazzarello, Ombre nella mente. Lombroso e lo scapigliato, Bollati Boringhieri, Torino 2020,p. 157

[2] Ivi, p. 23

[3] Ivi, p. 35

[4] Ivi, pp. 114-115

[5] Ivi, p. 15

[6] Ivi, p. 36

[7] Ivi, p. 51. A riguardo cfr. L. Crescenzi, Il vortice furioso del tempo: E.T.A. Hoffmann e la crisi dell’utopia romantica, De Rubeis, Lavinio (RM) 1992

[8] Ivi, p. 51

[9] Cit. in Ibidem

[10] Ivi, p. 84

[11] Ibidem

[12] Sull’argomento, si veda M. Maculotti, Arthur Machen, profeta dellAvvento del Grande Dio Pan, in Arthur Machen. Lapprendista stregone, a cura di P. Mathlouthi, Edizioni Bietti, Milano 2020

[13] Grignani-Mazzarello, op. cit., p. 94




In copertina: George Frederick Watts, Studio per Ofelia, 1870