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Non sognare la precarietà: intervista a Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio



I don’t dream of labor: questo slogan è molto di più di una risposta arguta alla sempiterna domanda «Cosa sogni di fare?». È una resistenza alla commistione di professione e vita privata, alle frasi motivazionali come “Fai il lavoro che ami e non lavorerai un giorno nella tua vita”; va a sgonfiare il delirio capitalista che trova nel lavoro il punto massimo di realizzazione personale, nella performance l’oggetto di una fantasia a occhi aperti. Non è un sogno, il lavoro. Serve per pagare le bollette, la spesa, e affitti in crescita esponenziale. Chi ancora ci crede dice che serve a costruire una comunità, ma i lavori più retribuiti sono quelli che puntano a produrre solo maggiore ricchezza per chi li svolge, in una schiacciante ottica individualista, mentre i lavori di cura ottengono sempre meno riconoscimento, economico e sociale

Non è questo che sognavo da bambina, romanzo di esordio di Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio (uscito per Garzanti) racchiude già questo nel titolo: la ricerca di uno spazio di crescita, dove coltivare le proprie passioni e le proprie relazioni, e di contro il tempo che viene assorbito non solo dalle ore passate materialmente al lavoro, ma da tutte le preoccupazioni che ne derivano. L’isolamento, la lontananza degli affetti nella città che non si ferma; le dinamiche di ufficio e i contratti in bilico: tutti questi aspetti si mangiano sempre più pezzetti dell’esistenza di Ida, giovane uscita dalla scuola di sceneggiatura che si trova ad accettare uno stage (è una Unpaid Intern, come la canzone di Bo Burnham citata in esergo) da copywriter/digital strategist/qualsiasi mansione che si possa riassumere con alcune paroline inglesi che richiamino un atteggiamento smart.

Limina ha incontrato le autrici.

Sara Canfailla, Jolanda Di Virgilio, Non è questo che sognavo da bambina

Non è questo che sognavo da bambina abbraccia molte disillusioni, ci sono diversi tipi di scontro con la realtà: quali sono stati per voi i più segnanti quando siete entrate nel mondo del lavoro?

Sara: Non è stato il primo impatto, ma quello che ricordo meglio, il più violento: la socializzazione forzata. Vieni da un contesto dove siete tutti sullo stesso piano, poi arrivi sul lavoro e ti ritrovi a dover capire come gestire il fatto che una persona sia gerarchicamente superiore a te e possa determinare cose della tua vita, ma sia comunque una persona con cui devi intrattenere un rapporto, a cui devi stare simpatica. Si è sottoposti a una valutazione diversa rispetto a quella scolastica e accademica, perché non ci si aspetta di andare a pranzo con il corpo docenti, mentre in ufficio si devono creare queste relazioni, in cui non puoi essere sincera, ma devi intercettare quello che vogliono che tu sia, ed esserlo. 
È molto più subdolo come rapporto, sei cordiale con persone che non ti vedono come un qualsiasi essere umano, ma come una dipendente.

Jolanda: Il mio più grande trauma è stato il ritrovarmi da sola, una condizione che a me non appartiene per niente. Sono stata abituata a non avere niente di mio, a condividere qualsiasi cosa. Iniziando a lavorare questo è cambiato drasticamente: non è mancata tanto la fisicità delle persone, ma la guida. Mi sono sempre affidata al fatto che ero contornata di persone, ma per quanto presenti non possono sopperire a quello che devo fare io nella mia vita; non possono subentrare a me nel prendere le mie decisioni. Questo aspetto della solitudine mi è stato sbattuto in faccia nel momento in cui ho cominciato a lavorare: non sapevo con chi condividere le difficoltà che incontravo, l’ansia. La persona con cui ho iniziato a parlarne di più è stata Sara, che poi è il motivo per cui ci siamo legate tanto. La mia famiglia non poteva più fare parte di questa realtà.

Infatti in un capitolo Ida, che si è trasferita a Milano, torna a casa per le vacanze di Natale ed è come ci fosse uno strappo irricucibile con la vita di prima. 

Jolanda: Quella parte l’abbiamo pensata sì come uno strappo irricucibile, ma c’è anche spazio per quel tipo di sentimento che ti tiene legata al passato, quello che ti porta a ripeterti «Com’era più facile, com’era tutto al suo posto». Lei rivede i vecchi compagni, e anche se non sono esattamente realizzati sono rimasti lì e sembrano stare meglio di lei.

Sara: Ci ricolleghiamo allo stesso discorso, il lavoro falsa i rapporti, e se ti trasferisci in una città che non è la tua è normale che le persone con cui lavori diventino la tua sfera, ed è una sfera in cui non sei autentica, sei sempre lì che ti controlli. Quando ritrovi le persone della tua vecchia vita non ti devi impegnare. Eppure vedi qualcosa che di fatto è uguale, o almeno ci assomiglia, ma non è la stessa cosa: ne fai parte ma allo stesso tempo ne sei ormai fuori, e un po’ ti culli in quella sensazione che fosse più facile, ma non puoi tornare indietro.

Ida voleva fare la sceneggiatrice: come tante persone che sognano di scrivere si è trovata in un’agenzia di comunicazione. Come si coniuga quel tipo di storytelling – ogni prodotto deve essere raccontato in fondo – con l’aspirazione creativa? Mad Men ci ha rovinati?

Jolanda: «È tostato» ci ha rovinati. (ndr: nel primo episodio di Mad Men il protagonista Don Draper deve gestire una nuova campagna pubblicitaria per le Lucky Strike, dopo l’uscita di un report sui danni del fumo per la salute. All’ultimo momento se ne esce con uno slogan che sposta l’attenzione dalla pericolosità del tabacco alla cura nella manifattura: per l’appunto, «È tostato»)

Sara: Secondo me va fatta una grande distinzione tra scrittura creativa e scrittura per la comunicazione. Se pensi di fare la copywriter perché scrivi articoli, o narrativa, sei completamente fuori strada. L’unica cosa che le accomuna è l’uso delle parole, ma non puoi pensare che vada a soddisfare quella parte di te che vuole esprimersi artisticamente. Del resto lavorare in comunicazione senza scrivere al di fuori ti rovina la scrittura, ma come lo farebbe qualsiasi lavoro: se per otto ore al giorno ho la testa altrove non dedico quel tempo alla scrittura. Sono cose così diverse però che non si escludono a vicenda, solo chi lavora in comunicazione lo deve prendere come una mansione completamente staccata. Anche perché in un copy tu devi sparire, non ti devi mettere dentro: ci vuole una tecnica, è un altro campo.

Jolanda: Poi saper scrivere è diverso dal saper raccontare una storia, creare un contesto… Ci sono molti mestieri che hanno a che fare con la scrittura, sicuramente il copy, ma anche il redattore, il ghostwriter. Se per “voglio scrivere” si intende “mi voglio esprimere”, stiamo parlando di un’altra cosa.

Milano è un’altra grossa disillusione nel romanzo, eppure è anche molto presente, c’è una toponomastica precisa. Ci sono altri modi di narrare Milano?

Jolanda: È vero che l’abbiamo dipinta con questi tratti crudeli – l’affitto caro, e via dicendo – ma l’averla ricostruita così dettagliata è comunque un gesto quasi d’amore. Il nostro sguardo è curioso rispetto alla città, rispecchia il modo contraddittorio con cui noi ci rapportiamo a Milano. Il costo, la corsa alla performance: Ida si ritrova sempre a dover performare, e questo atteggiamento ci viene effettivamente trasmesso. Intenzionalmente però non voleva essere un ritratto del tutto negativo, ma riflettere quello che abbiamo vissuto. La città la spinge al massimo, ma talvolta la accoglie anche, specie nei momenti fuori dall’ufficio, quando si prende più spazio. Non solo attraverso i locali, ma entra nella narrazione anche attraverso le descrizioni del clima. Milano alla fine è anche la sua casa. 

Sara: Abbiamo un rapporto ambiguo con Milano. È assurdo che ti chieda determinati ritmi, determinati soldi e sono assurdi i soldi che ti offre. Ma sa anche darti quello che cerchi, se sai dove cercarlo. Ci interessava tracciare una toponomastica perché ci sono luoghi che ci hanno colpito, che abbiamo amato, anche perché rispondono a delle particolari esigenze nostre. Una volta che sai cosa vuoi è più facile trovarlo. È una città dove imparare a stare, ed è complicata perché il primo impatto è estremamente cattivo. Solo alla fine ti rivela il suo lato più dolce. 
È anche una città precaria come è precaria la vita della protagonista, non sai mai cosa ti chiederà in cambio.

Emerge anche questo ritratto, a volte sconfortante, dei rapporti umani. Sono poche le eccezioni: sul lavoro è difficile creare un legame che non abbia il filtro della competizione, e l’unica relazione che sembra essere autentica è quella con Gio, che però è lontana, è fuori dal contesto in cui si muove Ida. Queste relazioni nascono così difettose perché inserite in questa determinata situazione, o sono inevitabili nel percorso di crescita?

Jolanda: Non so se le due possibilità si escludono. Mi colpisce questa osservazione perché mi sta arrivando da tante persone: Ida è molto sola. La cosa assurda è che noi l’abbiamo pensata da subito così. Al momento della scrittura noi condividevamo così tanto quello che stavamo vivendo che di fatto eravamo una sola persona, avevamo trovato un canale dove riversare tutte le nostre aspirazioni e frustrazioni. Venivamo da un percorso di studi molto basato sull’individualismo, sul successo personale, sul concentrarsi chi si sarebbe diventati dopo, per poi ritrovarci in un mondo diverso. Cominciando questo progetto ci siamo fatte un discorso sulla precarietà: mettiamo una persona precaria sul lavoro, sull’aspetto sentimentale, ma non abbiamo mai deciso razionalmente di creare un personaggio accogliente: l’unica amica, Gio, non ha una voce, non leggiamo mai le sue risposte.

Sara: Ida non ha rapporti autentici, ed è vero che sembrano tutti instabili: questo è proprio sintomo dell’età adulta. In adolescenza ti fai andare bene un po’ tutto, poi quando cresci vedi che le persone che ti possono stare attorno sono poche, e nel frattempo hai sviluppato un modo di essere diverso, capisci chi vuoi a fianco e chi non vuoi. Dall’altro lato però in maniera involontaria abbiamo riportato una situazione molto tipica anche da grande città. Stare con tutti ma non stare davvero con nessuno, mille amici ma nessuno che ti porterai tra dieci anni. Milano tende molto all’isolamento: ci si aggrega quando si fa la stessa cosa, l’aperitivo dopo lavoro, il giro alla Fashion Week, ma sono motivi esterni che ti portano ad avvicinarti, l’aver bisogno di fare cose in compagnia. L’amicizia è una cosa diversa. Ida interagisce continuamente con le persone, ma veramente con nessuna. 

Jolanda: Mi intenerisce questo tratto che emerge. Ma proprio per noi stesse: la mia prima osservazione sull’inizio del lavoro è che mi sentivo sola. È un elemento che non abbiamo mai affrontato esplicitamente tra di noi, ma è filtrato, perchè è la condizione in cui eravamo già immerse.

Come è precaria Ida sono precarie tutte le persone intorno a lei, è come creare legami in un porto.

Sara: Le persone se ne vanno continuamente. Cambiano stage.

Jolanda: Una cosa che mi è stata detta spesso è che era strano avessimo creato un personaggio così solo mentre noi eravamo in due, come fosse scontato che raccontassimo un rapporto a due. Quello che ci ha permesso di scrivere in maniera così intima è che ci siamo davvero fuse, non volevamo scrivere l’una dell’altra.

Come avete trovato la voce di Ida? Voi scrivete anche singolarmente, e qui avete messo a punto un lessico comune e un tono riconoscibilissimo, eppure lontano da entrambi i vostri stili.

Sara: Quando abbiamo iniziato a scrivere di Ida non era per un romanzo, ma per un progetto non definito. Doveva essere una newsletter: già lì un po’ era emerso il tono che abbiamo usato. Non è un’unione delle nostre voci, è proprio una cosa a sé. Io di solito deprimo la gente, tu sei più fiabesca, e insieme siamo ciniche.
Nelle giornate orribili ci scrivevamo queste mail con il racconto della giornata, e da lì vengono i modi di dire, le iperboli che Ida usa.

Jolanda: Poi abbiamo messo tutto a sistema, abbiamo scelto una terza persona che però non fosse fredda. La chiamavamo “una terza persona che le sta sulle spalle”. Una volta trovata è diventata una voce che mi parlava nella testa, e a quel punto ci appoggiavamo completamente a lei. Inoltre, quando penso utilizzo il tono con cui scrivo, ma quando parlo a Sara uso un’altra voce, ed è questa. Il nostro linguaggio condiviso è quello che è finito sulla pagina. Dal romanzo agli articoli che scriviamo insieme esce questa lingua che è proprio diversa.

Cosa fa Ida ora?

Jolanda: Sarei molto curiosa di ritrovarla.

Sara: Ida non la puoi salutare secondo me. È così simile a una persona che potresti conoscere che non pensi possa sparire. Continua a fare le sue cose, la vedo in ufficio che fa i suoi copy, e la puoi sempre riprendere.

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