Comma 22

La casa non è una prigione, forse. Intervista a Manuel Muñoz



Un luogo non si chiama casa fino a quando non si è pervasi da un senso di conforto e soffocamento insieme: il momento in cui si realizza che le sicurezze delle scelte attecchiscono senza grandi rivoluzioni, nel modo con cui l’abitudine ha di insinuarsi nell’esperienza.
L’odio per il luogo d’origine ricorda il modo con cui si odiano le cose amate e cioè con la voglia recondita di continuare a esserci, senza farsi inghiottire, con una via di fuga a sfiatare le tensioni.
È un contrasto che i personaggi dei racconti di Le conseguenze, di Manuel Muñoz, conoscono bene. E così anche se Juan ha tutto quello che avrebbe mai potuto desiderare, come una relazione con Daryl e i calorosi ritrovi nella comunità omosessuale di Fresno, è pervaso da senso crescente d’inadeguatezza.
Molti protagonisti sono gli intrusi nella vita che loro stessi hanno scelto, come lo scetticismo di Mark nei confronti del compagno Teddy: quello che credeva essere un amore superficiale e non ricambiato diventa un viaggio in Texas che ripercorre la vita del compagno, fino a una consapevolezza che arriverà troppo tardi. 

E poi ci sono le storie degli immigrati ispanici che lavorano nei campi, mossi da sogni silenziosi e da case troppo lontane per pensare a un ritorno; racconti di ragazzi delle nuove generazioni che osservano le memorie dei vecchi cercando di cavarne qualsiasi cosa che non sia paura.
Su tutti preme l’orizzonte piatto e aspro della Central Valley, nel cuore della California, che perde ogni tratto anonimo e instaura con tutti i personaggi un legame che ne influenza i sentimenti. 
La scelta non è casuale perché Manuel Muñoz è nato proprio qui, tra Sacramento e Fresno, in una famiglia di braccianti agricoli di origine messicana. Oggi è scrittore e docente all’Università di Tucson in Arizona e lo abbiamo intervistato in occasione dell’uscita di Le conseguenze per Edizioni Black Coffee (traduzione di Annalisa Nelson).

Manuel Muñoz

Mi interessa la genesi dell’opera: com’è nato Le Conseguenze?
Ho parlato spesso del mio sentirmi un po’ perso nel 2011 dopo la pubblicazione del mio romanzo, What You See in the Dark. Non molto tempo dopo mi separai dal mio editore del secondo e terzo libro. Ero così dubbioso riguardo alla scrittura che ho faticato ad andare avanti.
Per rimettermi in carreggiata, mi sono concentrato nuovamente sulla mia vera passione: la forma del racconto. Ne ho scritto uno e poi un altro, passo dopo passo. Non ho mai pensato a un libro fino a quando non mi sono trovato tra le mani sei storie già scritte.

Una parte delle storie di Le Conseguenze provengono dai «cuentos», vicende passate che ascoltavi durante l’infanzia dai tuoi genitori. Sono racconti ambientati soprattutto durante gli anni Ottanta, che hanno come protagonisti lavoratori migranti. Altri racconti come Presumido, Le conseguenze, Compromisos, sembrano ambientati in un tempo vicino al presente e indagano altre questioni come l’emarginazione, l’isolamento, il senso familiare e la tenerezza della comunità, rimpianti per un passato che non potrà tornare mai più.
Da una parte c’è la memoria collettiva, dall’altra subentrano nuove difficoltà dovute a occasioni mancate o nuove discriminazioni.
Credi che la forma del racconto sia una delle più adatte per raccontare le storie delle minoranze?
Considerando quello che sta accadendo negli ultimi anni, con il ritorno e l’inasprimento delle politiche razziste, quali credi siano i nuovi temi che coinvolgono le minoranze?
Non sono un pessimista, ma quando dico che i vecchi problemi sono i nuovi problemi, intendo dire che i cambiamenti nella società e la rigidità dei pregiudizi sono forze molto potenti. Penso che il racconto sia la forma migliore perché aiuta in quantità: ogni nuova storia è un tentativo per il lettore di comprendere un aspetto della comunità. Forse i romanzi possono indagare tutte queste questioni allo stesso tempo, ma i racconti mi permettono di concentrarmi sulla dignità di un individuo e sulla sua singolare esperienza. Un racconto non deve affrontare tutto, ma i migliori sentono di averlo fatto davvero.

La tua prima raccolta di racconti Zigzagger narra di personaggi che lottano continuamente per la loro indipendenza e devono vedersela con l’isolamento nella tranquillità della vita rurale della Central Valley.
Nella seconda raccolta, The Faith Healer of Olive Avenue, torni ancora una volta nelle comunità messicano-americane per indagare i modi con cui la casa influenza i destini dei protagonisti in modi, allo stesso tempo, spietati e accoglienti.
Infine, nel romanzo What You See in the Dark ti allontani dalla Central Valley alla volta di Bakersfield con una storia ambientata negli anni Cinquanta che svela il lato oscuro.
Avverti che sia cambiato qualcosa nella tua scrittura rispetto alle opere precedenti? E come si colloca la nuova raccolta di racconti rispetto alle tue opere precedenti?
Riguardando il mio primo libro, pubblicato nel 2003, ho notato che lo stile era molto scarno. Sono sempre stato quello che alcuni considerano uno scrittore “tranquillo”. Mi piace prendermi il tempo per descrivere persone, luoghi, tempo e così via perché riconosco che la maggior parte dei lettori non è mai stata nella Central Valley e quindi confido che la mia pagina li porti lì. Ma nei lavori successivi ho notato che l’approccio sobrio ed economico stava lasciando il posto a frasi più lunghe. Ha fornito la sfumatura che cerco nelle storie, molti luoghi in cui nascondersi nella frase!

Come sei riuscito a prendere la giusta distanza, come narratore, tra l’empatia per le storie del passato che hai ascoltato dai racconti e le vicende che ti sono accadute o che hai vissuto in prima persona?
Quasi ogni racconto è basato su qualcosa che ho sentito. Solo raramente le esperienze personali complete sono state al centro di una storia. Pur essendo finzione, quei momenti “veri” si trasformano nella storia che voglio raccontare, piuttosto che nella storia che era. Penso che fare un passo indietro e osservare una vicenda inviti tutti noi a guardare, ma non a giudicare. Quindi trovo abbastanza facile creare quella distanza. So che altri scrittori lottano con questa distanza, ma per fortuna questo non è mai stato un problema per me. È legato alla mia timidezza: sono una persona riservata, quindi sono abituato a osservare e non sempre a parlare o partecipare. Il mio modo di stare al mondo mi aiuta a creare quella distanza in un racconto.

La Central Valley è una protagonista delle storie, con tutte le sue implicazioni dovute a piccole comunità che danno sicurezza e soffocamento allo stesso tempo.
In che modo il territorio in cui sei nato ha influenzato te e la tua scrittura?
Quando ero piccolo, volevo lasciare la Central Valley e non tornare mai più. Penso che chiunque sia cresciuto in una piccola realtà desideri andare in città e non tornare mai più. Una volta partito, ho notato che la mia fantasia mi portava sempre lì: se scrivevo una storia, era in un piccolo paese che riconoscevo. Quei dettagli sensoriali – immagini, odori, rumori – sono nelle mie ossa. Quindi è naturale che io voglia ambientare il mio lavoro lì.
Un racconto è ambientata nello stato del Texas. Sono stato ispirato andando nella città natale di mia madre, Mathis, in Texas, e vedendo le strade strette e le chiese con la vernice bianca sbiadita. Ho scattato una foto a una chiesa nel vecchio quartiere di mia madre e, non molto tempo dopo, ho immaginato una scena lì. Quindi ho bisogno di vedere un luogo con i miei occhi, di sentirlo con tutto me stesso, prima di scriverne.

Sei stato affiancato a John Steinbeck che con Furore e Uomini e topi ha descritto in maniera dolce e dolorosa la vita dei lavoratori dei campi della Central Valley. Ti hanno paragonato anche a Juan Rulfo, uno dei capostipiti del realismo magico, che con Pedro Páramo ha segnato il romanzo moderno messicano.
Ma quali autori e quali opere hanno influenzato la tua scrittura e la tua vita di lettore?
Vorrei esortare i lettori a cercare la mia mentore, Helena María Viramontes, in particolare il suo libro del 1995, Under the Feet of Jesus. Quel romanzo è incentrato anche sulla vita dei braccianti agricoli, sebbene la stessa Helena sia di East Los Angeles. Come mentore, mi ha insegnato che dare la piena dimensione dell’essere umano – il buono, il cattivo, il santo, il distruttivo – è la chiave della nostra dignità. Mi ha esortato a concentrarmi sui personaggi e a farli diventare i centri forti di ogni storia che scrivo. Uno dei suoi motti è «Le persone prima di tutto». Senza personaggi e senza conoscere il più possibile su di loro, la storia non può incontrare il lettore. Ho anche imparato che i migliori consigli per scrivere dovrebbero applicarsi anche alla vita reale. Ecco perché «le persone prima di tutto» mi ricorda anche di essere aperto, generoso e sempre in ascolto.





Illustrazione di copertina di Francesca Lippa @vecchiajane