Comma 22

L’incomunicabile destino di una grande nave che affonda



Grande nave che affonda, pubblicato a febbraio 2023 da Atlantide Edizioni, rappresenta l’esordio di Andrea Cappuccini, un autore che sembra essersi affacciato da poco sulla ribalta editoriale e letteraria italiana – nella scheda autore sul sito dell’editore leggiamo che «per ora ha fatto il traslocatore, il cameriere, il receptionist, il cuoco, l’idraulico, il manovale, il guardiano notturno di set cinematografici, ha montato piscine e ha pubblicato un racconto su Altri Animali» – ma che, ciononostante, ha portato in stampa un romanzo che ha saputo catturare un notevole interesse.

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Ciò che accade dentro noi
Grande nave che affonda è una di quelle opere letterarie nelle quali la trama ha una rilevanza minore di quanto ci si aspetterebbe da un romanzo. Prendendo in prestito le affermazioni che l’autore ha rilasciato in una intervista a Rivista Blam!, leggiamo che «da una certa prospettiva in Grande nave che affonda non succede molto: ci sono delle persone intrappolate in un quartiere che non riconoscono più e per un anno aspettano un ragazzo che deve uscire di galera». E in effetti la trama si spiega in poche parole: quando il giovane Taddeo Romano viene portato a Rebibbia per un reato mai precisato, nel tranquillo quartiere di Torricella al limitare della periferia romana avvengono dei cambiamenti quasi impercettibili: il padre Camillo prende a parlare con il fantasma di un amico scomparso da vent’anni, la madre Viviana comincia a fare delle lunghe passeggiate notturne, il nonno Settimio acquista un cane da caccia che in realtà da caccia non è. E soprattutto il miglior amico di Taddeo, Diego, si insedia a casa sua, quasi a volerne mantenere un presidio fisico. Da lettori, seguiamo per un anno lo svolgersi di questa matassa di situazioni che occasionalmente si incrociano ma perlopiù sembrano andare ognuna per la propria strada. Questo è un primo aspetto che risalta nell’opera di Cappuccini, e che pare fare da contraltare a un altro elemento che invece è opposto in quanto attinente a una dimensione collettiva: se da un lato infatti i singoli personaggi risultano chiusi in un solipsismo esistenziale, ognuno costretto a trovare un modo per affrontare questo lutto-non lutto, ossia l’assenza forzata di Taddeo Romano, dall’altro ci troviamo dinnanzi al destino non solo di due generazioni di persone (i giovani di oggi e quelli di ieri, ora divenuti adulti), bensì a quello di un intero quartiere, che assiste impotente alle trasformazioni che avvengono fra le sue strade, nei suoi parchi, all’interno e all’esterno degli edifici di questo luogo al confine fra periferia e provincia.

A investire le due dimensioni – quella individuale/monadica e quella collettiva/corale – sembra essere l’incomunicabilità. Nella dimensione individuale, i personaggi più che scontrarsi si aggirano, si passano attorno, impegnati in una danza improvvisata con l’unico obiettivo di non interagire troppo gli uni con gli altri. Vengono in mente i versi di Quasimodo, quelle belle parole che recitano «Ognuno sta solo sul cuore della terra / trafitto da un raggio di sole»: ebbene è così, ogni personaggio, a modo proprio, sta solo fra le strade di Torricella trafitto dal tempo che passa, e deve trovare un modo per farlo passare in fretta questo tempo, perché Taddeo tornerà ma intanto all’oggi deve seguire il domani, e dopo questa settimana ne verrà un’altra, e chiunque abbia vissuto un’attesa indefinita sa quant’è difficile fare i conti con i secondi che sembrano immersi in un magma ribollente ma quasi immobile. Solo verso la fine del viaggio ci si rende conto che forse – forse – quel tempo poteva essere speso diversamente, che poteva essere investito per trarne un qualche tipo di profitto e guadagnarne un qualche tipo di esperienza. Ma all’inizio, quando tutto deve ancora accadere, si cerca solo di raggiungere la meta nel modo più rapido possibile, e qui sta l’enorme fregatura: che più si cerca di far scorrere il tempo per raggiungere quel traguardo che si intravede al di là della salita, più questo tempo scorre con lentezza. Non è un caso che sui primi giorni Cappuccini si concentri maggiormente: su questa estate afosa che porta tutti «a spogliarsi» e a causa della quale addirittura «l’asfalto cominciò a squagliare». Questa estate, a cui segue un autunno carico di fulmini e nebbia, copre più della metà della narrazione, quasi a indicare come l’inizio sia appunto la parte più difficile. «Si tirava a campare» scrive a un certo punto Cappuccini. Questo tirare a campare, unito al solipsismo di questo sforzo che è collettivo e singolare al contempo e che porta a stare soli fra le strade di Torricella, è un fortissimo elemento di tensione che attraversa tutto il libro.

Ciò che accade intorno a noi
Dall’altra parte troviamo, come si è anticipato, l’elemento collettivo/corale del romanzo. Mentre affronta i destini di un padre, di una madre, di una sorella, di un amico, Cappuccini racconta anche il destino della periferia romana che, s’è detto, assume qui le caratteristiche della provincia. Torricella infatti – il cui toponimo è perso nella nebbia del tempo e solo i più anziani ne conoscono il segreto – fino alla generazione precedente era comune a sé: era dunque un luogo con una propria identità, e anche se la torre da cui prende il nome non esiste più, c’è il pratone, ci sono i luoghi conosciuti da tutti, compreso il bar del Giaguaro che è il classico ritrovo di una mescolanza d’umanità, dagli anziani che giocano a carte – e che magari quel bar l’hanno visto venire su – ai giovani che bighellonano in attesa che qualcosa accada. Ma ciò che accade – e questo è un tema tipicamente capitolino nel quale Cappuccini si intromette con una energia incredibile – è che Roma arriva a inglobare tutto. Chi non vive in questa città infatti può credere che Roma sia tutto ciò che sta nel Grande Raccordo Anulare. E qui viene in mente una famosa frase di Alberto Sordi riguardo la differenza fra dentro e fuori le mura, anche se lì si parla di mura appunto, le mura Aureliane che oggi stanno un po’ strette a tutti: «Chi è nato a Roma è romanista. I laziali so quelli de fori le mura, che ce porteno l’ove fresche e le ricotte». Se Sordi parla di mura, oggi si potrebbe pensare che il confine della città sia il Raccordo, quel limite che segna il dentro (Roma) e il fuori (tutto il resto, ciò che Roma non è). Invece non è così, e Grande nave che affonda questo aspetto lo evidenzia eccome: interi comuni – e dunque intere comunità – negli anni sono stati inglobati all’interno della capitale, sempre a metà strada appunto fra periferia della periferia e provincia. E in questo processo di fagocitazione hanno perso la propria identità, perché ciò che prima era comune ora è un pezzo di terra di nessuno, abitato da persone che gravitano intorno alla metropoli senza per questo sentirsene veramente parte perché, per chi vive invece dentro, loro resteranno sempre gli altri, gli esterni (a volte, in modo dispregiativo, i burini): «Ma quella mattina di molti anni dopo, quando vecchio e traballante si era alzato dal letto dopo la fine delle nebbie di Torricella, Settimo era solo. Non aveva i suoi con sé, né niente. E vedeva Roma che era arrivata impietosa nella terra che era loro e dove ancora si moriva senza pietà e senza importanza».

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Andrea Cappuccini

Il modo in cui raccontiamo le storie
In Grande nave che affonda, quel che conta non è solo ciò che accade ma anche il modo in cui viene raccontato. Interessante è la nota che l’autore pone nella pagina precedente alla dedica al fratello: «Nello scrivere questo romanzo ho cercato di riprodurre una lingua parlata che non sempre si tiene su delle regole grammaticali stabili, e può anzi cambiare anche a piacimento dell’interlocutore». Pertanto, prosegue, ha preferito «non segnalare sistematicamente con apostrofi o altri accorgimenti le sue divergenze rispetto all’italiano» (ibidem). Una doverosa precisazione è il fatto che l’autore abbia deciso inoltre di non utilizzare virgolette o caporali per segnalare la presenza dei dialoghi, i quali non solo non sono evidenziati rispetto alla narrazione bensì vengono anche sciolti al suo interno, come accade, per fare un solo esempio, a pagina 92: «L’unico che seppe dargli una risposta fu un vecchietto, uno talmente vecchio che avrebbe potuto essere già vecchio a inizio secolo e disse che una volta c’era stata una torre. E indove? Là, disse indicandogli un punto».

Se da un lato questo modo di scrivere i dialoghi, utilizzando un misto di italiano e romanesco – che poi romanesco non è perché appunto è parlato da quelli che stanno fuori e che propriamente romani non sono – complica un poco la lettura, dall’altro è proprio questa maggiore complessità a costringere il lettore a una maggiore attenzione e, si spera, una maggiore penetrazione della narrazione. L’utilizzo del dialetto, per chi non è di Roma o dintorni, può significare un’ulteriore sfida ma questo a Cappuccini sembra non importare perché è invece fondamentale restare fedeli alla terra, alle origini, al territorio in cui viviamo.

Il risultato di tutto questo è una lingua ibrida e stratificata: una narrazione che sconfina nel dialogo e un dialogo che si fa tutt’uno con la narrazione, come nella migliore tradizione orale. Così, mentre i personaggi devono lottare per trovare un modo per far scorrere il tempo e Torricella deve combattere per non farlo scorrere troppo in fretta (ché Roma non ha mai smesso di avanzare e inglobare, sin dai tempi in cui era capitale di un impero), la voce narrante ci accompagna senza difficoltà in questa storia che ha il sapore di un’epopea, ma anche di una saga familiare, ma anche di un romanzo di formazione.

Grande nave che affonda è dunque un ottimo esordio in cui, pur non accadendo quasi nulla, accadono in verità un sacco di cose. L’attenzione al linguaggio è la punta di diamante del romanzo di Cappuccini, del quale attendiamo una seconda prova.