Comma 22

La voce di Edith Stein, da Auschwitz all’Europa

Nata nella Breslavia tedesca (oggi polacca) da una famiglia ebrea, cui darà un grande dolore convertendosi al cattolicesimo e scegliendo la monacazione, filosofa tra le più brillanti dell’ultimo secolo a cui un mondo di uomini ha negato la cattedra, Edith Stein, o Santa Teresa Benedetta dalla Croce, è la protagonista delle pagine di Ciò che possiamo fare. La libertà di Edith Stein e lo spirito dell’Europa (Solferino, 2019): un ritratto appassionato e sororale affidato alle mani e all’empatia di Lella Costa, che regala a Limina la storia dell’incontro con una donna, morta ad Auschwitz il 9 agosto del 1942, di cui è importante, nel Giorno della Memoria, richiamare un’eredità che guarda con forza al presente.

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Edith è un luminosissimo enigma, una vita di una chiarezza cristallina che getta ombre mutevoli in molte direzioni. Quando ho accettato di raccontare la sua storia mi sono chiesta più volte: ne avrò, se non l’autorità, almeno l’autorevolezza? Posso raccontare la vita, inscindibile dal pensiero, di una donna eccezionale, intelligentissima, colta, religiosa fino al misticismo, coerente fino alla clausura e coraggiosa sino al martirio? E poi mi sono domandata, soprattutto: serve, oggi? E ho trovato una risposta: serve soprattutto, oggi. Per riflettere su un’Europa – di cui Edith Stein, o meglio Teresa Benedetta dalla Croce, è stata eletta patrona venti anni fa – che ci riguarda da vicino. Io che con l’ultima figlia di Siegfried Stein e di Augusta Courant, di famiglia ebrea laica, ho in comune giusto il segno zodiacale, da questa donna sono rimasta spiazzata. Non avrei mai immaginato che la storia di una donna tanto lontana da me mi avrebbe coinvolta, interrogata, appassionata tanto. E se è vero che appassionarsi a lei richiede studio e impegno, crea dipendenza.

Per me è iniziata con un errore: a domanda – come sindrome di Gertrude vuole – avevo risposto subito di sì. E mentre favoleggiavo di Alice B. Toklas, Scott Ftitzgerald e roaring twenties, si è fatto troppo tardi per realizzare che la Stein in questione era Edith, non Gertrude. E forse l’editore avrebbe fatto bene a tirarsi indietro, di fronte a chi ti risponde «Che bello, così posso andare a Parigi» alla proposta di scrivere un saggio su una filosofa e mistica tedesca, nata ebrea, convertita al cattolicesimo e morta ad Auschwitz, dichiarata santa. Filosofa e monaca senza soluzione di continuità, che in questa sinergia tra fede e ragione vedeva il mezzo senza cui l’identità, nazionale e poi europea, «rimane in balia del mistero dell’iniquità già in atto». Sono parole, sul Resto del Carlino di ieri, del vescovo emerito di Bologna Ernesto Vecchi, che – bontà sua – dice anche che, in questo libro che nel frattempo è uscito, c’è «il senso dell’Europa».

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Perché chiederlo a me? Forse, penso lusingandomi, per aver portato in scena temi e storie che mi stanno a cuore tenendo presente il punto di vista femminile, per averlo fatto con ironia («Una dichiarazione di dignità, la risposta che l’essere umano dà agli eventi che gli capitano» dice Romain Gary), e con leggerezza, ma senza temere la serietà (e magari anche senza perdere la tenerezza, così con le citazioni siamo a posto).
Ma il motivo per cui io ho accettato e ho finito per sentirla vicina è stato che, seguendola, ho scoperto cosa l’accomuna a tutte le donne, le “ragazze senza pari” di Shakespeare, cui negli anni ho prestato la voce. Da Euridice a Margerita Gautier fino a Marilyn; e poi le scrittrici, le scienziate, le sante, le poetesse e le navigatrici: tutte donne dai molteplici talenti che hanno abitato, cambiato e cantato il mondo.
Scrive Chatwin: nel tempo del sogno, solo le donne sapevano orientarsi, solo le donne riuscivano a condurre le canoe per mari e fiumi, anche senza rotta e senza stelle, perché a ogni colpo di remo corrispondeva un canto, e a ogni canto un luogo. Solo le donne erano in grado di ricordare lo spartito immaginario, di solfeggiare sulle onde. Se non conosci il canto, la metrica, il respiro giusto, non potrai mai esplorare il mondo. Meno che mai capirlo e governarlo. Forse è questo il modo per tracciare una nuova mappa, dell’Europa e del futuro: lasciar fare alle donne come Edith.
Che con lei hanno anzitutto in comune la libertà. E poi dedizione, impegno, senso del bene comune. Un bel po’ di tigna, anche, che senza non si va da nessuna parte. Spesso un destino di solitudine. Ingegno, e anche genio. Sanno essere eroiche senza fare le eroine, come Edith, che prima della deportazione scrive: «Non sarà detto che una cristiana non avrà ritrovato le sue radici in loro, vicino a loro, con loro. Non sarà detto che una cristiana non avrà sofferto vicino a loro. Non sarà detto che una cristiana non sarà morta anche con, e per, loro». Edith porterà queste parole fino alla fine, scegliendo di restare accanto al popolo a cui appartiene per nascita, pur potendosi salvare.

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Edith con la sorella Rosa, 1939

Lei, come le donne che sanno essere consapevoli che la nostra storia può avere un senso e un peso solo se è costantemente in relazione con tutte le altre. Lei, che già nel 1933 avvertiva che i tedeschi stavano assistendo a qualcosa di drammatico. Dirlo nel 1933 e non cinque, sei anni dopo, significava aver capito tutto molto prima di molti altri. Questo mi aveva colpito molto, come la franchezza delle parole con cui lo scriveva al Papa, raccontandogli con lucidità la catastrofe imminente, ammonendolo che un simile orrore stava avvenendo per mano di un governo «che si diceva cristiano». Con forza Edith richiamava il pontefice all’angoscia con cui i fedeli aspettavano che la Chiesa si esprimesse contro un’eresia inaccettabile, un’idolatria d’odio che andava contro ogni fede. Suonano ancora forti, queste parole, e anche per questo ho voluto farle sentire anche sul palco, accanto a quelle di Anna Frank, di Hannah Arendt, dell’altra Stein, nel Catalogo delle donne valorose con cui sarò nei teatri con lo spettacolo Se non posso ballare… non è la mia rivoluzione, per una lunga tournée partita ieri.  Anche per portare in giro per l’Italia l’ammonimento di Edith: «La responsabilità ricade anche su coloro che tacciono di fronte a tali eventi». Quel silenzio che è stato del Papa ma non del Vescovo di Utrecht, cui era stata promessa la salvezza dei fedeli della sua diocesi a patto di non esprimersi sugli orrori del nazifascismo, e che invece ha scelto quel che gli imponevano l’umanità e il ministero: parlare, denunciare, esporsi.
Edith è stata condannata dal sangue, non dalle opere: la sua conversione, del tutto autentica, non era abbastanza. Chi è nato ebreo, in quanto ebreo, doveva essere sterminato. La colpa, imperdonabile e inespiabile? Essere nati in un certo luogo e in una certa famiglia. Che si mangi o meno carne di maiale, che si frequenti o meno una sinagoga, che si creda o meno in un qualunque dio, non importa. Essere venuti al mondo dalla parte sbagliata di una linea immaginaria è sufficiente. Nel binomio Brut und Boden il sangue ti condanna e la terra non ti salva. In tanti abbiamo pensato che non sarebbe più successo, che non lo avremmo più permesso. E invece.

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Eppure ho avuto spesso la tentazione dell’ucronia. Mi sono chiesta molte volte come sarebbe andata se. Se a Edith, la più brillante delle allieve di Husserl, non fosse stata negata la carriera accademica perché «l’abilitazione di una signora incontra ancora difficoltà». Se si fosse comunque convertita ma avesse capito in tempo che sotto gli astri stravolti (grazie Rilke) dell’Europa nazifascista nessuno avrebbe potuto proteggerla. Se come alcuni suoi famigliari e moltissimi altri ebrei in quel tempo fuori squadra (grazie Shakespeare) fosse arrivata in America. Se avesse visto quella statua sul cui basamento sono incise le parole di Emma Lazarus, sotto il titolo di New Colossus:

«Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri,
Le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi,
i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate.
Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste a me,
E io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata.»

Leggendo queste parole, oggi, mi viene da pormi un po’ di domande. Le risposte credo che dovremmo trovarle insieme, e anche presto. Come europei, come cittadini del mondo, come esseri umani. Forse, se la residenza sulla terra della nocchiera Edith Stein fosse stata più lunga (e grazie anche a Neruda), forse sapremmo orientarci un po’ meglio. «Ciò che possiamo fare, a paragone di quel che abbiamo ricevuto, è sempre troppo poco», come scrive Karen Blixen. Ma Edith Stein, Santa Teresa Benedetta dalla Croce (chissà con che nome parlava a se stessa?), ha lasciato una eredità grandiosa.