Comma 22

La saggezza delle folle: carnevale e rivoluzione nel fantasy dell’ultimo Abercrombie



«Il diritto del lavoro non è che una versione raffinata del divieto di vendersi, per disperazione economica, come schiavo»
Riccardo del Punta

«Quale è in fondo la differenza tra i socialisti riformisti e i socialisti rivoluzionari, o la sottospecie sindacalista? I primi, dei quali io sono, pensano, come gli altri, che il capitalismo sia una forma sociale caduca, sebbene necessaria, e che convenga preparare trapassi a forme sociali più alte ed evolute, che qui, per non fare accademia, non importa delineare; ma pensano, a differenza degli altri, che queste trasformazioni, per quanto radicalissime, non possano avvenire se non per via di evoluzione, di penetrazione, di sostituzione graduale; pensano che la violenza – sebbene anch’essa non possa assolutamente sequestrarsi dalla storia, e sembri ad essa riservato principalmente l’ufficio di demolire certi ultimi ripari del passato, già limati, già corrosi, già vuotati del loro contenuto dall’opera del tempo – tuttavia, nei cangiamenti sociali, abbia una funzione clamorosa e decorativa, assai più che una funzione sostanziale»
Filippo Turati

«Al pari del cinema, i generi letterari hanno i loro John Ford, che paiono quasi omerici, primigeni nel delineare i netti contorni epici del loro immaginario, cui seguono i Sergio Leone, che quello stesso immaginario lo impolverano, mostrando le chiazze di sudore sotto le ascelle, i rutti, ne fanno scricchiolare e cigolare le giunture morali eppure, proprio in tale abbassamento picaresco, trovano nuove strade, più grigie, per raccontare un eroismo meno idealista ma non meno intenso, e infine i Quentin Tarantino i cui personaggi si vedono per così dire dall’esterno, sono consapevoli degli stereotipi narrativi in cui sono immersi, li commentano e analizzano con ironia citazionista. Se Tolkien è certamente il Ford del fantasy e Martin il suo Leone, per più aspetti Abercrombie è proprio il Tarantino dell’epica fantastica»
Edoardo Rialti

«Il carnevale è la festa del tempo che tutto distrugge e tutto rinnova»
Michail Bachtin

La scrittura fantastica di Joe Abercrombie aveva tre caratteristiche principali riconoscibili: l’ironia, la capacità tecnica sopraffina, il grimdark (ovvero il fantasy brutto, sporco e cattivo ad alto tasso di violenza e a basso tasso di magia) piuttosto spinto. Poi è arrivata l’ultima trilogia – ambientata nello stesso mondo (classicamente medievaleggiante con qualche coloritura rinascimentale) della trilogia de La prima legge, di cui costituisce il seguito (una generazione umana separa le due vicende) – ovvero L’età della follia ed è successo qualcosa di imprevisto (in qualche modo già lievemente accennato e prefigurato nei volumi singoli intermedi: The heroes e Il sapore della vendetta), che costituisce una cesura non solo nell’opera sua, ma anche – più significativamente – nell’evoluzione del genere fantastico: l’irruzione del protagonismo assoluto della storia intesa come progresso (nello specifico la rivoluzione della stampa, la rivoluzione finanziaria, la rivoluzione industriale e la rivoluzione francese), della parodia e del carnevale. Per il tramite di quest’ultimo è riuscito inoltre ad accedere poderosamente – già prima ce n’erano elementi – alla cultura popolare (in senso forte e bachtiniano) in un modo tanto genuino e felice che chi s’azzardasse ad affermare che l’ultima fase della sua produzione deve più (stilisticamente) a Rabelais che a Tolkien e Martin, forse esprimerebbe un’iperbole, ma non andrebbe troppo lontano dal vero.

Lo scorso mese è uscito in libreria, nella traduzione di Edoardo Rialti, La saggezza delle folle l’ultimo libro de L’età della follia e si tratta probabilmente dello scritto abercrombieano più interessante e potente di sempre. Racconta la storia dell’avvento dei telai meccanici, dei cannoni, delle ciminiere industriali, delle ferrovie, della stampa e della grande finanza che innesca un cambiamento sociale; fanno la loro comparsa gli investitori, i banchieri, i mercanti su vasta scala, i tecnici, ma soprattutto gli operai. Il mondo feudale che aveva come fondamenti la terra, il sangue, la consuetudine e la spada (con tutto ciò che di assiologico e antropologico comportano) inizia a sgretolarsi e la monarchia vacilla per poi crollare sotto la spinta rivoluzionaria dei nuovi oppressi, i diseredati, spremuti, sfruttati e brutalizzati membri del sottoproletariato urbano industriale. È il Grande Cambiamento che plasma la nazione berciando l’uguaglianza e l’annientamento del vecchio regime e dei suoi membri. Ed è così che ha inizio il terrore guidato da una prostituta folle, scalza, tempestata di eritemi e vestita con un abito da ballerina sormontato dalla placca pettorale di un’armatura che condanna senza prove e senza possibilità di difesa le genti – i membri del vecchio regime? Magari inizialmente, poi chiunque a suo piacimento possa essere tacciato di remare contro il Grande Cambiamento e il sospetto divampa fino a diventare paranoia – gettandole dalla torre più alta della capitale e facendole sfracellare nella pavimentazione alla base tra gli insulti e le urla festanti della folla in delirio e «i lupi e le volpi, pure loro, attirati in città dalla campagna gelata per godere di qualche scorcio di fuoco e di qualche folata di sangue, scivolano tra la folla sfrecciando a lappare gli schizzi semicongelati ai piedi della torre».

«Gente ovunque, a metà tra una rivolta e un carnevale […] Non era stato addestrato per questo. Non ti addestrano per il mondo che improvvisamente si disfa. […] Gente dappertutto. Gente scioccata, gioiosa, curiosa, furiosa. Gente strana con strane emozioni intense che trasformavano le facce in maschere bestiali. […] Quasi non riconosceva le strade in cui era cresciuta, sommerse da un’umanità impazzita, che si muoveva su correnti invisibili di estasi e furore. […] In qualsiasi altro giorno, una ragazza disperata e scalza in abito da sposa macchiato di sangue avrebbe suscitato una certa attenzione. Adesso non c’era nulla da notare. Tutta la città era impazzita. Il mondo intero. […] I corridoi risuonavano di strani rumori, qualcosa a metà tra un carnevale demenziale e una rivolta. Una musica irregolare filtrava da qualche parte. O forse qualcuno stava sfracellando un’arpa a terra. C’era uno strano fetore, come quello d’un bordello d’infima categoria. Quadri squarciati di monarchi compiaciuti erano appesi a testa in giù. […] L’ufficio della donna era un’enorme sala a cupola stracolma di rifiuti. Bottiglie vuote. Bottiglie piene. Una carcassa di pollo mezza piluccata. Vasi antichi usati come posacenere. Un letto adorno grande come una piccola nave da guerra, aveva mezze cortine di seta a brandelli, uno dei cuscini squarciato che vomitava piume sul pavimento, e queste danzavano nell’aria, sospinte da qualche spiffero. Jurand fissava qualcosa con espressione vagamente inorridita. Leo seguì il suo sguardo. Sperò che si sbagliasse. Ma sembrava proprio che qualcuno avesse cagato sul pavimento».

abercrombie

Da questo – per quanto esiguo – florilegio di citazioni emergono con forza alcuni tratti: l’ebbrezza che divelle tutti gli steccati costruiti dallo status quo, la fine della recitazione dei ruoli sociali e l’immersione totale nell’atmosfera del mondo sottosopra, la perdita di vigore delle leggi e dell’ordine, l’abolizione della distanza tra le genti e il manifestarsi del libero contatto familiare tra le persone, la distorsione del comportamento, del gesto e della parola prima impastoiati dalla posizione gerarchica (ceto, censo, età) che li determinava nella vita normale e ora divenuti eccentrici e inopportuni, la distruzione e il rinnovamento del mondo, l’esclusione del pensiero astratto in favore di forme concrete e sensibili, l’infiltrarsi del linguaggio familiare-plebeo, la libertà sfrenata, il sacrilegio, la profanazione, l’oscenità, la degradazione, lo scoronamento. Tutti questi tratti sono propri di quel fenomeno che Bachtin chiama carnevalizzazione e a cui attribuisce grandissima importanza nella ripresa di quel glorioso genere letterario che è la satira menippea, ma anche ad esempio nell’opera di Rabelais e Dostoevskij. Il carnevalesco, oltre al piano tematico e della generazione delle immagini, ha dei precisi riflessi sul piano linguistico e lessicale, in modo particolare permettendo al testo carnevalizzato di attingere alla parola propria della cultura popolare: motteggiante, sordida, oscena, volgare, colorita, diretta. E anche questo è facilmente riscontrabile nel testo abecrombiano:

«Strizzando gli occhi al cielo che pisciava senza requie. […] Per quanto tu li spingi in basso continuano a tornare in cima, come un paio di stronzi di capra nel pozzo. […]. Avrebbe attirato guai come il culo di un montone fa con le mosche e ti avrebbe chiamata cagna egoista che pensa con la fica. […] Re Orso era nato con un cucchiaino d’argento talmente ficcato su per il culo che quando sbadigliava gli si vedeva la punta».

Carnevalizzazione e utilizzo del linguaggio della cultura popolare nel fantasy rappresentano quindi le peculiarità proprie dell’ultima fase dell’opera d’Abercrombie e la scrittura ne esce vivificata e ingravidata di realtà materica, cosa più che preziosa per un testo fantastico che altro non è che immane visione prolungata. E la visione di Abercrombie oltre a far ridere e divertire è per questo più potente, originale e vivida delle altre.