Immagina il mare di Bering, la massa d’acqua tra Siberia e Alaska, Oceano Pacifico e Oceano Artico, immagina il mare di Bering nel 1741: questo è l’invito che compare tra le primissime pagine del romanzo d’esordio della finlandese Iida Turpeinen, L’ultima sirena (Neri Pozza, 2025, traduzione di Nicola Rainò) e la sensazione, immediata, è quella di entrare in un libro che non potrebbe essere più distante dai filoni autobiografici e di autofiction di questi ultimi anni.

Di fatto si parte da lontano, lontanissimo, nel tempo e nello spazio: la storia è quella della spedizione russa del capitano Vitus Bering nei mari del Nord a metà del XVIII secolo. Sulla nave è imbarcato anche il naturalista e teologo Georg Wilhelm Steller, desideroso di scoprire terre e animali meravigliosi e sconosciuti. Anche Bering e i suoi uomini sono motivati dalla fame di esplorazione e davanti a loro si apre la penisola della Kamčatka, lo stretto che separa le isole Aleutine e l’Alaska, il continente asiatico da quello americano. Il viaggio termina con un naufragio su un’isola remota, che poi sarà battezzata isola di Bering in onore del capitano danese che vi perderà la vita. Gli uomini soffrono il gelo e gli stenti, la paura si mangia la razionalità, l’acqua fa lo stesso con la nave, che marcisce e s’inabissa in parte: l’unica possibilità è restare su quel pezzo di terra e sperare di sopravvivere. Steller è con loro e, nonostante le difficoltà, rimane abbagliato da quel luogo ignoto, il cui equilibrio non è ancora stato intaccato dagli esseri umani: continua così le sue osservazioni della flora e della fauna, tiene appunti aggiornati, contempla quel Creato così misterioso e perfetto. La svolta avviene quando Steller incontra finalmente un animale mai registrato nelle Naturalis Historiae: un mammifero marino dalle dimensioni imponenti (otto metri di lunghezza e nove tonnellate di peso), capace di spuntare dall’acqua in posizione verticale, dalle carni abbondanti e nutrienti (salverà i marinai dall’inedia) e gli occhi miopi e dolci. Una creatura che, alla prima occhiata, ricorda una sirena e che poi diventerà nota come ritina di Steller o vacca di mare. Da qui il romanzo fa due salti in avanti, prima nel 1859 e poi nel 1950, prima in Alaska e poi nelle Isole Aspskär, nel Golfo di Finlandia: c’è un governatore che desidera arricchire la sua collezione zoologica, magari trovando proprio l’animale di Steller, e c’è un tassidermista che si ritrova a ricostruirne lo scheletro, dopo che la ritina si è estinta.
Perché è questo il comune denominatore tra le tre storie, il nocciolo duro della narrazione: la potenza di scoperta e di morte di cui l’uomo è capace, da tempo immemore, sul pianeta che gli è toccato in sorte. Le vite dei personaggi di Turpeinen si affastellano attorno all’ossessione per la ritina, per una creatura che scomparirà dalla Terra meno di trent’anni dopo il primo incontro con l’essere umano, fino all’approdo al Museo di Storia Naturale finlandese nella forma di uno scheletro ricomposto (l’unico rimasto). E questa è la storia, anzi le storie, ma il romanzo fa della forma la sua cifra più sorprendente: le competenze scientifiche di Turpeinen si fondono con una lingua letteraria capace di grande concretezza e nitido lirismo, con una voce che sospende qualsiasi giudizio sui fatti che racconta e, libera dalla costrizione di dover fornire risposte, genera molti e densi interrogativi. Domande che risalgono dal 1741 fino al nostro tempo: fino a che punto la sete di conoscenza dell’essere umano si può spingere? Fino a che punto le navi possono spaccare i ghiacci e i naturalisti dissezionare i corpi? Esiste un limite davanti al dolore inferto al mondo o siamo legittimati dalla nostra intelligenza, dalle nostre capacità, dalla nostra curiosità? E che cos’è, davvero, il dolore del mondo?
Sembra, Turpeinen, accostare le mani di Steller che incidono e rimuovono organi, nervi e ossa, alla più generale presenza umana nelle terre e nei mari: forse non stiamo facendo altro che questo, da secoli, a tutte le cose vive che ci circondano? E che senso ha questa ricerca, questa fame, se poi l’esito più diffuso sono le stanze ordinate di un museo, dove la contemplazione del Creato somiglia di più a un rimpianto?
Ci sono libri che non sono specchi (evviva), libri che sono finestre: opere che non temono di levarsi di dosso le etichette e giocare con i generi (stiamo leggendo un romanzo? un saggio?), scritture che rifiutano l’urgenza dei temi per un confronto con gli stessi da una posizione più laterale e quindi, forse, un filo più lucida e durevole. È evidente che le riflessioni sulla natura e sulle conseguenze dell’azione umana chiamano problemi che ben conosciamo, che appartengono al dibattito pubblico odierno e, anche se forse non abbastanza, all’agenda politica ed economica dei Paesi.
Ma sono gli occhi della sirena, lo sguardo curioso della vacca di mare a interrogarci, è l’emozione di Steller che nel 1741 osserva i giochi amorosi del branco nonostante la sua mente si ripeta che un naturalista non è fatto per le carezze ma per il bisturi.
È quel preciso momento, in cui le tempeste spingono la nave di Bering lontano dalla rotta, che il passato conosce già le sue sembianze future: una donna che cammina in un museo, il rumore dei suoi passi che riecheggia, la pioggia fuori che cessa e un’improvvisa, collettiva, immobilità.
La Storia guardata dalla distanza, che se non insegna almeno prova a rimestare nelle certezze: un unico sentimento, semplice, «quella tristezza leggera e assorbente, mentre guardiamo questo animale, qualcosa di grande e gentile, scomparso così definitivamente».