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Il tempo perduto (e ritrovato) di Appetricchio



Un bosco di serpi e un ponte malfermo dividono Petricchio dal resto del mondo: sedendo e mirando, forse, da qualche parte, laffora, lontano, esiste pure l’Italia. Sì, perché entrando a Petricchio (che diventa Appetricchio per raddoppio di consonante «sulla scia di Assoreta») si esce dalla Storia e si entra nella fiaba, in una Narnia senza armadio, in una Macondo senza giungla, e del paese di Lewis presenta l’immaginazione al potere, dell’enclave caraibica l’ampio spazio alla chiaroveggenza. Plasmato da Fabienne Agliardi per dare vita animata e catastale al suo secondo romanzo, il microcosmo di Appetricchio è debitore di luoghi reali e immaginari, luoghi della memoria e della letteratura, una fiabesca località che a buon diritto si colloca nel duro solco lucano, a stento ricavato dall’erpice, che da Carlo Levi porta fino a Salvatore Lupo. In questo solco troviamo anche i semi della commedia all’italiana, magari quella in bianco e nero, quella ingenua e sentimentale del cinema per tutte le età. Infine, ed è forse l’ingrediente principale, in Appetricchio (Fazi) troviamo il poetico, certamente quello di Borges, citato dall’autrice come garante della vita immaginativa, e poi quello di Rocco Scotellaro, che alla Lucania magica ha dedicato versi come «il vento mi fascia di sottilissimi nastri d’argento».

appetricchio

Appetricchio sta abbarbicato in precario equilibrio, letteralmente in sfida alla legge di gravità, tenacemente raggrumato (un po’ come la terra al nucleo) attorno al nocciolo incandescente del tempo perduto. Il tempo perduto (e ritrovato) è il motore del romanzo, che infatti si lascia scomporre in molteplici piani temporali (tre i principali), e poi sfrangiare in ulteriori sotto-frammentazioni all’insegna di capitoli brevi, andirivieni narrativi ed episodi rapsodici amalgamati dalla famiglia Bresciani, marito, moglie e due figli che scendono dall’Altitalia a cadenza regolare fino a quando, negli anni Novanta, ha inizio una brusca e lunghissima interruzione spezzata solo in occasione del lockdown, un ultimo viaggio alla ricerca del tempo ritrovato.

Se il tempo è il motore del romanzo, la scrittura ne è il lievito: Agliardi possiede una rara forza icastica e sin dalle prime pagine ci porta tra le viuzze di Appetricchio che conducono alla fundana, pensatoio a cielo aperto dove i like sono ancora monosillabi e alzate di sopracciglio. È in questa agorà lucana che conosciamo i numerosi Rocco, distinguibili per suffissi ed epiteti, da Rocchetano a Rocco Ponte, da Rocco Poeta a Rocco Cantume, moltiplicazione nominale frutto di una radicatissima devozione al patrono che di Appetricchio è luogotenente e plenipotenziario, protettore di emarginati e farmacisti, cani e contagiati: in Lucania San Rocco mette la freccia per sorpassare il Figlio di Dio, ma il Padreterno vede e controlla come un grande fratello rimarcando le gerarchie celesti con disambiguanti scritte sui muri.

Ad Appetricchio gli elettrodomestici arrivano in paese come il ghiaccio a Macondo e infatti nelle abitazioni si conservano reperti antropologici di altre epoche: descritti a rapide e vivide pennellate di colore, qua realistiche, là grottesche, ecco il maestro Filippone, «una grossa pera floscia tenuta su da bretelle stanche», ecco Marisella, sedotta immaginaria nientemeno che dal Berlusconi delle navi e mandata definitivamente fuori di testa dalla biancheria intima di Postalmarket, ecco Perciasepe, novello Giasone alla guida degli argonauti petricchesi verso il mitologico autogrillo: un campionario di provincia resistente all’effimero della moda e aggrappato ad archetipi eterni. La Lucania è stato il punto di partenza per le ricerche di De Martino, e ad Appetricchio si inghiottono lumache vive per curarsi l’ulcera.

Il principale effetto del lievito della Agliardi è il comico che si esprime in un registro variegato: vi troviamo parecchia letteratura dell’iperbole, quella che dalla tradizione cinquecentesca arriva fino a Villaggio (Adelina, alle prese con le offerte della messa, «arrazzava i soldi come un croupier»), spruzzate benniane (Nonno Occhei, naming-tribute), mentre fuori dal mondo prettamente letterario i riferimenti sono al cabaret più esilarante («Aggraziamaria pareva un triceratopo», mentre l’Aglianico del Vulture «per odore e consistenza pareva il Cif Ammoniacal») con abbondanti immersioni nella comicità di situazione, come l’organizzazione della sagra paesana che fa venire in mente certe atmosfere di Mazzacurati. Ne consegue che Appetricchio, pur col suo inaspettato finale elegiaco, è lettura che rallegra l’animo e ripropone l’annosa questione della rivalutazione del comico in Italia dove ancora si paga la mancanza di Baudelaire col suo concetto di «riso assoluto». Da noi infatti tutto ciò che si riesce a dire riguardo al comico è che invecchia più rapidamente del tragico, ma per rendersi conto di quanto questo assunto sia inattendibile basta dedicare una mezzoretta a certi drammoni di pochi Strega fa per capacitarsi di come il tragico vada in aceto ben prima. È solo uno dei tanti luoghi comuni che in Italia gravitano intorno al comico: il nostro paese, che ha messo da parte interi container di cultura comica, continua a marmorizzare il patetico.

La famiglia Bresciani, di nome e di etnia, perché proprio da Brescia arriva, è frutto del matrimonio fra Guidodario, farmacista dell’Altitalia, e Rosa, petricchese doc, e Appetricchio è infatti anche un libro sulla contaminazione Nord-Sud, su quel massiccio esperimento sociologico, frutto dell’immigrazione interna, che ha rappresentato per alcune decadi il matrimonio fra uomini e donne delle estremità peninsulari. Guidodario, col suo riformismo lombardo un po’ settecentesco, un po’ martinazzoliano, è guidato da una forte spinta civilizzatrice che alla fine non porta a nulla perché l’arcaico un po’ selvaggio del sud prende sempre il sopravvento.

La contaminazione del romanzo non è retorica come quella di un Benvenuti al sud, ma qualcosa di più misterioso, quasi un incontro di gameti, e infatti Mapi e Lupo, i gemelli figli della coppia, sentono verso Petricchio un fascino irresistibile («con più misteri di un romanzo di Agatha Christie»), consapevoli che lì possono avere il tutto con niente (in tanti anni di vacanza non sono mai scesi al mare!): i gemelli sono veri ircocervi, mica modelli di fusione in laboratorio, e in loro, arditi incroci dell’epigenetica, coesistono opposte regioni cromosomiche. Estate dopo estate si scoprono sempre più petricchesi, anche perché i petricchesi hanno ciò che manca loro: radici profonde. I petricchesi sono i negazionisti della vita sradicata del mondo globalizzato e interconnesso, fondato sugli spostamenti, sulla provvisorietà dei rapporti, sulla precarietà integrata. All’interconnessione preferiscono l’autosegregazione. A rendere possibile tutto questo è la lingua, il dialetto petricchese (di cui troviamo un gustoso glossario a fine libro), il vero midollo spinale, l’arrocco che preserva l’essenza individuale, e quando la nipote dice al nonno che deve sforzarsi di parlare l’italiano, il nonno non se ne capacita: lo hanno portato al nord, e passa le giornate ad assaggiare i dentifrici nel negozio del genero, fino a quando gli assegnano piccole mansioni di giardinaggio che lui subito trasforma in agricole introducendo una gallina nel giardino di città.

Il dialetto come lingua dell’autenticità, dell’attaccamento al reale, della resistenza all’androidizzazione: come hanno insegnato i grandi poeti vernacolari, la loro era la lingua del mondo contadino e artigianale, del concreto, della realtà; non era particolarmente sentimentale ma recuperava ampiamente in metafore; inoltre era la lingua dell’affabulazione religiosa. Insomma, esprimeva coltura e fede, tutto quello che l’intelligenza artificiale ben difficilmente saprà emulare. È sintomatico che il primo esperimento di narrativa macchinale sia venuto da un maestro del comico come Rocco Tanica: nel suo ultimo libro l’additivo artificiale, sapientemente guidato, è riuscito a creare vertigini di senso alla Charms e sparare figure retoriche imbevuto di surrealismo, ma niente di più. Appetricchio si colloca letteralmente dall’altra parte del mondo, Appetricchio è dove la Agliardi tiene viva una lingua viscerale, profonda: se esistono un’ecologia profonda, una psicologia profonda, perché non deve esistere una lingua profonda? E questa lingua profonda («te vo vruscià ‘nu lampu») sta a certa lingua letteraria, slavata e uniformata, frutto dell’IA prima ancora che la inventassero, come l’Appetricchio della copertina, un coagulo di case abbarbicate e poggiate l’una all’altra, sta al monolitico grattacielo dell’archistar (mi piace pensare che il pisciato monolite degli Who fosse in nuce quello delle archistar). L’identità a Petricchio significa appartenenza, e un po’ come gli edifici che si sorreggono a vicenda, gli abitanti declinano le generalità appoggiandosi agli alberi genealogici.

Appetricchio racconta un microcosmo del tempo perduto e ritrovato, e ha il sapore di un passito da meditazione sull’altrove fiabesco. In fondo, sapete, a chi ce l’ha con i libri un po’ fiabeschi, libri che dell’iper-realismo non sanno che farsene, libri con un po’ di bontà dentro, la considerazione che viene da fare è che come ammettiamo la retorica del male (pensate ai tanti romanzi criminali, all’estetica del macabro, alla lenta trappizzazione del romanzo in Italia), ecco, se permettiamo che tutto questo colonizzi l’immaginario, allora perché non deve aver diritto di cittadinanza anche la favola bella? Perché giocarsi tutta la sospensione dell’incredulità alla roulette russa invece che sul gessetto che traccia lo schema di Mondo?




Immagine di copertina: Appetricchio di Fabienne Agliardi, Fazi

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