Comma 22

Il falso centro della letteratura. Vietato scrivere di Joanna Russ




Negata, condannata, arginata e infine sminuita: così la scrittura delle donne – e delle minoranze – per decenni è rimasta ai margini degli ambienti culturali ed esclusa, ancora oggi in gran parte, dal canone letterario. La scrittrice Joanna Russ nel suo saggio Vietato scrivere, finora inedito in Italia e pubblicato lo scorso febbraio dall’Enciclopedia delle donne, analizza singolarmente le varie sfumature di quella che definisce malafede: «un atteggiamento di aperta intolleranza è piuttosto raro, ma non è necessario, visto che il contesto non è per niente neutro. Per agire in modo sessista e razzista insieme, per mantenere il proprio privilegio di classe, basta seguire l’abitudine, la consuetudine, a volte anche le buone maniere». Russ individua schemi ricorrenti nella marginalizzazione della scrittura delle donne, delle strategie perpetrate nel tempo che hanno tenuto lontano queste opere dalla cosiddetta grande letteratura, e nonostante  il lavoro di Russ risalga agli anni Ottanta stupisce come sia particolarmente attuale.

Vietato scrivere, Russ

Dalla negazione della capacità delle donne di agire nel mondo in maniera autonoma e libera, alle convenzioni sociali che vedono le esperienze femminili limitate rispetto a quelle maschili, dalle accuse di insanità mentale e non-castità, fino all’ammissione dell’esistenza di poche eccezioni, ma relegate in categorie di madri/mogli/figlie. Non si tratta quindi di divieti espliciti alla scrittura per le donne in quanto tali, ma taciti disincentivi difficili da riconoscere ed eliminare che affondano le radici in stereotipi di genere consolidati. Un modo di considerare l’arte delle donne – e le artiste stesse – fondato sul presupposto della malafede per cui tutto ciò che rimane al di fuori del canone letterario è irrilevante per la costituzione dello stesso. Le poche eccezioni, infatti, che vengono incluse “nell’insieme dei grandi classici” costituiscono un arricchimento, ma non vanno mai a modificarne realmente il centro.

Ma è veramente possibile che lo sguardo femminile sia meno universale di quello maschile? Che il racconto dell’esperienza di una donna non possa riflettere le istanze dell’essere umano, a prescindere dal genere?

«Non l’ha scritto lei.
Non l’ha scritto lei, si è scritto da solo.
L’ha scritto lei, ma ne ha scritto soltanto uno. 
L’ha scritto lei, ma quelle come lei sono rare.»

Russ inizia il suo lavoro mettendo in discussione gli assiomi che regolano il mondo della grande letteratura e, a parte il prendere in esame solo la realtà anglofona, non pone limiti alla sua ricerca e non risparmia nessuno, nemmeno se stessa.
Originaria del Bronx, ebrea, lesbica, femminista radicale, Joanna Russ studia alla Cornell con Nabokov, negli anni Sessanta inizia a pubblicare racconti e romanzi di fantascienza e diventa docente alla Washington University: per quanto la sua formazione, il suo lavoro e la sua stessa esistenza esulino dai dettami di una società patriarcale, durante la stesura di Vietato scrivere la scrittrice riconosce di aver fatto proprie, specialmente da giovane, alcune di quelle strategie marginalizzanti. Prima tra tutte l’idea di non poter essere stata influenzata, nella sua crescita, da altre scrittrici. Russ ammette di aver letto più volte nel corso della sua adolescenza – e oltre – opere delle sorelle Brontë, ad esempio, e di come fosse convinta che quel tempo passato tra le pagine dei loro romanzi non le avesse lasciato niente a livello artistico. Perché l’inferiorità della scrittura femminile viene interiorizzata dalle stesse donne, tanto che la poetessa Adrienne Rich parla di «un sottile desiderio di scrivere come scrivono gli uomini» – unico modello valido – e la poetessa Erica Jong, in merito alla sua educazione, rivela che «poesia per me era un nome maschile». Una svalutazione questa che determina un’assenza di modelli letterari femminili solidi, di una tradizione accademica di riferimento, in una catena che punta al ribasso e che si autoalimenta, portando sopratutto le giovani lettrici prima, e studentesse poi, a evitare le opere di autrici del passato perché ritenute insignificanti.  

«Che cosa potevamo fare, noi discendenti senza antenate, o con antenate le cui figure erano state in un modo o nell’altro distorte? Mi ricordo quando, al primo anno di college, il dottorando con cui ero uscita mi chiese allegramente come pensavo di diventare una scrittrice di romanzi visto che “di fatto” nessuna donna aveva mai prodotto della “grande letteratura”. Cosa avrei potuto rispondere? “Sapevo” che Virginia Woolf era limitata e leziosa (“tragedia all’ora del tè” fu la generosa definizione di quel ragazzo), che Charlotte Brontë era una figura minore, Cime tempestose “poco realistico”, e Emily Dickinson una zitella eccentrica autrice di brevi poesie strampalate interessanti giusto per qualche studioso fissato che comunque non riusciva a rendere conto della sua tecnica, dato che lei non ne aveva nessuna e scriveva “d’istinto”. Dissi: Sarò la prima.»

Quando Joanna Russ, ancora studentessa, ha considerato la propria esperienza di vita inadeguata perché non rientrava tra quelle annoverate nella grande letteratura, ha consapevolmente deciso che l’oggetto dei suoi scritti sarebbe stato qualcosa di cui nessuno si fosse già occupato: ha così adottato un realismo travestito da fantastico, vale a dire la fantascienza. Ha trovato la propria via di fuga, o meglio dire di libertà, che ha permesso al suo talento di trovare il giusto spazio. 

La sensazione però è quella di partire sempre da zero, come se non esistesse alcun solco già tracciato, in una continua ricerca di legittimazione. Ciò che viene dimenticato, infatti, è come se non fosse mai esistito: Russ riprende e cita spesso ad esempio Grandi scrittrici e grandi letterate di Ellen Moers che ricostruisce quella trama di presenze inosservate. Riscopre una tradizione di scrittrici e artiste, in contatto tra loro, se non direttamente attraverso le proprie opere, in una rete che Russ definisce “di sorellanza” e che per motivi fin troppo banali è sempre sfuggita allo sguardo dei critici (maschi, bianchi e occidentali). E nonostante tutto le donne hanno sempre scritto, fiorendo ai margini del canone. 

Russ

Un patrimonio quindi che necessita di essere riconosciuto e tutelato esiste, e assume sempre più rilevanza specialmente in un’ottica futura. Come scrive Valeria Palumbo in Non per me sola, «è importante dare alle più giovani la certezza che non avanzano allo scoperto, e che dietro di loro ci sono una lunga elaborazione e una lunga storia di emancipazione e di conquiste. Serve per scrivere una storia plurale, più complessa, magari contraddittoria, ma senz’altro più completa. Le scrittrici l’hanno raccontata». Palumbo nel suo saggio edito da Laterza, partendo dallo stesso presupposto di Joanna Russ, fa un passo in più: raccoglie il racconto di molte scrittrici italiane, lo accosta a dati storici in campi di particolare rilevanza e riconsegna una realtà più viva. Attraverso le parole delle scrittrici italiane – che non trovano spazio nel canone di riferimento – restituisce la storia della metà inascoltata della società: la realtà per le donne italiane è stata più dura di quanto ci è stato raccontato, ma sicuramente ci sono state molte più Ida Mancuso di Lucia Mondella

«“La letteratura” ha un falso centro» scrive Russ, rifiutando che questo possa essere solo maschio, bianco e occidentale. L’autrice rimprovera l’incapacità di messa in discussione di un nucleo che costituisce un valore assoluto, l’immobilismo di decenni di critica letteraria che ha visto poche scrittrici e le ha considerate come meteore, il sapere di non sapere e soprattutto il non voler sapere. Vietato scrivere è un ragionamento radicale verso una letteratura che sia specchio dell’umanità tutta, un percorso ancora in divenire. Quello di Joanna Russ è un invito a non cercare nelle opere letterarie un rinforzo della visione del mondo che già si possiede, a non adagiarsi sulla ragnatela della malafede per evitare di pensare. Vietato scrivere è una riflessione sospesa a cui l’autrice trova difficoltà a mettere un punto, e infatti non lo fa: «finiscilo tu», conclude, passando il testimone a chi legge.



Photo credit: L’enciclopedia delle donne; Wikipedia