Search
Close this search box.

Alla ricerca della felicità. Un dialogo tra Simone Cristicchi e Chandra Livia Candiani



Nel suo HappyNext. Alla ricerca della felicità, uscito per La nave di Teseo, il cantante, attore e scrittore Simone Cristicchi dialoga, tra gli altri, con la poetessa Chandra Livia Candiani di felicità, parole e della magia del mondo dei bambini. Limina pubblica l’intervista completa.

***

Se c’è una cosa che mi affascina del poeta, è il suo essere tramite con altre dimensioni, il suo stare in bilico tra spirito e materia, tra rivelazione e smarrimento. Il poeta è un artigiano che scruta l’anima e il mondo in cui vive, avventurandosi in altri invisibili. È medium, mago, cacciatore di parole. Spesso filosofo. Racconta ciò che trova nei suoi viaggi interstellari, mette sul banco i suoi versi, e nella costruzione di un’opera non si cura d’altro che di pescare le parole dall’abisso, renderle luce. Quello che mi ha colpito subito di Chandra Livia Candiani, oltre ai suoi versi, è il colore fanciullesco della sua voce. È schiva, a tratti diffidente nei confronti dei media, si tiene a debita distanza, per non contaminare l’aura che la protegge. Preferisce lavorare con i bambini delle scuole: li scruta, analizza i loro pensieri, li appassiona all’arte della poesia, e da loro trae ispirazione e nutrimento.

File:Chandra-livia-candiani.jpg - Wikimedia Commons

Chandra, puoi leggermi qualcosa dei tuoi bambini?
C’è questa poesia di un bambino molto sofferente psichicamente, con una diagnosi pesante, un bambino meraviglioso. L’ha scritta alla fine di un seminario e me l’ha recitata:

«Volo o dolore cosa vuole dire?
Forse che ti senti come un falco?
Ma che vuole dire un’anima a colori?
Ma alcune volte mi sento una piuma
così leggera nell’aria
Triste o felice. Ma che vuole dire?
La mia anima mi dice: devi essere felice
Ma io mi sento triste
Però quando ho incontrato Chandra
mi sono sentito felice
Anzi, non c’è una fine»

Lo so benissimo che non è l’avere incontrato me ad averlo reso felice, ma è l’avere incontrato la possibilità di dire come stava veramente. Per i miei bambini la gioia del conoscere ribalta i mondi. È molto rivoluzionaria. Loro, quando parlano di felicità, intendono gioia.

La parola felicità ti disturba?
Mi sta antipatica, perché sono stata una bambina molto infelice e rovinavo le fotografie sia familiari che scolastiche con la mia infelicità. E poi non riesco a essere felice con il mondo che va come sta andando. Nella mia città, qui a Milano, ogni duecentocinquanta metri, massimo cinquecento, c’è un africano che chiede l’elemosina perché non ha altre scelte. Non posso essere felice se penso allo stato in cui versa il nostro pianeta, alle differenze sociali sempre più acute. Per me è questione emotiva, individuale, politica: il sentire la felicità non è qualcosa che mi orienta, perché esclude sempre qualcos’altro. La sostituirei volentieri con contentezza o gioia.

Ti sembrano due termini più onesti?
Sono più reali, perché sono impermanenti. Nessuno pretende che la gioia continui per chissà quanto tempo, è diversa dal tentativo di permanere in uno stato che è assolutamente impossibile da mantenere. Non si oppone a niente, arriva ed è. La contentezza è un esercizio filosofico e meditativo, è notare quello che già c’è e gioirne. In questo senso, l’ultima volta che mi sono sentita gioiosa è quando ti ho aperto la porta, e quindi ogni volta che incontro delle persone che sono presenti e vive.

In che senso la contentezza è un esercizio meditativo?
Ti racconto questa storia di Arnaud Desjardins, che è un maestro occidentale francese. Aveva passato un periodo in India dal suo maestro indiano e sapeva che, quando un discepolo tornava al proprio Paese, il maestro soleva donargli un mantra, una frase da ripetere per avere beneficio interiore. Arnaud aspettò a lungo il mantra del maestro, che non arrivò nemmeno il giorno della sua partenza. Il maestro lo salutò dicendo soltanto: «Be happy, Arnaud», sii felice Arnaud. Lui ci restò malissimo e tornò in Europa. Dopo qualche giorno, camminando per le vie di Parigi, ripeté la formula in più occasioni e si accorse di quante volte si negava da solo la felicità, di quante volte rinunciava a ciò che lo avrebbe fatto stare bene. «Be happy, Arnaud» era esattamente il mantra che gli serviva.

Tu che mantra daresti?
Non dividere i mondi. Vuol dire: sii grato di tutto quello che vedi attorno a te, di tutto quello che ti circonda e di tutto quello che hai dentro, non ha importanza che ti sembri comodo e scomodo. La sofferenza, se impari a sentirla, a percepirla nel corpo, a permetterle di visitarti, può darsi che si trasformi in contentezza.

HappyNext. Alla ricerca della felicità - Simone Cristicchi - Libro - La  nave di Teseo + - | IBS

La felicità è un mito occidentale?
Molto gonfiato nella nostra epoca contemporanea, che così produce corsi, ricette, medicamenti. Io rifuggo da felicità e benessere e, quando lo dissi ad un’amica filosofa, lei inorridì: «Ma come? Nella filosofia antica la felicità è così importante!» Allora sono andata a vedermi come si diceva felicità in Grecia: eudamonia. C’è eu, bene o buono, e daimon, demone. Essere in compagnia di un buon demone mi interessa, perché sarebbe l’antidoto alle nostre voci autodistruttive. Invece, la felicità in senso latino è “abbondanza, fertilità, ricchezza”. Ecco, io sono più diretta alla decrescita felice che non all’abbondanza.

Mi leggeresti qualche altra poesia dei tuoi bambini?
Qui li facevo lavorare su quello che conta. Nessuno di loro ha risposto «la felicità», ma c’è la felicità della lingua, del poter comunicare, del potersi esprimere. Si trova più nel flusso che nel contenuto. Leo scrive:

«Quello che conta è la formica
È tutto che conta
È sacro»

E un altro bimbo in una situazione disagiata:

«Quello che conta è avere una casa
Una casa calda
Una casa calda d’inverno
Quello che conta è avere due occhi
Due orecchie, una bocca e due piedi»

E senti qua, questo è Marian, un bimbo rom:

«L’amicizia è una giacca leggera
Una bellezza che non si può restituire.»



categorie
menu