Comma 22

Il “Fileremo”, la Milano al tramonto e lo specchio del passato

Ci fu un tempo in cui Milano fu quasi, davvero a un passo, un passettino, dal diventare il centro del mondo; sogno recondito e umidiccio di ogni milanese… Ma il milanese, in fondo, non esiste (e questo è un cortocircuito che potrebbe generare un buco nero, all’interno del quale potrebbe infilarsi questo articolo; ma non succederà).

Ci fu quasi – dicevo – e fu cinque secoli e qualche decennio fa.
8 aprile 1492, Firenze: Lorenzo de’ Medici, il Magnifico, muore a causa d’una banale ulcera trascurata per troppo tempo. Più a nord, Ludovico Maria Sforza, il Moro, è in perfetta forma. Non è ancora il duca de iure ma lo è de facto (lo diventerà ufficialmente nel 1494, alla morte di Gian Galeazzo Maria, nipote venticinquenne, forse avvelenato forse no). Nella sua cerchia orbita Leonardo da Vinci. Ma anche il Bramante. E dietro ai due top player si forma un nugolo sempre più affollato di artisti, architetti, accademici, estimatori sinceri o interessati del #ModelloMilano… e anche letterati, certo.
Tra questi ci fu Antonio Fregoso, detto il “Fileremo”. Oggi perfetto sconosciuto. Ho controllato su Google Maps e non esiste nessuna “via A. Fregoso”. Antonio “Fileremo” Fregoso è l’uomo di questo articolo.
Nacque a Carrara, migrò a Milano in gioventù, fece il suo ingresso in punta di piedi nella bolla dei creativi nella cerchia dei navigli (che all’epoca era navigabile e delimitava la città medievale). Il soprannome – “Fileremo”, amante della solitudine – se lo diede molto tempo dopo, quando si ritirò in campagna, ammaccato, disincantato, incattivito, invecchiato, inchiavardato nella sua villa di Colturano (oggi sfiorata dalla TEM, Tangenziale Esterna Milanese). Ma all’epilogo arriviamo dopo, ché coincide con l’epilogo del sogno della Grande Milano.
Come ebbe a scrivere Cecil Grayson (insigne studioso di Oxford che – non si sa bene come, similmente al sottoscritto – s’imbatté nell’opera del Nostro): «il Fregoso è veramente poeta, non dei tempi della gloria della corte sforzesca, ma del suo tramonto». E i tramonti tramandano insegnamenti più urgenti, solitamente.

7 febbraio 1497: Girolamo Savonarola, a Firenze, organizza il falò delle vanità. Si bruciano oggetti d’arte “immorali” (tra cui delle opere di Botticelli). Fine dell’egemonia culturale e politica di Firenze. A Milano, invece, l’aria si fa frizzante. Ci siamo: tocca al Moro, tocca a noi, è il nostro turno – finalmente – di essere il centro di tutto, e se non ora quando? C’è Leonardo, il Bramante, e tutti gli altri, e c’è pure il Bellincioni (poeta, oggi altro perfetto sconosciuto) che in gioventù fu uno degli amici più intimi del Magnifico, si è trasferito anche lui all’ombra del Duomo (che all’epoca non aveva la Madonnina in cima), trasferimento assai simbolico in cui i contemporanei leggono la settentrionalizzazione dell’equatore dell’arte e della cultura (quindi del potere); Bellincioni, all’anagrafe Bernardo, chiude un suo sonetto lanciando una call to action nientepopodimeno che alle Muse, invitandole a venire in città: «venite dico a Atene, oggi Milano / ov’è il vostro Parnaso Ludovico».
Milano, nuova Atene. Il Moro, nuovo Magnifico. Fu un breve sogno. Brevissimo. E finì male, malissimo.

Piccolo passo indietro, per dare un contesto o un pretesto a questo articolo: io sono uno tra quelli che ritiene urgente una rivoluzione, che sia permanente e innescata da un cambio radicale del nostro immaginario. L’estinzione bussa alle porte, a tutte le nostre porte, da quelle del pianeta che abitiamo, a quelle delle società che abbiamo formato, fino a quelle delle componenti biologiche di cui siamo formati (e che stiamo imparando a scomporre e ricomporre). Serve un piano. Condiviso. O, meglio, serve un piano diverso di pensiero. Condiviso. Ma non si cambia nulla, e tanto meno il pensiero, se si immagina sempre allo stesso modo.
Quindi, che fare? Andare a frugare dentro il futuro? No, non si può, è inattingibile per definizione. Stare con gli occhi puntati sul presente, per scovarne i semi del futuro? Forse, ma c’è una controindicazione: il Presente non esiste, e oggi esiste meno che mai, perché s’è frantumato in tanti presenti sempre più individuali e non-comunicanti (e forse incomunicabili); un processo innescato (forse meglio dire accelerato) dalle dinamiche e dall’architettura stessa dei social network, dal marketing data-driven, e da tutto il resto (che qui non c’è spazio per snocciolare). E se ci provassimo con il passato? Soprattutto con i passati che non hanno vinto, e che ora riposano dimenticati, non-operativi tra i polverosi scaffali di qualche biblioteca. Questa è la mia modesta e timida proposta. Ora la smetto di circumnavigare la materia, e mi ci infilo.
Dicevo: Antonio Fileremo Fregoso, poeta del tramonto di una città che non raggiunse mai l’apice del suo splendore. Le sue opere più note (per i contemporanei, ma anche per l’Ariosto; solo in seguito venne l’oblio) sono i due poemetti in terzine Il riso di Democrito e Il pianto di Eraclito.

Eccovi la trama: il narratore-protagonista, il Fileremo, è giovane, sta camminando in mezzo a una folla da Black Friday («gran turba insana»), gli si fa incontro un giovinetto «tutto di panni candidi vestito»; è un demone buono, gli dice di seguirlo per una via erta e solitaria, che conduce a un «bel pogetto». Il Fileremo ci sta. Si parte con una visita di alcuni splendidi giardini, due chiacchiere con lo scontroso custode (Diogene, “il Cinico”), e successivo ingresso in un sontuoso palazzo. In una delle stanze stanno assisi come partecipanti a un workshop dei silenti figuri, in cerchio intorno allo speaker Platone. Prosegue il tour. Abluzioni rituali a una fontana sul retro. Inchino ai piedi di una statua raffigurante La Filosofia.
Raggiungimento di Democrito, che vive in una casetta abbarbicata su di un sasso solitario, e che ride e ride e ride, assai sguaiato, ride tanto da sembrare pazzo. Tra le risate snocciola un’invettiva contro gli speranzosi, le vecchiette molto religiose ma in realtà superstiziose, se la prende con un «sempliciotto biondo» che soffre per amore, poi con l’Amore stesso, con un tizio che va sempre in giro con la spada, con tutti quelli che hanno «sete d’oro», con quelli che spendono tale oro per pompose cerimonie funebri, ché tanto poi tutti saremo mangime per il Tempo e per i vermi. Il Fileremo incassa tutto, risate e invettive, a volte si sente colpito nel vivo, prova un certo timore verso quell’anziano joker dell’Antica Grecia, che nel frattempo sbrodola e ride, insulta e ride, tende un poco a ripetersi e s’incattivisce, ma ride sempre più fino a che si arriva ai saluti. L’autore si sveglia nella sua stanza: era solo un sogno, una visio.

Ma addosso, nel letto, gli resta una gran voglia di far visita a un altro vecchio saggio: Eraclito. Così (e qui siamo nel secondo poemetto) un’altra notte prova a chiamare di nuovo il «demone buono». Non è raggiungibile, ma al suo posto si presenta un tizio magro ed emaciato, con due enormi ali. È Dianeo, figlio di Ozio e Solitudine. La proposta che gli fa è questa: raggiungere Eraclito in volo, lui sa dove abita. Okay. Il Fileremo monta in groppa a Dianeo, decollo e atterraggio su un «arduo monte», su cui sorge un «tugurietto», la casa del filosofo, da cui sgorga un fiume, generato dalle sue lacrime incessanti.
Il Nostro si avvicina, bussa, Eraclito è scontroso, poi si scioglie, torna a sedersi sulla sua seggiola, prende in mano un teschio umano (quasi un secolo prima dell’Amleto di Shakespeare) e inizia il suo lamento, prendendo le mosse dal parto: se l’uomo è l’unico animale che viene al mondo piangendo, un motivo ci sarà? E poi giù a lacrimare per tutti quei motivi per cui Democrito ride (amore, ambizione, speranza, ricchezza, lussuria, ricchi e poveri, matrimoni e funerali, caccia e falconeria, potere e violenza). La nostra vita, conclude il filosofo, è «frale e caduca come secca foglia». Pianti finali. Saluti. Volo di ritorno.
Il Fileremo è cambiato, si sveglia, ha deciso, vivrà «lontano da quella turba stolta», penserà a migliorare se stesso, punto; «io, se fossi Dio, mi ritirerei in campagna, come ho fatto io» chioserebbe un altro milanese nato quattro secoli dopo.

Fileremo

Dunque: due poemetti che mettono a fuoco una dicotomia insanabile. Il moralismo cinico, impietoso e provocatorio di Democrito, da un lato; quello lacrimevole, inane e lamentoso di Eraclito, dall’altro. O bianco o nero e nessuno scampo, nessun “noi”, un “loro” confuso e indistinto da additare da lontano, e nessuna salvezza, se non nel ripiego dell’individuo su se stesso. Vi ricorda qualcosa? A me il presente.

6 settembre 1499: Gian Giacomo Trivulzio, già comandante al servizio del Moro, entra a Milano da Porta Ticinese, questa volta – traditore – alla testa delle truppe francesi: il Moro è riparato a Innsbruck. Poco dopo, Re Luigi XII di Valois-Orleans, indisturbato, fa il suo ingresso in città. Il ducato di Milano si dissolve, la corte si disperde, e con essa i suoi artisti, i suoi accattoni, ammiratori e cantori.
Antonio Fileremo Fregoso si ritira in campagna, a Colturano, dove scrive i due poemetti e un altro piccolo pugno di opere, e dove morirà, pare, nel 1532, lasciando ai suoi eredi un po’ di terre e di beni. Nel 1517 Leonardo da Vinci si trasferisce ad Amboise, in Francia, sulle rive della Loria, alloggiato da re Francesco I (successore di Luigi XII) in un sontuoso castello.
È finita (ancor prima di iniziare): Milano non è più il centro del mondo; non lo sarà più nell’Italia delle splendide corti. In seguito toccherà alle civiltà bagnate dal Mediterraneo fare spazio a quelle affacciate sull’Atlantico. Poi all’Europa intera, suicidata, consegnarsi agli Stati Uniti. Eccetera, eccetera, eccetera e c’è un tweet del 28 settembre 2019, ore 19.15, dell’account ufficiale di Space X (compagnia di proprietà di Elon Musk), che recita: «Starship (veicolo spaziale costruito da SpaceX, nda) sarà in grado di spostare, a prezzi accessibili, una quantità significativa di merci e persone, essenziali per costruire basi lunari e città spaziali su Marte».

P.S. Alla Pinacoteca di Brera è conservato un affresco del Bramante raffigurante proprio Democrito che ride ed Eraclito che piange, con un mappamondo al centro. Il topos dei due filosofi che piangono e contemporaneamente deridono i destini dell’umanità è assai antico: risale almeno a Sozione di Alessandria (maestro di Seneca, siamo nel I secolo dopo Cristo) e si insinua poi in Ficino, Erasmo da Rotterdam e perfino in una lettera di Leopardi. Nelle arti figurative, il tema verrà ripreso – tra gli altri – da Rubens, Velazquez, Rembrandt.

P.P.S. Per leggere i due poemetti del Fregoso potreste andare nella biblioteca più vicina; potete consultare il Catalogo del Servizio Bibliotecario Nazionale. Oppure potete trovare un eBook scaricabile gratuitamente.