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Fare i conti. Su Addio fantasmi di Nadia Terranova



«“Per far largo al futuro a volte non si può dinamitare ciò che resta.”
“Cancellarlo?”
“No. Spostarlo”.»
Nadia Terranova intervistata da Simonetta Sciandivasci, Trema il futuro, La Stampa, domenica 24 aprile 2022

Ida torna nella sua città natale, Messina, lasciandosi alle spalle — temporaneamente — Roma e la sua nuova vita con il marito Pietro, un uomo genuino che la ama in modo semplice e pacato, che sa farsi «compagno, genitore e fratello», sa ascoltare e sa leggere con rispetto i suoi silenzi più dolorosi. Un amore, avrebbe detto Natalia Ginzburg (Vita immaginaria, Einaudi) come l’aria, di quelli che si riconoscono da pochi segni, inavvertibile e del colore dell’aria, ma sempre rassicurante nel suo carattere saldo e roccioso.

Nadia Terranova, Addio fantasmi

In Addio fantasmi di Nadia Terranova, la giovane fa ritorno sull’isola perché la sua casa si sta letteralmente sgretolando, e ha bisogno d’essere ristrutturata; sua madre la chiama in aiuto: deve scegliere quali, fra i suoi oggetti, “lasciare andare”, prima che la casa possa essere sistemata e venduta. L’alcova della vita passata — la casa d’infanzia, il nido («si nidifica solo dove è sporco») — va rattoppata nel suo decomporsi, ed è gesto metaforico di un passato che bussa alle porte del presente perché reclama una certa attenzione, chiede cura, e chiede, in un certo senso, d’essere reciso, spostato. In Filosofia della casa (Einaudi 2021) Emanuele Coccia scrive: «Una teoria della casa è il presupposto e il compimento della teoria morale: l’insieme disparato dei saperi e dei racconti che ci permettono di capire come essere felici assieme agli altri, qui e adesso». E ancora: «Una casa è questo: un primo e mai definitivo abbozzo di sovrapposizione tra la nostra beatitudine e il mondo».
In quella casa, nella casa oltre lo stretto, Ida ha accudito suo padre, gravemente depresso e poi scomparso nel nulla, alle sei e sedici di un mattino come tanti. Essere felici assieme agli altri, per lei, è una scommessa d’amore che si lega a Messina, alla sua città di sale e alla vita in cui Ida ha camminato ai suoi vent’anni, passeggiando vicino al mare.

I rami che si intrecciano attorno al nocciolo narrativo di questo libro sono tanti, ma i più rilevanti sono tre: il rapporto di Ida con sua madre — e, di riflesso, una certa idea di maternità che Ida coltiva — il legame amoroso con Pietro, il legame d’amicizia con Sara, la compagna di una vita. Come nei tessuti più belli i fili si annodano stretti, e pare la loro origine risieda in un punto solo, e anche ben preciso: il passato dei fantasmi, e il modo in cui questo si proietta sulla vita adulta.
Più di tutto vorrei provare a mettere a tema, però, un elemento che mi pare tenga insieme un versante su cui si situano questi legami. I legami femminili — il legame con la madre e con Sara — sono segnati da una certa distanza che separa il punto in cui la protagonista si trova e quello in cui l’altro femminile si aspetterebbe di trovarla. Non sempre il punto in cui gli altri vorrebbero incontrarci coincide perfettamente con quello in cui noi siamo (Ida ne prende perfettamente coscienza) e non sempre deludere l’aspettativa altrui è considerabile come danno. Nel caso di Ida, lo scontro con la madre (innescato dal grido della madre «Io vorrei sapere chi ti ha messo in testa di comportarti in questo modo […] Io non ti ho educata così […] Perché non parli con me?» – segnale esplicito di un mancato riconoscimento) mette in luce il problema del materno, illuminando l’idea che Ida ha coltivato di sua madre:

«Capii in quel momento cos’è davvero una madre: qualcosa da cui non esiste riparo. Dicono che una madre dà tutto e non chiede niente; nessuno dice invece che chiede tutto e dà ciò che non chiediamo di avere.»

E mi sembra che metta anche a fuoco il motivo per cui Ida non abbia figli:

«Non lo sapevo, sapevo soltanto che né io né mio marito avevamo accettato di mettere al mondo una creatura che avrebbe potuto morire prima di noi facendoci restare con una pena e un rimpianto intollerabili, oppure che sarebbe morta dopo di noi ma inesorabilmente, dando comunque la colpa a chi l’aveva generata. Ecco cosa mi sembrava questo: un carico di dolore senza una fine e senza una luce, e se significava aver ereditato da mio padre la possibilità di essere depressa, era accaduto.»

D’altronde, per dirla con Massimo Recalcati (Le mani della madre, Feltrinelli): «Come nelle scatole cinesi, il volto di una madre contiene il volto di sua madre». E ancora, «l’accesso alla potenza della generatività è una forma radicale (la più radicale) dell’eredità». Ida convive con questa eredità, l’eredità del materno e il suo fantasma.

Quanto alla discussione con Sara, amica d’infanzia, che si scatena, anche qui simbolicamente, dopo un momento in cui Ida desidera molto ricongiungersi con il mare e nuotare, immergersi nel presente, mi pare accenda il tema importantissimo del dolore. Nel dialogo dello scontro, l’amica, ormai adulta, veterinaria affermata, fa notare a Ida come il dolore legato alla scomparsa di suo padre sia stato così ingombrante da offuscare il dolore degli altri, il dolore di Sara:

«So che era difficile, voglio dire la storia di tuo padre e il resto. Ma anche io avevo i miei problemi, magari non ti sembravano importanti come i tuoi. Ti volevo bene e te ne voglio ancora, ma nella nostra amicizia c’eri solo tu. Esiste anche il dolore degli altri, Ida.»

Direi poi che è anche significativo che Sara individui come elemento di rottura la sua interruzione volontaria di gravidanza (ancora, il lessico della maternità):

«Quando ho abortito non ce l’ho fatta piú, ero cambiata. Non ti ho detto nulla, dopo l’intervento mi hanno spiegato che non avrei piú potuto avere figli, il mio utero non stava bene. […] In ospedale, quando sei venuta a trovarmi, e ti ripeto ti ringrazio perché volevo solo te, ti impegnavi ad ammassare parole, seppellire la verità. Mi hai fatto paura. Sembravi tua madre e ho capito che saresti diventata come lei, una donna che vive intorno a una crepa sanguinante, anche quando quel sangue è diventato secco, la crosta si è sgretolata ed è caduta via.»

Ida riesce a cogliere un certo grado di verità nelle parole di Sara, ma ne prende le distanze nella giusta misura, perché coglie con maturità e salda fiducia nei suoi passi le ragioni del suo incespicare; accoglie l’errore, l’inciampo, assumendosene la responsabilità.

«Sentivo che mi riguardavano fino a un certo punto. […] Le sue parole contenevano una verità, ma Sara aveva trascurato di dire che probabilmente il nostro legame si sarebbe sciolto lo stesso.»

C’è una grazia straordinaria nelle parole di Terranova, nel suo modo maturo e completamente disincantato di arrivare al cuore delle cose e di maneggiarlo, anche quando fa male, che fa di lei una delle più brave scrittrici di questa generazione. La sua Ida fatica a guardarsi per intero, ma quando finalmente ci riesce impara a lasciar andare: è un’epifania lenta e meravigliosa.

Uno dei nuclei più preziosi di Addio fantasmi, credo, dice proprio della nostra capacità di ferire, a volte, e di vivere senza saperlo, della possibilità di perdonare, e di assolversi (anche rispetto a certe colpe che in realtà non ci sono mai appartenute, per le cose che non vogliamo ereditare e abbiamo già ripudiato). Ha scritto Patrizia Cavalli: «Se posso perdonare, allora devo / riuscire a perdonare anche me stessa / e smetterla di starmi a giudicare / per come sono o come dovrei essere. / Qui non si tratta di consapevolezza / ma è la superbia che mi tiene stretta / in una stolta morsa che mi danna». Il danno, per Cavalli, la felice colpa di esser quel che sono, il mio felice niente. Ida abita un nulla fatto di fantasmi, che è poi lo stesso che abitiamo tutti — diceva Ginzburg, in quella parte di noi in cui siamo sbandati e balordi.

Questo libro si chiude con un funerale. «Veniamo tutti da un funerale», scrive Nadia Terranova, eppure nella vita di Ida ne manca uno, quello del padre mai morto: «No, non si finisce di amare qualcuno perché non c’è piú: se vale per genitori, fratelli, amici, perché non dovrebbe essere lo stesso se a morire sono fidanzati, coniugi, amanti?» Il desiderio non si arrende. Dunque simbolicamente, Ida celebra il funerale di suo padre dopo aver fatto i conti con il suo dolore e con il dolore degli altri,

«Ma mentre mio padre andava in scena per me, altrove agiva altro dolore, tutto in contemporanea, il male non smette di esistere mentre siamo occupati a pensare a noi; la gente muore, si ammala, soffre, si cerca, ti cerca, non trova.»

[…]

«Sussumere sarebbe il verbo giusto: prendere su di me le vite degli altri, non sono capace di farlo coi vivi, forse ci riesco con i morti, ma la vera emergenza è pensare ai sopravvissuti.»

E così finalmente riesce a chiudere un cerchio, e lascia andare, affidando al mare il groviglio.
Ripensando al percorso che Ida compie fra le macerie del suo passato è evidente che non sempre l’andare in pezzi sia un male. Detonare per ricomporre. Simonetta Sciandivasci ha scritto, a proposito di Trema la notte, ultimo romanzo di Nadia Terranova, «Dopo il crollo non c’è nient’altro che il futuro: una tabula rasa spaventosamente sgombra. Soltanto l’apocalisse apre il varco, azzera il tempo e consente una nascita nuova». E se è vero quello che la nonna di Ida le raccontava a proposito dei brutti sogni, «se non li racconti non ti liberi», la letteratura resta, come spazio del racconto e del possibile, terreno fertile per coltivare il futuro — un certo futuro, inondato di luce, la luce bianca dello Stretto.



In copertina: Addio fantasmi di Nadia Terranova, Einaudi

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