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Un controsillabario quasi biografico. Intervista a Ezio Sinigaglia



Da sempre attento alla sperimentazione linguistica e tematica, Ezio Sinigaglia – già autore di romanzi di grande originalità come ll pantarèi, Fifty-fifty o L’imitazion del vero, o dalla voce funambolica come Eclissi – da qualche mese è in libreria per TerraRossa Edizioni con Sillabario all’incontrario, un libro che si presenta con l’aspetto di un’autobiografia, o di un diario, ma che, per struttura e per scelte narrative, riesce a valicare i limiti tipici delle classiche catalogazioni.

sillabario

Una delle cose che più caratterizzano il tuo romanzo è il montaggio. La vita, in fondo, è “come decidiamo di raccontarla”, e nel caso di Sillabario all’incontrario colpisce l’utilizzo dell’alfabeto rovesciato, una gabbia testuale forte che, anziché costringere il racconto, riesce a potenziarlo: penso a Georges Perec, all’idea secondo la quale possiamo trovare nuove soluzioni creative di fronte a una limitazione, o possiamo riconoscere e raccontare qualcosa di inafferrabile (come una vita) delimitandone lo spazio, creando dei confini. Sei d’accordo?
Concordo pienamente su entrambi i punti: la necessità di un vincolo forte e l’effetto stimolante che questa costrizione può produrre sulla creatività dello scrittore. Il materiale autobiografico è per sua natura caotico e la mia esigenza di “detective” era quella di costruirmi una strada in mezzo al caos, cioè di imporgli una qualche forma di ordine. L’ordine alfabetico mi andava a pennello: nel suo ordinamento è insieme semplice e implacabile, ma nei suoi contenuti è, volendo, di una flessibilità straordinaria. L’idea di capovolgerlo può sembrare una negazione dell’ordine, ma ne costituisce in realtà una conferma ironica: un ordine alfabetico capovolto resta pur sempre un ordine alfabetico. Per farla breve, il mio Sillabario all’incontrario è un controsillabario (è tutt’altro che educativo-edificante!), ma non è un contrordine: semmai un disordine ordinato. Questa “gabbia”, come tu felicemente la definisci, mi ha offerto il dono di una struttura solida, aggrappandomi alla quale potevo indagare con un minimo di coerenza dentro il liquido instabile, indisciplinato della memoria. Ecco che un po’ per caso è saltata fuori la parola giusta: indisciplinato: l’ordine alfabetico ha imposto una forma di disciplina a ciò che non ne ha. Naturalmente ha imposto una disciplina anche a me. Ma i vincoli non mi ostacolano: anzi, sovente li ricerco, come dimostrano il rigido schema binario (saggistico-narrativo) che mi ero dato già all’epoca della stesura del Pantarèi e forse ancor più le regole linguistiche alquanto bizzarre e condizionanti dell’Imitazion del vero. Più decisamente ludici e molto “perecchiani” sono i tre racconti (che dovrebbero essere pubblicati verso la fine del prossimo anno dalle Edizioni déclic) dove ogni parola, sulla base delle regole autoimposte, può avere una e una sola lettera iniziale. Grazie a questi vincoli in apparenza astrusi, il mio divertimento di scrittore si è moltiplicato, e di conseguenza ne ha tratto giovamento la mia creatività.

L’alfabeto, dicevamo, è un alfabeto rovesciato, che strutturi – per usare le tue parole – «dalla Z degli indizi alla A dell’assassino». Questo procedere in modo investigativo, avanzando ipotesi e accumulando indizi per provare a ordinare il caos, mi ha ricordato uno dei miei romanzi preferiti, Cosmo di Witold Gombrowicz. Credi che, come accade al protagonista di questo romanzo, per abitare un mondo e una realtà di per sé disordinati («nulla è reale tranne il caso», scriveva Paul Auster) sia necessario attribuire ad alcuni elementi la dignità di “indizi” con un atto volontario?
Ti ringrazio per avermi accostato a uno scrittore tanto più intelligente di me qual è Witold Gombrowicz, del quale ho letto in gioventù e riletto più tardi due capolavori (Pornografia, oltre a Cosmo), sempre senza capire interamente ciò che leggevo ma anche senza che questa difficoltà di comprensione annullasse il piacere della lettura. Non sono uno scrittore altrettanto capace di astrazioni e illuminazioni filosofiche, e forse proprio per questo il mio pessimismo non tocca mai certe vette assolute, come quella che lascia intravedere l’aforisma di Paul Auster: è verissimo che nulla è reale tranne il caso (o il caos), come è verissimo che l’essere umano non ha alcuna certezza fuorché la morte, ma queste affermazioni mi sembrano, da una parte, troppo paralizzanti per uno scrittore e, dall’altra, troppo categoriche e asciutte per i miei romanzi, che si nutrono dal principio alla fine di umorismo. La frase più sentenziosa e apodittica che abbia mai scritto a proposito della morte compare a pagina 167 del Sillabario, dove si afferma che la morte è «la sola esperienza che nessuno si sia mai lagnato d’aver fatto». Quanto al caso e al caos che governano la vita, ho eletto a combatterli, alla L di Lontano, il personaggio di Clara, il cui destino è quello di «opporsi all’entropia» manovrando aspirapolvere e lavatrici (ma anche imponendo una disciplina alla sua stessa esistenza). Si capisce subito che non intendo rivaleggiare con San Tommaso d’Aquino ma, tutt’al più, con Achille Campanile. Mi servo semplicemente del paradosso, del capovolgimento dell’ordine, per osservare il disordine sotto una luce beffarda, e per riderne. 

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Il tuo romanzo si presenta con i tratti dell’autobiografia, del diario, inducendo forse alcuni a pensare che il protagonista della storia e il suo autore coincidano. Per contro, al lettore più smaliziato non sfuggirà come già la selezione e riorganizzazione del materiale autobiografico rappresentino una manipolazione, e che – come diceva Berto, che tu stesso evochi nel tuo libro – uno scrittore è un po’ meno autobiografico proprio «quando scrive di sé». Qual è il tuo pensiero, in generale, sul rapporto tra realtà e finzione? I tuoi libri presentano diversi livelli di trasfigurazione.

Il protagonista-narratore e l’autore di Sillabario all’incontrario effettivamente coincidono o, almeno, condividono lo stesso nome e lo stesso cognome (anche se quest’ultimo compare soltanto nella forma francesizzata “Sinì/gaià”), la stessa abitazione nel presente narrativo (fra stridori di gatti, ondeggiare di canne al vento e scintillii di mare) e presumibilmente lo stesso codice fiscale. Di qui ad affermare che il quindicenne che butta in mare, vestito di tutto punto, un suo coetaneo, il cinquantenne che confessa, nero su bianco, la sua “cattiva azione” e il settantacinquenne che scrive queste note sono una cosa sola, be’, ce ne passa! Credo di avere da zero a pochissime cellule in comune con l’Ezio di sessant’anni fa. Questo è un primo elemento di distanziamento fra l’io che scrive e l’io che ha vissuto ciò che viene scritto: il continuo, incessante mutare e trascolorare del nostro Sé: «Io resto sempre io benché d’attimo in attimo un nuovo io esca dal vecchio» si legge a pagina 101, e il lettore potrebbe benissimo interpretare questa frase come una dichiarazione di ambiguità, e quindi di parziale inaffidabilità, del materiale autobiografico di cui è fatto il libro che sta leggendo. A questo primo grado di separazione fra autore e narratore se ne aggiungono altri due: il potere mitizzante del ricordo, vero e proprio auctor, lui sì, che sistematicamente aumenta, amplifica ed enfatizza tutto ciò che tocca, rendendo cantabile ogni suono: e il potere trasfigurante della letteratura, che sceglie ciò che le aggrada e deifica ciò che sceglie. Ed è anche vero che questo gioco appare, nel suo triplice inganno, ben più scoperto quando si pretende di raccontare la verità su sé stessi che quando si demanda qualche frammento di verità a un personaggio altro da sé. È paradossale ma, come spesso accade a ciò che è paradossale, è vero. Tuttavia, capovolgendo il paradosso in un paradosso all’incontrario, voglio affermare qui che nulla di ciò che viene raccontato in Sillabario all’incontrario è frutto d’invenzione o manipolazione. Perché, come proclamato a chiare lettere nell’ultima riga della mia prefazione, questo libro «non è stato progettato come un romanzo, ma come una medicina».

Non solo il montaggio, ma anche un uso speciale della lingua caratterizza questo tuo romanzo (e tutti gli altri). Mi pare, per esempio, che pur avendo una voce molto forte ed estremamente riconoscibile, tu riesca a piegarla di volta in volta alle necessità e alle potenzialità di ogni nuova storia. Per esempio, in Sillabario all’incontrario, colpiscono – da un punto di vista sintattico – i lunghissimi paragrafi in cui le frasi si susseguono, come in una staffetta, separate dai due punti: ho avuto, forse condizionata dall’andamento “psicanalitico” del racconto, l’impressione che tu procedessi per associazioni freudiane.
Sì, sono sempre stato convinto che uno scrittore debba per prima cosa trovare la sua voce e in secondo luogo riuscire a modularla in funzione di ciò che vuole scrivere. Forse è lecito affermare che la voce resta sempre la stessa e che ciò che va diversamente modulato è la lingua. (La stessa cosa, del resto, vale per tutti noi come parlanti: la voce è una, le lingue che si parlano sono molte, e si scelgono, perlopiù istintivamente, in funzione di ciò di cui si parla ed a chi. Questo tema viene toccato a pagina 49 del Sillabario, là dove rimprovero a mio padre la sua «resistenza invincibile […] a modulare il suo linguaggio secondo le esigenze dell’interlocutore».) I romanzi che ho scritto sono tutti molto diversi l’un dall’altro e altrettanto diversi sono la lingua e lo stile adottati di volta in volta. Del resto avevo fatto le mie prime prove fin dal Pantarèi dove, in armonia con il tema dominante dell’opera (il romanzo del Novecento), la lingua si modulava sempre in modo diverso di capitolo in capitolo e, spesso, di pagina in pagina. Per Il pantarèi, appunto, ma anche per L’imitazion del vero e Fifty-fifty, si può senz’altro dire che ho fatto sperimentazione con la lingua e lo stile, ottenendo effetti molto vari, dall’estrema semplicità all’estrema complessità passando per stadi intermedi. Per Sillabario all’incontrario non ho fatto alcuna riflessione a priori sulla lingua, non ho progettato alcuna modulazione della mia voce: ho adottato senza premeditazione, quasi per necessità, quella che chiamerei la mia voce “privata”, la lingua e lo stile dei miei carteggi con amici, amanti e parenti o dei miei rari frammenti di diario, insomma un linguaggio molto sperimentato e quindi tutt’altro che sperimentale. È vero che da un certo punto in poi ha fatto irruzione una piccola novità di punteggiatura: una vera e propria inflazione dei due punti, che hanno finito col sostituire quasi ogni altra forma di interpunzione. Poiché la spontaneità della stesura, in questo libro, rivestiva per me una particolare importanza, mi sono ben guardato, alla fine, dalla tentazione di estendere questa novità alle prime (cioè ultime) lettere dell’alfabeto: il lettore attento potrà così notare, anche per semplici colpi d’occhio, che il fenomeno è del tutto assente dalla Z alla Q, comincia timidamente a fare capolino alla P di Padre, si intensifica alla N di Narcosi e irrompe incontenibile dalla L di Lontano in poi. La novità tipografica va dunque di pari passo con l’approfondirsi dell’autoanalisi, con il progressivo affermarsi, sempre più preponderante e dispotico, dello strumento della memoria – e di quello dell’associazione di idee, che ne indirizza le scelte. I due punti, insomma, come simbolo di un moto che non riesce mai a fermarsi del tutto: semplici rallentamenti, che preludono a nuove accelerazioni.

Il linguaggio non è solo espressione del tuo romanzo, ma ne è anche tema. Penso al bellissimo racconto dello psicodramma (alla parola «Padre») durante il quale Ezio-protagonista si trova a interpretare un ruolo che definisce estraneo, e per il quale parte proprio dall’immaginazione del linguaggio e delle possibilità espressive del personaggio in questione. Questo mi sembra dire molto non solo sul divertente aneddoto, ma anche sulla scrittura in generale: pensi che entrare in un personaggio sia anche trovare la sua voce?
Oh sì, senza alcun dubbio. È nel parlato che un personaggio trova il suo disegno, la sua natura, la sua – è quasi tautologico – personalità. Ho sempre lavorato molto sui dialoghi, sia per l’esigenza di individuare un punto di equilibrio fra un naturalismo impossibile e una proprietà di espressione inverosimile, sia proprio a questo scopo: dare spessore e credibilità ai miei personaggi. E nel romanzo meno sperimentale di tutti, Eclissi, ho sperimentato più che in ogni altro sul parlato. Ecco dunque un altro significato della parola “voce”, da affiancare a quello di cui mi hai stimolato a parlare poco fa: non basta trovare e modulare la propria voce, ma bisogna inventare una voce anche per ciascuno dei personaggi che si fanno muovere sulla scena. Insomma, lo scrittore è un po’ commediante e un po’ ventriloquo.

Infine, una curiosità: immagina di dover riprendere in mano l’alfabeto, navigandolo con segno opposto. Se si potesse, quale sarebbe la nuova «B»?
B come Babele. Il vero nodo della mia vita attuale, la principale malattia dalla quale vorrei guarire (ma purtroppo non esiste altra terapia che un silenzioso trapasso) è la difficoltà di capire il mondo che mi circonda e che parla lingue a me sconosciute. Sarebbe un buon inizio per un secondo Sillabario, che prendesse le mosse dall’A come Aldilà del primo. La conclusione potrebbe essere Z come Zitto: il silenzioso trapasso, appunto, nell’Aldilà: il finale Testa-Coda di cui a pagina 166.

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