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Esigere una conversazione complessa. Intervista a Katherine Angel



Pubblicato per la prima volta nel Regno Unito nel 2019 (Peninsula Press) e appena uscito per Blackie Edizioni nella traduzione di Alice Spano e Veronica Raimo, Bella di papà introduce la scrittura critica di Katherine Angel al pubblico italiano. Contemporaneamente, l’autrice sta promuovendo il suo ultimo libro in lingua inglese, Tomorrow Sex Will Be Good Again (Verso), la cui traduzione italiana è già in cantiere sempre per Blackie. Angel è anche autrice di un romanzo di autofiction, Unmastered, «un libro sul desiderio, tanto difficile da raccontare» (2012, Allen Lane).
Questa intervista è stata condotta su Zoom, a fine Aprile 2021, ed è stata abbreviata per motivi di leggibilità.

Il tuo lavoro si sta facendo conoscere in Italia proprio in queste settimane con Bella di papà. Negli stessi giorni è uscito anche il tuo ultimo libro in lingua inglese, Tomorrow Sex Will Be Good Again, che sarà tradotto in italiano il prossimo anno. Ci conosciamo dai tempi di Unmastered, e quindi ho pensato che questa intervista potesse rappresentare un’occasione per introdurre il tuo lavoro in Italia in senso più ampio. Trovo che ci sia una certa continuità nelle tue opere, sicuramente sul piano tematico. Ci sono questioni su cui torni più volte adottando ogni volta un approccio diverso, cambiando la prospettiva con cui le affronti, il genere letterario, la forma – la “lente narrativa”, per così dire – talvolta più rigorosa, talvolta più sperimentale. Come si intersecano l’aspetto accademico e quello creativo nella tua scrittura? È una sinergia positiva?
Alcuni temi sono centrali in tutti e tre i testi. C’è una comune sensazione di ambivalenza, una percezione contrastante di alcuni dibattiti sui temi del sesso, dei rapporti di genere e del potere. Il femminismo si è interrogato spesso su questi temi, con l’obiettivo di migliorare le cose per le donne: è un dibattito legittimo e che supporto in pieno, ma talvolta in questo tipo di contesto avverto come una specie di bisogno di tenere a distanza le parti più inintellegibili e contraddittorie dell’essere donna. Come, ad esempio, il fatto di dover esplorare il proprio desiderio sessuale in un mondo pieno di violenza di genere, in cui il potere è distribuito in maniera ineguale. In qualche modo tutti i miei libri ritornano su questa questione. 
Formalmente i miei libri sono molto diversi tra loro, in particolare Unmastered Tomorrow Sex Will Be Good Again. Mentre scrivevo Unmastered, circa dieci anni fa, c’era qualcosa che volevo comunicare in una forma specifica, trovando una voce particolare di cui sentivo una forte necessità. Avevo appena finito il mio dottorato di ricerca, e stavo lavorando alla stesura di un trattato universitario sulla disfunzione sessuale femminile nella psichiatria americana per il mio postdoc, ma sentivo di non riuscire a scrivere di questi temi in quel modo, seppure avessi l’urgenza fortissima di parlarne. Ero profondamente infastidita da un certo tipo di linearità e argomentazione; mi sembrava troppo facile costruire un saggio in quel modo. Avrei potuto farlo, ma mi sembrava in qualche maniera disonesto, e quindi mi sono inventata una forma nuova, dalla trama disuguale e complessa, che fosse capace di tenere insieme sensazioni e esperienze contraddittorie nello stesso momento. Ci sono molti silenzi e molte pause in Unmastered, e questo è buffo, perché dieci anni dopo ho scritto Tomorrow Sex Will Be Good Again, che invece è a tutti gli effetti un saggio.
Tomorrow Sex Will Be Good Again è un libro più convenzionale a prima vista, un vero trattato. Ma è anche un libro la cui scrittura ha richiesto un processo di composizione molto lungo. Ci sono state tante false partenze. Questo perché è un libro più polemico, che affronta in maniera diretta i temi che avevo trattato solo obliquamente con Unmastered, ma anche perché, come Unmastered, è un testo che vuole riprodurre la sensazione di un dibattito interiore che persiste, del tendere a una conclusione ancora aperta. Ci sono momenti di certezza nel libro, ma ho provato a farmi carico anche della mia insicurezza, della mia frustrazione e della mia confusione mentre lo scrivevo, e ciò fa sì che anche questo testo sia animato da uno spirito di scoperta. 

Unmastered, Katherine Angel

Una cosa che apprezzo molto nella tua scrittura è proprio la sua complessità: la volontà di complicare il dibattito sul femminismo, anziché semplificarlo, pur esprimendo una posizione chiara e esplicita in supporto delle donne. In Tomorrow Sex Will Be Good Again discuti il consenso attivo come una strategia fondamentale in tutela delle soggettività più vulnerabili alla violenza del patriarcato. Al contempo, ne evidenzi il carattere provvisorio, pragmatico, di utilità strategica, che non elide l’esigenza di un’esplorazione più ampia della nozione di libero arbitrio sessuale e di come questa cambi e sia connessa alle strutture di potere in cui tutti siamo implicati. 
Questi due aspetti, almeno per quanto mi riguarda, non sono mai stati in conflitto – anzi, mi sembrano complementari – eppure vengono spesso polarizzati nel dibattito pubblico. Mentre scrivi, hai mai il timore che il tuo lavoro possa essere strumentalizzato da una parte politica che non ti rispecchia? Come ad esempio il fronte politico del “non si può più dire nulla”, che considera l’argomento del consenso attivo come afferente alla cosiddetta “cancel culture”?
Mentre scrivevo il libro ci sono stati momenti in cui ho pensato, dio mio, mi sto avventurando su un terreno scivoloso. È davvero difficile dare un’immagine dettagliata di un campo così complesso, non ultimo perché esistono molte persone interessate a strumentalizzare questa complessità, per invalidare movimenti come #metoo. Non era questo il mio obiettivo. Specie negli Stati Uniti, in molti criticano la nozione di consenso attivo affermando che è colpa delle femministe se oggi si confonde il sesso mediocre con la violenza sessuale. Quello che provo a dire io, invece, è che le donne hanno il diritto di reclamare la propria complessità, che non dobbiamo essere obbligate a negare la complessità del nostro desiderio per poterci sentire al sicuro in un mondo pieno di violenza sessuale. Come possiamo parlare di sesso in maniera complessa, senza per forza cadere nella posa semplificatoria del “qualcosa di brutto prima o poi succede a chiunque, non vuol dire che sia stupro”?
Ci è voluto tanto tempo per articolare esattamente quello che volevo dire. Credo sia questo: c’è una distinzione importante tra lo stupro e il sesso mediocre, e questa distinzione è spesso messa in discussione. È cruciale che esista una definizione chiara dei concetti di consenso e di stupro che abbia validità in campo giuridico, ed è importante migliorare le leggi in cui questi concetti si inseriscono, per supportare meglio le donne. Questo è un argomento centrale nel libro. Quello che voglio mettere in discussione è il perché questo linguaggio legislativo sia diventato l’unico linguaggio con cui è possibile oggi parlare di sesso. Troppo spesso le donne fanno sesso mediocre, e anche questo è un argomento politico. È difficile per le donne orientarsi in un contesto in cui ci viene richiesto di esprimere il nostro desiderio in maniera affermativa ed entusiasta, ma poi veniamo punite in tribunale o umiliate dagli uomini che ci circondano, proprio perché lo abbiamo fatto. Dobbiamo ripartire da questa complessità e rivendicarla, invece di lasciare che sia utilizzata come argomento contro di noi, per mettere a tacere le difficoltà che ci troviamo ad affrontare. Dobbiamo esigere una conversazione complessa, perché troppo spesso sono le donne stesse a fare le spese di una strategia politica che evita la complessità per motivi pragmatici. 

A partire da questa tua posizione, volevo chiederti se hai un lettore particolare in mente quando scrivi.
L’impulso primario è quello di dover scrivere qualcosa per comprenderla; in un primo momento non ho un lettore specifico in mente, scrivere è per me quasi una compulsione. L’obiettivo finale, ovviamente, è quello di raggiungere il lettore. Ma in un primo momento ho bisogno di scrivere soprattutto per capire che cos’è che mi mette in difficoltà, che mi confonde, e lo capisco soltanto durante l’atto. Anche quando non raggiungo una conclusione netta, devo scriverlo. 
Mentre scrivo devo costringermi a non pensare al lettore, perché è l’unica maniera in cui riesco a esplorare argomenti che potrebbero risultare provocatori. Le cose di cui scrivo sono argomenti difficili, anche dolorosi, per gli altri ma anche per me stessa. Se avessi un rapporto completamente lineare con il mio genere o con la mia sessualità, o con la mia famiglia, non scriverei di quello che scrivo. 
Potrei dire quindi che il mio lettore ideale sono io stessa, purché non sia inteso in senso narcisistico. Scrivo per me nella misura in cui cerco di scrivere qualcosa che vorrei leggere, che possa aiutarmi a dipanare i miei dubbi, a fare chiarezza nella confusione che io stessa avverto. 

Tomorrow Sex will be good Again, Katherine Angel

Sei nata a Bruxelles, in Belgio, da genitori inglesi, e adesso vivi nel Regno Unito e scrivi in inglese. Leggendo i tuoi libri, mi sembra di registrare influenze teoriche che provengono sia dal femminismo anglofono, sia dalla tradizione post-strutturalista dell’Europa continentale, specialmente francese. Che influenza ha il tuo background culturale sulla tua produzione letteraria? 
Sono cresciuta parlando inglese e francese e mi sono trasferita nel Regno Unito per l’università. Tornavamo in Inghilterra a trovare i parenti, ma passavamo il resto dell’anno in Belgio, Francia, Germania o Italia. Crescere in questo modo è stata una benedizione ma anche un flagello, perché non mi sentivo a casa da nessuna parte: non ero belga ma non ero neanche inglese. Dopo 25 anni che vivo in Inghilterra mi sento un po’ più inglese, ma per lungo tempo c’è stato in me qualcosa di sospeso, un sentimento, a volte doloroso, per la mancanza di un facile senso di appartenenza. A volte penso che scrivere per me sia un’espressione di questo bisogno: un modo di trovare casa in qualcosa che ho creato. Per poi partire da lì in cerca di un senso di comunità.
Non è la prima volta che mi dicono che c’è un’inflessione francofona in quello che scrivo – mi è successo soprattutto con Unmastered, che è un libro in prima persona che mescola filosofia e fiction. In un certo senso è vero, ma la cosa buffa è che in realtà non sono cresciuta con la letteratura francese. Quand’ero ragazzina in Europa, negli anni 80 e 90, principalmente consumavo cultura pop che proveniva dagli Stati Uniti. Questo non esclude che la mia sensibilità sia stata modellata dal contesto europeo: mi interessa molto la psicoanalisi francese e Michel Foucault in particolare ha un’influenza enorme sul mio lavoro.
In senso più ampio, c’è qualcosa nell’approccio critico continentale in cui mi rispecchio: la volontà di partire da premesse difficili, di analizzare la complessità intrinseca nella contraddizione, quella tensione che si genera quando un concetto sfrega ruvidamente contro un altro di segno opposto. Mi interessano l’esplorazione linguistica e l’assenza di imperativi categorici, e forse c’è un elemento autobiografico in questo: mi sento più a mio agio quando esisto e scrivo in uno spazio di mezzo.

In Bella di papà scrivi: «Uno dei compiti più urgenti che la nostra epoca incerta – nata dopo il #metoo – ci richiede è quello di non limitarci più ad un confronto con il nostro status di vittime della dominazione maschile, ma anche di fare i conti con i nostri desideri di retribuzione, vendetta, punizione, con le nostre fantasie di aggressività e di smascheramento. Non è semplice prendere in esame la vostra famiglia e la sua presenza viva dentro di voi, una presenza fatta di virtù e di difetti. Però c’è una cosa di cui sono certa: venire a patti con la propria aggressività e con la propria ostilità – perseguire un rapporto spietato – rispetto alle nostre origini è un aspetto necessario della sanità. L’ansia verso il soggetto, l’accondiscendenza, non sono sintomi d’amore». Dunque cominciamo a comprendere le dinamiche del potere dentro la famiglia, spostandoci poi verso l’esterno? E che cosa consiglieresti a chi si avvicina a queste tematiche, magari per la prima volta?
Credo che sia importante che tutti diano un contributo alla conversazione pubblica sull’abuso di potere, l’abuso sessuale e la molestia. Offro completo supporto a tutte quelle donne che scelgono di parlare degli abusi che hanno subito, e abbraccio i loro legittimi tentativi di correggere un mondo che tenta costantemente di porre un limite alla nostra felicità, alla nostra autonomia e alla nostra gioia. Ma credo che sia altrettanto importante ascoltare noi stesse. Per molto tempo le donne non hanno avuto diritto di parola per quanto riguarda la sessualità, ma quest’assenza non si corregge forzandole alla parola, indiscriminatamente. La sessualità delle donne è stata repressa e dominata dagli uomini per così tanto tempo, sia nella sfera pubblica che in quella privata, che talvolta pensiamo che l’unica reazione corretta sia rispondere a tono. Io invece credo che dobbiamo pensar bene a che forma vogliamo dare alla nostra resistenza, alla ribellione e al cambiamento.
I social media per esempio sono utilissimi per amplificare la voce di chi altrimenti non ne avrebbe una, e quindi è normale che siano diventati parte integrante dei movimenti di resistenza. Quando tutto il resto ti si rivolta contro – il sistema legale, la giustizia giuridica, il tuo datore di lavoro, i tuoi colleghi – quando esisti all’interno di un sistema che non ti consente di vivere con gioia e dignità, utilizzi tutto quello che è a tua disposizione. 
Ma dobbiamo pensare bene a come utilizzare questi nuovi strumenti. Negli ultimi anni si è diffusa l’impressione che basti piazzare un microfono davanti a una donna e incoraggiarla a raccontare tutta la merda che ha dovuto subire nella vita, e poi lo chiamiamo cambiamento. Speriamo che tutte queste storie attirino l’attenzione, che portino a uno slittamento in positivo, ma non funziona proprio così, anche perché la società feticizza il dolore delle donne. C’è qualcosa di voyeuristico nell’esigere queste confessioni a tappeto, una sottile soddisfazione che il pubblico consegue nel farsi testimone del dolore delle donne. Nel frattempo, i numeri della violenza di genere rimangono gli stessi. Un milione di tweet non porta necessariamente a un cambiamento immediato. 
Perciò la mia risposta alla tua domanda è questa: ci sono tanti modi in cui una persona può farsi carico di questi argomenti, anche sul piano individuale, personale, privato. Nessuna donna deve sentirsi obbligata a raccontare la propria storia, o a diventare una figura pubblica. Ci si può avvicinare a queste tematiche privatamente o tramite l’attivismo, o tramite la scrittura, di fiction o non fiction. Ogni forma di esplorazione è valida.

Bella di papà, Katherine Angel

Negli ultimi mesi, in Italia, si è parlato molto di desiderio e identità di genere e in vari ambienti culturali ho registrato una certa insofferenza nei confronti della cosiddetta “cancel culture” – spesso assimilata al dibattito sul consenso – una reazione, anche da sinistra, alla cosiddetta “dittatura del politicamente corretto”, secondo molti importata acriticamente dagli Stati Uniti. Come spesso accade, la realtà del dibattito mainstream ci riporta subito con i piedi per terra. Mentre preparavo questa intervista, il leader fondatore di uno dei maggiori partiti politici italiani, Beppe Grillo, si è espresso pubblicamente in supporto del figlio accusato di violenza sessuale di gruppo. In un video di due minuti rilasciato Facebook, Grillo mette in dubbio le dichiarazioni della vittima poiché la ragazza non ha denunciato lo stupro fino a otto giorni dopo l’accaduto, facendo leva in particolare sul suo ruolo in quanto padre e definendo il fatto una semplice bravata da ragazzi ubriachi. In Bella di papà, citi Ivanka Trump, che all’indomani delle denunce contro il padre Donald ha dichiarato «più di tutto mi consola il fatto di conoscere mio padre». Conosco mio padre, dice la figlia, e non può aver fatto nulla di sbagliato, poiché il suo ruolo è quello di tutelarmi: ma che succede quando un padre si schiera in tutela della violenza del figlio maschio?
C’è questa idea che se conosci profondamente qualcuno sai che non sarà mai capace di fare qualcosa di terribile; è una convinzione che nasce dall’intimità tra due persone. Fai sconti per chi ami, perché è difficile accettare il fatto che qualcuno che ami sia accusato di qualcosa di terribile. Devi ricalibrare, ripensare tutto da capo. Non dico di non capire questo tipo di reazione. Ma ovviamente tutto questo accade nel contesto di quelle che le femministe definiscono “narrazioni dello stupro”. E cioè che se una donna è ubriaca sia legittimo farle violenza, o se una donna ha detto o fatto questa o quell’altra cosa, allora quello che le succede non conti come violenza. Questa è una cosa orrenda. È violenza. È usare qualcuno per la propria gratificazione sessuale mentre non è capace di esprimere consenso, né di provare piacere. È trarre gratificazione sessuale dall’umiliazione di un’altra persona. 
La violenza maschile ha tanto a che fare con questo ultimo concetto, specialmente in contesti di gruppo. Uomini tra uomini: è una dinamica omosociale, che rafforza il legame tra i soggetti di genere maschile. Le donne rappresentano soltanto un danno collaterale, sono oggetti di scena cosicché gli uomini possano dimostrare la propria mascolinità a un altro uomo. Ogni volta che sento una storia come questa mi riempio di orrore, anche se purtroppo ne sentiamo una ogni giorno.
Non conosco il caso di cui parli, ma il tipo di invocazione che descrivi è molto interessante: il padre invoca la sua paternità come fonte di autorità. E dice: sì, conosco mio figlio, gli uomini sono fatti così, sono solo ragazzi. Tutto regolare. Culturalmente, percepiamo il padre come autorità, colui che detta legge. Il padre è la legge. Nel pensiero psicoanalitico il padre è colui che interviene interrompendo l’incantesimo narcisista che intercorre tra la madre e il figlio, ed è solo accettando il suo potere che il bambino può diventare adulto. L’autorità del padre promulga gli insegnamenti dell’eterosessualità, tra cui quello che le donne non abbiano libero arbitrio sessuale, che tutto ciò che conta nel sesso sia ciò che vuole l’uomo o che le donne non siano interessate al sesso o non debbano provare piacere sessuale. Parte del ruolo del padre è stabilire la legge che regola la sessualità tra uomini e donne.




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