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Eroine. Dal silenzio alla rabbia per riscrivere il modernismo

Kate Zambreno restituisce all’epica del grande romanzo americano la sua voce di donna. Recupera e dialoga con le Eroine che i modernisti hanno silenziato e rinchiuso in manicomio

≪I geni si fermavano a parlare con lei, e io restavo a parlare con le mogli≫. Paradossalmente,
per dar voce alle Eroine che Kate Zambreno insegue e con cui dialoga da almeno due
decenni, nel suo seguitissimo blog in rete, nelle sue docenze e poi su pagina, e per mostrare
l’appassionata e lucidissima lezione che ne trae, si può utilizzare la voce di una donna, Alice
B. Toklas
. E rendersi conto, subito, che non è la sua, ma è mediata (usurpata?) dalla
compagna, Gertrude Stein. Metronomo e mezzo essenziale di diffusione della letteratura
modernista e poi dei Ruggenti Venti, eppure dimostrazione plastica di quanto – come ben
vediamo oggi, dalle circolari della Presidenza del Consiglio alle autrici con il sigaro e una
torrenziale confidenza con Twitter e relativi nuovi nomi – possano essere le donne a
rivendicare per sé comportamenti che pure non smettono di essere radicalmente patriarcali.

Perché ≪patriarca è colui che riscrive≫ il vissuto altrui assunto come proprio, dal proprio
singolare punto di osservazione. Atto a cui, però, è necessario assumere l’io dell’altra
persona dalla propria mano. Scrivere “Autobiografie” d’altri. E dunque muovere
dall’’invisibilizzazione, innanzitutto. A partire dalle autrici, consegnate al residuo, alle ultime
pagine o ai boxini a fondo pagina del canone, non come tali ma come le “mogli di” quasi
ogni autore simbolo del grande romanzo americano. A loro, dal 2005, si rivolge la saggista e
docente di Chicago con una prosa frammentata e torrenziale parente del cut up
burroghsiano come della lingua dei blog ma, soprattutto di quella narrazione di sé, dal diario
all’autocoscienza femminista è spesso stato – o è ancora – l’unico luogo di verità concesso
alle donne, anche quelle che scrivono
.

Eroine

Sono prima di tutto loro a trovare voce, mentre fanno da specchio a Zambreno, accademica e a sua volta moglie di un collega, chiamata a confrontarsi, nel cuore del nuovo millennio, con un’eredità non poi così lontana e interrogativi ancora tutti aperti: dove l’accordo diventa resa o l’equilibrio maturo tra i generi
mostra ancora la corda del passato culturale di sopraffazione che ha informato ogni legame
sociale? In Eroine (Nottetempo) c’è l’oggi, che sa leggere le fragilità, e uomini più affamati
delle donne di essere visti e idolatrati, che a inizio secolo tendevano parossisticamente al
romanzo e forse oggi sceglierebbero un post
. E c’è il personale che – nel solco più autentico
e compiuto della pratica femminista, si fa politico (e nelle pagine degli uomini si astrattizza
forziosamente) nell’analisi schietta e che talvolta si avvita su se stessa, come forse non
possono non fare le urgenza libere di filtri, anche se mai prive di solidità accademica.

Ma c’è, soprattutto, la riflessione problematizzante che mancava per rileggere, ancora una volta,
il sogno americano, anche letterario
, cui continuiamo con orgoglio ad attingere un
immaginario pieno di fascino e ribellione, di narrazione di libertà anche e forse soprattutto
quando è decadente. Cui non è necessario esser costretti a rinunciare, sia detto subito, a
scanso di potenziali letture che qualcuno – con questi chiari di luna – potrebbe definire
proditoriamente woke. A patto di essere consapevoli che il conto di queste liberazioni è
stato pagato, sempre, dalle donne. Cancellate, spesso, e quasi sempre patologizzate,
perchè nessuna forma di riscrittura di vita, è più violenta e radicale della psichiatrizzazione.

La malattia mentale, prigione ideale per le donne lungo i secoli, talvolta liricizzata, in un
parossismo di enfasi narrativa, sotto la lente analitica si trasforma in meccanismo rivelatorio
della violenza patriarcale sulle donne portatrici d’intelletto da domar
e. E a cui talvolta non
resta che cedere, di fronte a un destino imposto che le vede sempre derubate di un vissuto
che, nelle mani di mariti e compagni, doveva trasformarsi in materiale narrativo. A cui, di
conseguenza, l’autrice stessa diveniva imperdonabile che accedesse, perchè avrebbe
significato depredare il Grande Autore dell’humus essenziale della sua opera di genio.
Depredare chi si era impadronito, cioè, del loro stesso vissuto, cannibalizzandolo.

Ed ecco che, chi osa farlo, incorre nella narrazione che da sempre ha accompagnato le donne e la scrittura femminile e – con essa – la loro esistenza: ombelicale, uterina, isterica. Soprattutto se reagisce senza sudditanza al silenzio imposto. Fino al manicomio, perchè ≪la rabbia di una donna va contenuta, repressa, dispersa≫. Lo sanno bene Zelda Fitzgerald, Vivien(ne) Eliot, ma anche Virginia Woolf, Jean Rhys o June Bowles, ma anche l’Anais Nin donna che si nasconde dietro il simulacro dei libri. Con il supporto di quelle donne che – come già Stein – hanno indossato più o meno consciamente i panni maschili utili alla invisibilizzazione tramite biografia. Sono infatti le biografe, sovente, le migliori alleate delle crudeltà, sottili o più ansiosamente smaccate, dei T.S. Elliot ed Ezra Pound, Scott Fitzgerald ma anche Ernest Hemingway ed Henry Miller, e dei molti che mentre fondano la narrativa, americana come ad ogni latitudine, a questo obiettivo – spesso fonte, per loro si, di autentiche nevrosi – sacrificano schiacciandole sotto un’etichetta di (più o meno ≪squisito≫) eccesso di sensibilità, donne le cui ambizioni letterarie, oggi in gran parte dimenticate, avrebbero forse potuto godere di una fortuna la cui distanza da quella dei loro uomini rimarrebbe, ancora, tutta da misurare.

Dal ribollente rifiuto di ogni forma di compostezza femminina, dall’orgoglio nel  far di nuovo esistere ogni scrittrice che ≪non potè esserlo≫, perchè a loro, insieme alla parola, non era data l’ambizione, Zambreno sorgere un saggio importante, appassionato e documentatissimo, per ≪farsi tramite di un lascito≫ leggere tra le righe e nelle fonti autentiche dei capolavori dell’Otto e Novecento, perché anche rileggendo quelle pagine si sappia riconoscere di quelle mogli, quelle autrici, relegate nei salotti “quanto avevano da raccontare” e scrivere, rivendicare, “urlare, cantare, bruciare”, a partire dalla lapidaria condanna, oggi sempre più fragile, secondo cui ≪Genio è un uomo. Anonimo è una donna≫.

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