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Peanuts: Seth e il pellegrinaggio nel senso della vita di Schulz



I Peanuts sono una delle strisce più importanti della storia dei fumetti. Creati da Charles M. Schulz nel 1950, divennero in breve un successo clamoroso in tutto il mondo grazie, soprattutto, alla profondità nascosta dietro la loro apparente semplicità. In Peanuts Snoopy, Charlie Brown e il senso della vita, pubblicato in Italia da La nave di Teseo nel febbraio 2021, importanti scrittori e fumettisti raccontano il loro rapporto con il lavoro di Schulz, in una raccolta di contributi intimi, curiosi e interessanti. Nel seguente estratto l’esperienza del fumettista canadese Seth, intitolata Pellegrinaggio.

***

Schulz

Se c’è una persona che mi ha fatto desiderare di diventare un fumettista, quella persona è stata Charles Schulz. Leggevo i Peanuts prima ancora di capire che qualcuno doveva averli disegnati. Ricordo esattamente il momento in cui il pensiero ha sfiorato la mia mente di bambino. Ho abbassato lo sguardo sull’angolo in fondo a sinistra della tavola che stavo leggendo e ho notato, per la prima volta, quel nome magico: Schulz. 
Provavo un profondo e duraturo amore per i personaggi dei Peanuts. Mi sembravano assolutamente reali, proprio come Emma Bovary, Holden Caulfield, Gregor Samsa e Carlotta il ragno. Ero un bambino socialmente imbranato, e mi rivedevo nei problemi quotidiani di Charlie Brown. Capivo in modo profondamente personale il fallimento garantito di cui era fatto il suo mondo. Era anche il mio di mondo. Alcune delle primissime strisce a fumetti che ho disegnato erano delle imitazioni primitive del lavoro di Schulz. Ricordo che a un certo punto delle elementari ho fabbricato un mio libretto ciclostilato con questi disegni imbarazzati e scopiazzati in modo approssimativo. 

Non ho mai smesso di leggere il fumetto ma crescendo ho iniziato a darlo per scontato. I miei gusti da adolescente mi hanno fatto passare a fumetti di fantasia che avevano a che fare in modo più diretto con il potere come L’uomo ragno o I fantastici quattro. È stato solo dopo i vent’anni, quando ho iniziato a vederli con occhi adulti, che i Peanuts hanno ripreso vita. Nel rileggere tutte quelle vecchie raccolte di fumetti – che a quel punto coprivano l’arco di trent’anni – ho iniziato a riconoscere la saggezza raffinata e la potente critica sociale che erano alla base della scrittura di Schulz. Soprattutto vedevo il fumetto come un poema sull’amore non corrisposto. Lucy per Schroeder, Sally per Linus, Charlie Brown per la ragazzina dai capelli rossi. Un’ode al fallimento e alla solitudine. Le migliori delle vignette singole si leggono come haiku raffinati. Questi personaggi dei Peanuts, così familiari a tutti noi, vagano in uno squallido paesaggio di periferia come esistenzialisti in miniatura. La maggior parte della gente storce il naso davanti ai fumetti – è roba senza pretese intellettuali. E sarò il primo ad ammettere che è quasi sempre così… ma Schulz, lui sì che era un grande artista. Uno di quelli veri. 
Nel 2003 mi sono ritrovato ad andare in visita alla mecca dei Peanuts: Santa Rosa, in California. È lì che Charles Schulz ha vissuto e ha lavorato dalla fine degli anni sessanta. Mi era stato proposto di curare il progetto grafico di una serie di volumi che raccoglievano tutti e cinquant’anni di strisce dei Peanuts. Un lavoro da sogno: non riuscivo a non rivedermi bambino solitario, seduto sul letto, a leggere quei tascabili di Charlie Brown. Adesso avrei avuto un ruolo importante nel prendermi cura del lavoro di una vita di Schulz. Non era un incarico da prendere alla leggera. Avevo ragionato e lavorato parecchio per trovare il design giusto per quei libri, che speravo rendesse giustizia al tranquillo capolavoro che sono i Peanuts. Andavo a Santa Rosa a incontrare la vedova, Jeannie, per ottenere la sua approvazione. 

Con Tania, mia moglie da meno di un anno, ho preso un volo per San Francisco e fatto il check-in in un albergo. L’indomani mattina ci siamo ritrovati pigiati nella macchina sportiva presa a nolo dall’editore Gary Groth. Gary è l’uomo che sta dietro alla Fantagraphics Books di Seattle, la casa editrice di fumetti underground più importante degli Stati Untiti. Si è fatto una reputazione come sostenitore del fumetto innovativo negli anni ottanta e Novanta. La sua azienda si è anche diramata ripubblicando fumetti classici come Pogo e Little orphan Annie. Per anni aveva cercato di ottenere i diritti da Schulz per ristampare i Peanuts al completo, ma Schulz aveva sempre procrastinato il progetto. Chiaramente considerava il suo fumetto una cosa viva. Forse sentiva che pubblicare un archivio della sua opera sarebbe stato più una tomba dei Peanuts che un monumento. Adesso la vedova di Schulz era decisa a erigere quel monumento e a fare pubblicare quei libri. Gary sapeva quanto amavo il fumetto e mi aveva coinvolto nel progetto. 
Gary Groth è una persona molto erudita con un modo di ragionare profondamente cinico. Non è uno di quelli che ti fanno discorsetti d’incoraggiamento prima di una riunione. Grazie al cielo, però, tra lo sforzo di tenere in piedi la conversazione e la paura di morire per la sua guida aggressiva, non ho avuto molto tempo per agitarmi nel tragitto fino a Santa Rosa. Ma quando finalmente siamo arrivati in città, ho cominciato a mettere a fuoco la realtà dell’incontro. Non so cosa mi aspettassi da Santa Rosa – ma nel guardare fuori dai finestrini dell’auto sembrava un unico lungo centro commerciale per turisti. Ho immaginato che quando Schulz si era trasferito lì dalla nevosa Minneapolis, quel posto probabilmente doveva essergli sembrato una sorta di terra promessa baciata dal sole. Di sicuro quel giorno sembrava un caldo pomeriggio di primavera. Quando eravamo partiti, a Guelph, nell’Ontario, c’erano trenta centimetri di neve, e faceva anche un freddo cane. Eppure, Santa Rosa sembrava deprimente come un’area di sosta in autostrada. Nell’attraversarla in auto ho individuato delle statue e dei cartelli di Snoopy e Charlie Brown sistemati con rispetto in ogni spazio pubblico. Schulz era la fonte di guadagno maggiore di quella città. 

In un attimo abbiamo accostato davanti all’indirizzo che sapevo da anni – Numero Uno Snoopy Place, lo studio di Schulz. Sono sceso dall’auto e ho tirato fuori il portfolio dal cofano. Dentro c’erano i disegni per la presentazione che avevo fatto preparandomi all’incontro. Anche se avevo smesso di fumare da anni, ho acceso una sigaretta e l’ho sfumacchiata per rilassarmi. Mi era stato detto che Jeannie Schulz era una persona che diceva quello che pensava. Se non le fossero piaciuti i disegni ero sicuro che lo avrebbe detto. Quel progetto per me era importante, ma sono anch’io un artista. Arrogante a sufficienza da pensare di sapere quale fosse l’aspetto giusto da dare a quei libri. Se avesse respinto le mie idee non avevo intenzione di diventare un semplice esecutore. Dovevo insistere sulla mia visione. Il modo in cui avrebbe reagito avrebbe deciso il mio coinvolgimento nel progetto. 
L’edificio dello studio non era di per sé minaccioso. Una struttura a un piano di mattoni e legno probabilmente costruita nei primi anni Settanta, dall’aspetto più da studio di podologo che studio di artista. Schulz, però, era il meno pretenzioso degli artisti. Probabilmente avrebbe ridacchiato solo sentendo la parola artista. Si considerava un fumettista, un artigiano. Ho sempre ammirato il fatto che per quanto possa essere diventato ricco – e Dio solo sa quanto fosse ricco Schulz – non abbia mai preso assistenti che lavorassero per lui. Per lui la gioia stava nel fare. 
Entrando siamo stati accolti da Paige, il direttore creativo, e dopo una breve attesa siamo stati accompagnati nella sala conferenze dove Jeannie e il suo avvocato lavoravano ai dettagli di qualche altro progetto complicato. 
Ero perfettamente consapevole che quella sala conferenze di fatto era stata lo studio di Charles Schulz. Dopo la sua morte, il tavolo da disegno e gran parte della sua attrezzatura erano stati spostati nel museo dei Peanuts in fondo alla strada, ma mi accorgevo che per la più parte la stanza era rimasta immutata. Diversi dei suoi scaffali erano sempre lì, ancora pieni di libri. Ho dato una scorsa veloce avvicinandomi al tavolo conferenze. Soprattutto classici di riferimento e quello che sembrava un notevole assortimento di libri sulla Seconda Guerra Mondiale. Niente di strano per un uomo della sua generazione. Ho notato anche una scatola di vinili con dipinto sul fianco un ritratto fatto a mano di Schroeder. Alle pareti c’erano dei quadri realistici e tremendamente anonimi di paesaggi naturali. Che ci vedeva? mi sono chiesto. 

Jeannie Schulz era una donna minuta – magra, dalla pelle sottile, ma giovanile. Sulla sessantina, avrei detto. Mentre le stringevo la mano non sono riuscito a dire una parola. Mi sono reso conto che questa donna non c’entrava nulla con il lavoro che ammiravo così tanto. Eppure in qualche modo, adesso che lui non c’era più, essere sua moglie le conferiva qualcosa che me la rendeva affine. Un po’ come l’aura di chi è connesso a un santo dopo che muore. Il paragone è ridicolo, lo so, ma questa visita per me era una specie di pellegrinaggio. 
Mi sono fatto da parte mentre lei e Gary discutevano i dettagli pratici del contratto e dei diritti. Alla fine è arrivato il momento di presentare i miei disegni. Nell’aprire la cartelletta di disegni ho fatto un breve discorso che avevo ripassato più volte a mente per tutta l’ultima settimana. 
Non che io sia un bravo oratore, ma credo di essere riuscito a comunicarle, nonostante il nervosismo, la mia profonda ammirazione per l’opera del marito. Le ho spiegato perché avevo voluto mantenere i miei disegni semplici e austeri, i colori scuri e malinconici. Perché era giusto che quei volumi presentassero i fumetti come la cosa più importante. Volevo prendere distanza dalle tinte accese e dalla sensibilità pop che aveva associato il fumetto a una forma di intrattenimento per bambini. Venticinque anni di speciali televisivi e montagne di merchandising avevano allontanato l’immagine dei Peanuts dal posto che un tempo aveva avuto nella nostra cultura. Negli anni Cinquanta e Sessanta veniva considerato un prodotto sofisticato – con un mix tagliente di cinismo, malinconia e gergo psicanalitico. Durante il breve discorsetto l’ho guardata da vicino. Riuscivo a leggerle negli occhi la sincera convinzione che il marito, Sparky, fosse un genio. 
Qui mi tocca fare una digressione e dire che tutti chiamavano Charles Schulz “Sparky”. Persino io lo chiamavo così, anche se lì non l’ho fatto – l’ho chiamato signor Schulz. 

Jeannie si è limitata a sedersi nuovamente e a guardare quello che avevo da mostrarle. Non ha chiesto nessuna modifica. Non ha commentato granché ma dopo avere finito ho sentito che l’atmosfera dell’incontro era proprio calorosa. Sospetto che vedere i disegni del libro lì davanti a lei abbia trasformato il progetto da idea a realtà. Da quel momento in poi i piani sono andati avanti in modo straordinariamente ottimista. Mentre la discussione proseguiva, mi sono alzato dal tavolo delle conferenze. Riuscivo a visualizzare il punto dove un tempo c’era il tavolo da disegno di Sparky. Lì sul muro c’erano i segni del punto in cui la sedia anno dopo anno aveva toccato il muro. Sono andato in quel punto e, in silenzio, ho guardato la parete. Mettendomi nei panni di quell’uomo, come si suol dire. Ho guardato fuori dalla sua finestra – la finestra da dove doveva avere guardato ogni giorno di lavoro dei suoi ultimi trent’anni. 
La riunione si è chiusa. Paige ci ha accompagnato al museo. Era assolutamente entusiasta e mi ha detto che le cose erano andate bene. Ero un po’ scioccato ma ero contento della cosa. Abbiamo attraversato un parcheggio, poi ci siamo avviati lungo un appezzamento vuoto e un campo da baseball. Un tagliaerba avanzava rumoroso e l’aria era impregnata del profumo dell’erba appena tagliata. Che perfezione, ho pensato, camminare nel campo da baseball di Charles Schulz. Ho valutato l’ipotesi di dirlo ad alta voce – ma sembrava un commento troppo sentimentale. 

Il museo era incantevole ma ero più interessato al palazzetto del ghiaccio dall’altra parte della strada. Schulz lo aveva costruito nel 1969 ed era il suo orgoglio e la sua gioia. Insieme al suo fumetto, probabilmente era il centro della sua vita. Non era il progetto vanitoso e privato di un miliardario – era uno stadio che funzionava a tempo pieno per la comunità, aperto a tutti. La routine quotidiana di Sparky consisteva nel sedersi dietro la vetrata della caffetteria del palazzetto. Il Cucciolo Caldo, che mangiava un caldo muffin inglese con marmellata d’uva (il nomignolo l’ho preso da un libro famosissimo di Schulz degli anni Sessanta che si chiama La felicità è un cucciolo caldo). Ho degli amici fumettisti che sono venuti qui quando era ancora vivo, sapendo che potevano trovarlo al tavolo sul davanti del locale e che sono riusciti a scambiare quattro chiacchiere con lui. 
Io e mia moglie abbiamo scelto un tavolo verso il fondo, accanto a grandi finestre di vetro affacciate sulla pista di ghiaccio. Dietro di noi c’erano, sulle vetrate, disegni di varie figure di Snoopy che sciavano. L’intera caffetteria aveva l’aspetto di un eccentrico chalet di montagna. In pari misura dozzinale e affascinante. Avevo atteso così a lungo quel momento. Avevo attraversato il suo campo da baseball. Ero rimasto in piedi nel punto esatto dove disegnava, e adesso ero seduto nella sua caffetteria. Questo era il posto dove immaginavo che sarei riuscito a stabilire un contatto con quell’uomo. A quel punto è entrato Gary e si è seduto al nostro tavolo. Ci siamo messi tutti a chiacchierare. Non stava andando come previsto. Non voglio mancare di rispetto a Tania o a Gary, ma sapevo che dovevo starmene lì da solo. Ho chiesto scusa e sono uscito nell’arena. 

Ho attraversato la doppia porta e nell’entrare ho sentito una ventata di aria fredda. 
Forse mi ero perso qualcosa non incontrandolo mai di persona. Ma non credo. A volte quando una cosa ti piace molto è meglio non conoscere la persona che c’è dietro. Finiscono sempre per confondersi, la persona e l’opera, e sono situazioni come questa che possono rovinare una cosa così delicata e significativa. Alla fine ero contento di non averlo mai incontrato. Ma era comunque morto. E la cosa lasciava un senso di vuoto nel mondo. 
Sono andato verso la ringhiera e mi sono appoggiato. Sulla pista un gruppo di bambini si allenava a fare coreografie con i pattini. Un bambino continuava a cadere volutamente, poi ha fatto un giro goffo con uno stile che sembrava break dance. Ovviamente era uno stile che si era inventato e ne andava orgogliosissimo. L’aria fredda aveva quell’odore gelido e stantio che senti solo nei palazzetti del ghiaccio. È un odore canadese ed era strano sentirlo lì, nell’assolata California. Era anche un odore dell’infanzia. Mi è presa una certa malinconia: una piacevole tristezza non troppo diversa dal sentimento che si prova quando Charlie Brown dice “Misericordia”. Sapevo che Sparky aveva guardato quel ghiaccio un migliaio di volte ed eccomi là, a fare la stessa cosa nello stesso posto. Mentre guardavo il ghiaccio scarsamente illuminato mi sono limitato a constatare la realtà dei fatti: questo posto era un posto ordinario come qualunque altro al mondo. Qualsiasi cosa stessi cercando qui – questo era il massimo a cui sarei mai arrivato. 


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