«Stranamente mi sembra di vivere, più che in un film o nel già vissuto e nel già visto, in una sorta di parodia della storia; sembra che tutto sia già successo, che nulla possa succedere, o che invece la sorpresa o l’evento siano dietro ad ogni porta chiusa lungo agli interminabili corridoi bianchi o nei volti degli altri ospiti dell’albergo […]».
Stavano per iniziare gli anni ‘80, ancora i social erano di là da venire e la TV era appena diventata a colori. Era un altro mondo, ma già allora Luigi Ghirri – nato in provincia di Reggio Emilia, a Scandiano, formatosi come geometra e divenuto uno dei maestri della fotografia contemporanea – intuiva che, in una realtà sempre più colma di immagini di ogni luogo e tempo, esisteva il rischio che non vi fosse più niente di nuovo sotto il sole. Ma quale antidoto a questa trasformazione della realtà in un colossale fotomontaggio? La risposta di Ghirri è imparare nuovamente la meraviglia, andare alla ricerca di un’ecologia dello sguardo che permetta di cogliere il mondo come una visione che dà ancora stupore.

Proprio da questa idea di educazione allo sguardo come gesto d’amore per ciò che ci circonda nasce la mostra Lezioni di fotografia. Progetto, esercizi e variazioni, curata da Ilaria Campioli e allestita presso il Palazzo dei Musei Civici di Reggio Emilia. Lezioni di fotografia è stata inaugurata il 24 aprile 2025 nell’ambito di Fotografia europea, festival culturale internazionale dedicato alla fotografia contemporanea che coinvolge tutta la città.
La mostra prende spunto proprio dal tema conduttore di questa manifestazione – che nell’edizione 2025 sarà «Avere vent’anni» – per sviluppare, in un continuo dialogo tra antico e moderno, una riflessione sulla fotografia ma anche, più in generale, sui processi di conoscenza mediati dalle immagini.
Come mai mettere al centro proprio i giovani? A Marco Mietto, assessore alla cultura e alle politiche giovanili del comune di Reggio Emilia, è sufficiente un numero per rispondere: «L’anno scorso 200.000 persone sotto i 25 anni hanno lasciato l’Italia. Si tratta di un problema politico che non può essere affrontato con proposte assistenziali e paternalistiche.» Così, mentre secondo l’assessore «Pochi, al giorno d’oggi, sono disposti a farsi maestro in senso autentico», l’ispirazione iniziale della mostra sono le lezioni tenute da Ghirri all’Università del Progetto di Reggio Emilia tra il 1989 e il 1990. Le Lezioni di fotografia – diventate un libro grazie al prezioso lavoro di Giulio Bizzarri e Paolo Barbaro ed edite nel 2010 per Quodlibet; poi, curiosamente, tradotte in coreano (2020 Youlhwadang publisher) e giapponese (2014, Misuzu Shobo) – sfuggono a una definizione univoca. Si tratta infatti della costruzione di un’unica grande storia delle immagini, all’interno della quale la fotografia, nelle sue diverse declinazioni, ha il fondamentale ruolo di «linguaggio per porre delle domande sul mondo».
Se nel volume l’apparato iconografico è stato ricostruito dai curatori, in mostra sono esposte le diapositive originali che Ghirri proiettava durante la sua attività di insegnamento, recente e prezioso ritrovamento avvenuto alla fototeca della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia.
Vengono poi presentate le opere a cui il fotografo si dedicava in quegli anni, in particolare tratte dai libri Paesaggio italiano e Il profilo delle nuvole. Sono due volumi del 1989, ma entrambi contengono anche numerosi lavori degli anni precedenti: «Ci interessava – osserva la curatrice – riflettere su cosa significa davvero trasmettere una visione. Insegnare conduce anche a rileggere la propria opera, vedendo il lavoro svolto attraverso gli occhi degli studenti.»

E così eccoci, immersi nel lirismo gentile delle fotografie di Luigi Ghirri. Che si tratti delle forme piene della grande piramide verde disegnata sulle pareti blu del castello di Rivoli a Torino, del leggero movimento delle tende nella stanza di Caruso a Sorrento o della quiete pomeridiana in una classe elementare di San Maurizio, le immagini di Ghirri chiedono tempo e attenzione, forse in alcuni casi persino fatica. Eppure, proprio per questo, restituiscono qualcosa di estremamente prezioso in un mondo di caos e stimoli continui: sanno regalare un momento di pausa. Per un istante quella quinta teatrale che ci separa dal reale cade e la frammentazione pare ricomporsi. Sappiamo di nuovo vedere. Riacquisiamo la sensazione di poter conoscere con affetto – e non soltanto sfiorare sbadatamente – il mondo che abitiamo.
Intanto, mentre ci affacciamo alle porte spalancate nell’atmosfera sospesa e quasi onirica del palazzo Ducale di Sassuolo, iniziamo a comprendere poco a poco l’ostinata delicatezza di lavori che, nella loro apparente semplicità, portano in realtà in sé riferimenti culturali vastissimi. In quella luce nitida ed esatta c’è anche, come in ogni fotografia di Ghirri – che era un pensatore a tutto tondo e non semplicemente un ottimo fotografo in senso stretto –, un dialogo continuo con le arti e la letteratura del Novecento, dal dadaismo all’arte concettuale, dalla pop art ai fotografi della scuola americana e francese.
«Ognuna di queste riprese è una finestra sul mondo. Ma riguardo questa definizione bisogna fare attenzione: Ghirri è spesso identificato come il fotografo dei colori pastello, dell’immagine lattiginosa e nostalgica, della “bella foto”. Queste opere, invece, sono finestre sul mondo anche in senso etico. Luigi Ghirri ha voluto insegnare a prendersi cura della realtà prendendosi cura della sua rappresentazione» aggiunge Ilaria Campioli.
È questa, dunque, l’idea alla base della mostra ma anche, più in generale, il valore politico dell’offerta culturale del Comune: «Parlando dei Giochi Olimpici, Pitagora osservò che gli esseri più nobili e autenticamente umani non sono gli atleti che cercano la fama nelle gare sportive, ma quella categoria di persone che, non cercando né applausi né il guadagno, ci vanno come spettatori e osservano attentamente ciò che avviene e come avviene. Ecco, è proprio questa intima e appassionata contemplazione che ci serve. Sprofondati come siamo nella metamorfosi del mondo, abbiamo un disperato bisogno di teoria (da thea, spettacolo e horan, osservare) nel suo significato più pieno» osserva l’assessore. «Più i cittadini sono disarmati, più sbattono la testa contro il dolore. È necessario mettere a disposizione delle persone occasioni di ripensamento, di contemplazione. La gente deve poter esercitare la propria capacità di guardare, in tutti i sensi. Penso sia vero che, come dice Sherlock Holmes, “molti delitti restano impuniti, caro Watson, perché la gente crede nei fatti”: il problema è andare oltre il fenomeno, non accontentarsi dell’apparenza. La fotografia, e così ogni forma di arte, è uno strumento di rovesciamento del banale.»

Come scrive Gianni Celati, amico di Ghirri e importante scrittore del secolo scorso, «Il mondo prende forma perché qualcuno lo osserva. Prende forma quando qualcuno sente il desiderio di contemplarlo… Non di invaderlo o massacrarlo per farsi strada.» Ma come trasmettere questa capacità di contemplazione – e dunque di rappresentazione – a chi è cresciuto in un mondo di immagini tanto numerose quanto stereotipate e, in fondo, effimere? «L’equilibrio si costruisce su fatti veramente minimi, come […] il fatto di riuscire, ad esempio, a individuare il momento in cui si intravede la luce del cielo…» diceva Ghirri.
Ed è a questo punto che subentra un altro tema centrale: quello degli esercizi. È proprio la pratica dei “compiti” a essere al centro della riflessione di Luca Capuano e Stefano Graziani, i due artisti contemporanei il cui contributo costituisce un’altra sezione della mostra. Così, giocando su quella soglia sottile tra la rappresentazione e la realtà che si nasconde dietro di essa, Capuano e Graziani hanno operato su due ordini differenti. Oltre a confrontarsi con le lezioni di Ghirri (attraverso una serie di fotografie che ne ripercorrono il lavoro e i luoghi), hanno seguito l’idea, propria di molti autori contemporanei come Sol Lewitt, che esercizi e istruzioni possono essere lo stimolo di partenza per lo sviluppo delle proprie opere. Fondamentale è quindi la variazione, quello scarto anche minimo che ci fa percepire come la fotografia sia la narrazione di una contingenza, il racconto vivo del continuo passaggio da uno stato a un altro. «È come se si trattasse di uno spartito musicale», aggiunge la curatrice.
C’è una serie di regole e ci sono i mutamenti che da esse si possono generare – un semitono in meno, una diversa inclinazione di luce. L’udito si fa più acuto, la vista ricomincia a distinguere. La variazione affina la percezione, la regola è stimolo verso il cambiamento. Proprio questo concetto è alla base del laboratorio condotto dai due artisti assieme a un gruppo di studenti e studentesse di Isia (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche) di Urbino, i cui risultati sono esposti in questa sezione della mostra. Sono però molteplici le generazioni di studenti che dialogano nei corridoi dei Musei: il ruolo che il medium riveste all’interno delle accademie, fin dalle origini, è approfondito nella terza sezione attraverso un nucleo di preziose fotografie storiche provenienti dalle raccolte del Liceo artistico “Gaetano Chierici” di Reggio Emilia.

Si tratta di vedute di variegati paesaggi italiani e di monumenti (dalle inedite carte salate di Caneva alle albumine di Sommer, Pozzi, Simelli e degli Alinari), ma anche di riproduzioni di opere d’arte (come i cartoni preparatori per la scuola di Atene di Raffaello ritratti da Marville o l’affascinante testa di vecchio della scuola di Leonardo fotografata da Braun). Sono immagini che, utilizzate dagli studenti d’arte degli istituti di formazione del paese per esercitarsi nel disegno (un’altra sequenza raffigura una serie di foglie gessificate utili a insegnare il chiaroscuro) rivestivano anche il fondamentale compito di formare il gusto di un’Italia ancora giovane. In questi contesti le fotografie sono in primo luogo strumenti di lavoro che presentano segni di quadrettature, schizzi e appunti. La componente materica della fotografia, perciò, è tanto importante quanto ciò che rappresenta. «Ci interessa – conclude Ilaria Campioli – che nelle nostre mostre l’archivio e la contemporaneità dialoghino. Il repertorio è vivo, se si impara come guardarlo.»
Un’ultima sezione, anch’essa legata al patrimonio storico dei Musei, presenta numerose diapositive su lastra di vetro della fine dell’Ottocento, un dispositivo divulgativo e didattico di grande importanza non solo in ambito strettamente scolastico. Altre finestre sul mondo, dunque, alle quali possiamo affacciarci.
Ghirri diceva che le sue lezioni assomigliano più alla stesura di una carta geografica che a un percorso lineare, una sorta di «mappa in cui ciascuno può trovare la propria strada». Nella sua stratificazione complessa e affascinante, anche la mostra Lezioni di fotografia. Progetto, esercizi e variazioni funziona proprio in questo modo. E così anche noi – nuovamente allievi grazie a questi frammenti di tempo e spazio dei quali abbiamo la possibilità di riappropriarci – sentiamo che, se impariamo a vedere, non vi è, in realtà, niente di antico sotto il sole.