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La regina degli scacchi, anatomia di un successo



Sbucata (quasi) dal nulla e apparsa sulle homepage di milioni di utenti Netflix nell’ultima settimana di ottobre 2020, La regina degli scacchi, miniserie che racconta la fulminante ascesa della finzionale enfant prodige Beth Harmon, è il tipico prodotto “a sorpresa” della piattaforma di Los Gatos: tratta da un libro non particolarmente di culto (scritto da Walter Tevis nel 1983, in Italia edito da Minimum Fax), con una protagonista emergente ma non ancora celebre (la 24enne Anya Taylor-Joy) e un’ambientazione, quella degli scacchi agonistici, non immediatamente carismatica. Nel giro di qualche settimana, però, La regina degli scacchi è diventata la serie limited (che un poco impropriamente si può tradurre con miniserie, ovvero un prodotto seriale che non preveda sequel) più vista della storia di Netflix. Un record da prendere con le pinze, dal momento che per politica aziendale la piattaforma non fornisce dati effettivi sul numero di spettatori; ma che pare empiricamente confermato dall’onda lunga di passaparola che la serie di Scott Frank ha generato sui social da ormai quasi due mesi (per non parlare dell’impennata di iscrizioni a siti specializzati nel gioco degli scacchi, ritornato prepotentemente di moda).

La regina degli scacchi

Il valore artistico di La regina degli scacchi ci interessa relativamente: curata nella confezione, nei dettagli della scenografia, nella rappresentazione del gioco (il Grande maestro Kasparov in persona ha contribuito, come consulente, all’assoluta esattezza di ogni mossa inquadrata), nel trucco & parrucco e nella squillante tavolozza (ispirata, parola di Scott Frank, ai colori dei film di Douglas Sirk), la miniserie segue lo standard estetico Netflix nel far prevalere l’aspetto narrativo su quello della messa in scena, che quindi non si discosta troppo dall’uniforme medietà dei Netflix original, attuando i classici stratagemmi per rivolgersi a un pubblico ampio e distratto (la piattaforma conosce i suoi polli): si pensi all’escamotage reiterato sino alla stucchevolezza della raffigurazione “mentale” degli scacchi di Beth, che fa comparire un’enorme scacchiera sul soffitto della stanza.

La regina degli scacchi diventa però uno degli oggetti audiovisivi più interessanti della stagione nel suo intercettare e rendere visibili certe tendenze del linguaggio e dell’industria seriale contemporanea, che ne fanno un prodotto emblematico. Prima fra tutte, la struttura: suddivisa in sette episodi di lunghezza variabile (dai 46 ai 67 minuti), La regina degli scacchi incarna il nuovo canone per la fruizione tramite binge watching, con una durata complessiva di circa sei ore che ben si presta alla visione in una o pochissime sessioni. Una “visione da weekend” di cui Netflix, nel pur vasto panorama dello streaming, si pone ancora come principale, se non unico, offerente: la misura perfetta per ambire all’errata ma tentatrice definizione di “film a puntate”, appetibile e incentivante per il non-abbonato che, su consiglio di amici o algoritmi, decida di sottoscrivere il mese di prova proprio per consumare quel prodotto (più lungo di un film normale, ma non troppo lungo, con una storia che promette di finire con l’ultimo episodio e di non impegnare lo spettatore in visioni di seguiti, spinoff etc. etc.). Da questo punto di vista, La regina degli scacchi è il biglietto da visita ideale per una piattaforma che basa la sua floridità sulla fidelizzazione, ma anche sull’acquisizione di nuovi abbonati.

La regina degli scacchi

La “parentela” di La regina degli scacchi col cinema è assai rilevante; la qualità cinematic della serialità contemporanea aumenta l’appeal verso un pubblico cinefilo e in cerca di narrazioni strutturate e stratificate, senza contare il dato meramente contingente della pandemia in corso, che ha azzerato per milioni di persone in tutto il mondo la possibilità della visione in una sala cinematografica. Ecco allora che una limited series, dalle ambizioni cinematografiche e dalla durata contenuta, può conquistare l’attenzione anche dello spettatore non spassionatamente seriofilo e, forse, perfino degli scettici (in Italia un ruolo importante l’ha giocato, a pochi giorni dal lancio della serie, la concomitanza con la creazione delle zone arancioni e rosse, che riportando molti spettatori in una condizione di semi-lockdown ha contribuito alla duratura popolarità della serie). E in effetti non si può negare l’appeal cinematografico dell’opera di Tevis, autore eclettico dai cui romanzi erano già stati tratti titoli come Lo spaccone e L’uomo che cadde sulla Terra; negli anni Zero era stato Heath Ledger a esprimere la volontà di portare La regina degli scacchi su grande schermo, con Elliot Page come protagonista.

Si tratta, in fondo, di un classico esempio di genere sportivo, che la miniserie fa suo confezionando ogni episodio intorno a un match chiave per la carriera di Beth Harmon, e convogliando la tensione narrativa intorno all’esito della partita. La vita della protagonista, orfana adottata in età adolescenziale e dipendente dagli psicofarmaci, scorre di episodio in episodio in quella che, in altre tipologie di serie, chiameremmo la trama orizzontale; ma la struttura verticale delle puntate si impernia infallibilmente sulla preparazione al singolo match, con i preliminari (partite di minore rilievo, difficoltà eventuali nell’affrontare la gara), la presentazione del rivale di turno, la costruzione dello scenario che si fa via via più sofisticata (e di pari passo lo diventa il look di Beth) e infine la sequenza chiave con lo scontro davanti alla scacchiera, invariabilmente punteggiato dai flashback di Beth che le ricordano come muoversi o quando è il momento di arrendersi. Di gara in gara, di puntata in puntata, si alza la posta in gioco, in termini monetari, emotivi e di prestigio; il meccanismo non è diverso da qualsiasi parabola sportiva cinematografica (da Rocky a Rush, dal baseball al pattinaggio artistico al biliardo), e ancora una volta ci teniamo a sottolineare la rilevanza del peculiare momento storico che stiamo vivendo: nel grande pubblico di La regina degli scacchi sono forse convogliati anche quegli spettatori in astinenza rispetto alla tensione gratificante dell’assistere agli eventi sportivi che nel 2020 hanno subito pesantissime cancellazioni (si pensi solo alle Olimpiadi), e che nella miniserie hanno trovato una campionessa da seguire nel suo formidabile percorso di vittorie (e di sconfitte, inevitabili per rendere efficace il racconto e costruire la credibilità del personaggio).

Un altro e significativo aspetto della miniserie è il suo porsi come ideale, e per certi aspetti inedito, anello di congiunzione tra i contenuti cupi e complessi della cosiddetta prestige tv e la politica contenutistica di Netflix. Beth Harmon è, infatti, uno dei rari corrispettivi femminili (un altro esempio, lampante, è la Jodie Comer/Villanelle di Killing Eve) di quelli che vengono etichettati come difficult men nelle serie degli ultimi due decenni: uomini imperfetti, carismatici ma profondamente disfunzionali, sovente incapaci di conciliare il proprio talento con una dimensione affettiva devastata. Sono Tony Soprano, Don Draper, Walter White: brillanti, magnetici, efficienti nel lavoro, ma pessimi padri, mariti disastrosi, dominati da un ego divorante, dall’ambizione, dalla dipendenza dall’adrenalina e spesso incapaci di esprimere le proprie emozioni. Beth è una di loro: tossicodipendente e alcolizzata, resa anaffettiva da un trauma familiare che ha lacerato la sua infanzia, macina un successo dopo l’altro sul fronte della scacchiera ma nel privato sa essere crudele e gelida, commette errori, usa le persone. Eppure siamo costantemente portati a fare il tifo per lei, difficult woman piena di luci e ombre,  che si scrolla di dosso un buon numero di stereotipi femminili. Beth non è madre, non è moglie, non è una damsel in distress, non è una seduttrice, non è una preda né una cacciatrice; da questo punto di vista, sotto la superficie di una serie dall’andamento narrativo piuttosto convenzionale, La regina degli scacchi sposa l’intento progressista e perfino pedagogico di molta serialità targata Netflix, che da Sex Education a Non ho mai…, passando per i prodotti firmati da Ryan Murphy, tenta di abbattere – talvolta in modo didascalico – alcune convenzioni narrative sulla donna (e non solo).

La regina degli scacchi

Negli anni che la miniserie racconta, quelli del passaggio dall’infanzia all’età adulta, la vita di Beth non è segnata da alcun rapporto romantico particolarmente rilevante; la sua autodeterminazione e la sua costruzione identitaria passano, piuttosto, dall’importante relazione paritaria e complice con la madre adottiva; da quella, altrettanto paritaria, con l’amica storica Jolene; e, infine, dalla rete amicale che si è costruita negli anni e che risulta determinante nell’ultimo atto della sua sfida in Russia. Beth non è mai presentata come un oggetto del desiderio, ma come donna desiderante (in quest’ottica si può leggere anche il pur banale processo di makeover costante che la trasforma, dal “brutto anattrocolo” del primo episodio, in altero e stilosissimo cigno verso il finale), assertiva, determinata nel vivere le sue esperienze, anche erotiche, con libertà e senza stigma; non sono le sue relazioni romantiche o sessuali (se ne contano tre, di cui una con una donna) a definire il suo percorso o a renderla completa, anzi risultano del tutto accessorie rispetto ai succitati legami fondanti (cui si aggiunge, con tardiva agnizione, quello col mentore bidello che l’ha iniziata al gioco e che, si scopre, l’ha sempre considerata quasi come una figlia putativa). Un personaggio piuttosto raro, e certamente emblematico dell’evoluzione delle narrazioni contemporanee sul piccolo schermo.

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