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Il Feff di Udine alla 25esima edizione. Visioni e suggestioni



«No France, yes Italy!», ha scherzato all’incontro con la stampa Chang Hang-jun, regista del film sudcoreano Rebound (2023), presentato in anteprima al Far East Film Festival (Feff) di Udine e vincitore del Gelso d’Argento.

Al di là di possibili partigianerie, Chang si riferisce all’accoglienza che gli ha riservato Udine, dove il Feff è arrivato alla 25esima edizione con un cartellone sempre più ricco e uno sguardo a tutto tondo sulla cinematografia asiatica – e non solo. Le vie lastricate di sanpietrini della città si ritrovano ad accogliere infatti una serie di attività collaterali, che vanno dalla dimostrazione di arti marziali, al massaggio thai a mani e piedi, alla caccia ai Pokémon. I titoli in competizione sono più di 40, con una rappresentazione più ampia possibile, con lo scopo dichiarato dagli organizzatori di «restituire la complessità dell’Asia», e specialmente come le industrie cinematografiche dei vari Paesi si sono riprese dopo la pandemia. Già dal primo fine settimana sono emerse visioni e suggestioni da prospettive completamente diverse.

Rebound, dal Feff

Il Feff è un festival “piccolo”, per la dimensione puramente fisica, e gigantesco insieme per le ispirazioni che vi convergono. E per il cuore: non a caso un film come Rebound è stato molto apprezzato dal pubblico. La storia di una scalcagnata squadra liceale di basket, che arriva in finale con solo sei giocatori riempie lo spettatore di gioia genuina. Con la star del kpop Jeong Jin-woon («Se si siede davanti a noi, io muoio!», ha bisbigliato una voce tra le file del teatro), il film regge per due ore il ritmo sfiancante di un torneo. Lo schema è abbastanza classico, la vicenda che racconta è reale: l’onestà e la freschezza della scrittura, che non chiede di essere niente di più, rendono la pellicola accattivante, divertente e con quella giusta dose di melensaggine che ci si aspetta da un’opera del genere. La sceneggiatrice Kim Eun-hee da anni scrive serie tv (ha firmato anche la serie su Netflix Kingdom), e per l’occasione è tornata ai lungometraggi: il regista è il marito, e hanno riso insieme del fatto che grazie al legame di parentela Kim, che è un’autrice rinomata e molto pagata, è venuta incontro alla produzione per il compenso. Sono anche questi dettagli dietro le quinte che danno la misura dell’atmosfera in cui nasce un film, e si traducono in un qualche modo nella realizzazione.

Una scoperta interessante di questo festival è il titolo mongolo The Sales Girl di Janchivdorj Sengedorr, vincitore del premio degli spettatori di MyMovies. Presente per la seconda volta al Feff, la Mongolia rappresentata è quella meno conosciuta: come ha osservato Sabrina Baracetti, direttrice artistica del Feff nel presentare l’anteprima, per una volta non sono raccontate le steppe, ma la vita metropolitana, che è vibrante come quella di una qualsiasi città. È un coming of age delicato e scanzonato: sostituendo una conoscente per un breve periodo di tempo come commessa in un sexy shop, la giovane Saruul stringe un legame con la proprietaria del negozio, che la porta a conoscere i molteplici significati del vivere. Per sé, senza appaltare agli altri una qualche forma di controllo. Il mondo di Saruul, accompagnato da una musica in cuffia che la scherma dalla realtà, si apre sempre di più, ma senza stravolgerla. Un unico, necessario, disclaimer: le pillole di Viagra, oggetto di una gag ricorrente, vanno utilizzate responsabilmente. 

Marry my dead body. al Feff

Sorprendente è il taiwanese Marry my dead body di Cheng Wei-hao. Una premessa assurda: un poliziotto arrogante e omofobo si ritrova sposato con un fantasma, per un’antica tradizione che la nonna dello scomparso ha rimesso in piedi. Eppure, la contemporaneità in questo film riesce ad affiancare le credenze di una volta: qualche cenno al cinema horror, molto film poliziesco e su tutto, una commedia. Marry my dead body si muove tra diversi registri, permettendo al suo protagonista, inizialmente scritto come uno stereotipo, di crescere e aprirsi alla conoscenza dell’altro. 

December, al Feff

Di tutt’altro stampo il giapponese December di Anshul Chauhan, un procedurale che non punta a trovare un colpevole, ma invita lo spettatore a ragionare senza schemi sul senso della giustizia, e quanto questa si possa tradurre efficacemente in una sentenza. Arriva qualche anno dopo Il terzo omicidio di Koreeda, che affrontava la questione della pena di morte, prevista nel sistema giudiziario del Giappone. Qui non è sul tavolo, dal momento che l’imputata era minorenne al momento dell’omicidio; ora sono passati sette anni, che la giovane ha passato in carcere, e il suo avvocato cerca un nuovo giudizio non per accertarne la colpevolezza, che è sicura, ma per contestare la procedura del precedente processo, che non ha tenuto conto delle attenuanti. Al cuore della pellicola, i due genitori della vittima, separati dopo il lutto, che devono fare i conti con la possibile libertà della ragazza che ha ucciso la figlia. In Giappone, ricorda il programma, il 99% dei processi si conclude con una sentenza di condanna. Metodi di interrogatorio durissimi, pene pesanti: è un sistema giudiziario particolarmente punitivo; da qui la necessità del cinema di indagare gli aspetti emotivi che influiscono sul corso della giustizia, e porre al pubblico domande complesse. Qual è il senso di una pena, qual è l’occasione della redenzione. La macchina da presa rimane sempre vicina ai volti dei protagonisti, ricordandoci che si tratta di vicende umane; solo in due occasioni si distacca, per una visuale dall’alto, sfidando lo spettatore a giudicare. Le risposte non sono scontate.




Immagine di copertina: (c) Anna Maniscalco
Immagini nel testo: credits Far East Film Festival


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