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Game of the Year, nel ventre dei videogiochi



Game of the Year, di Alessandro Redaelli, è il primo documentario a raccontare il mondo del gaming in Italia. Ci sono state in precedenza, sul versante internazionale, alcune operazioni comparabili con questa, come il noto Indie Game: The Movie (2012), che contribuì a estendere l’analisi discorsiva sulle produzioni indipendenti videoludiche. A suo modo anche il documentario di Redaelli si propone come uno sguardo ai margini, visto che l’Italia è solo una piccola pedina sullo scacchiere internazionale dell’industria videoludica.

Game of the Year

Game of the Year, vincitore come miglior film italiano al Biografilm Festival, è – consapevolmente o meno – una delle migliori prove per attestare la maturazione della discorsività che ruota intorno al medium videoludico. Il documentario di Redaelli ha infatti la possibilità di porsi al di fuori da certe dinamiche oppositive che negli ultimi anni hanno caratterizzato, in forma polarizzante, le varie panoramiche sul mondo dei videogiochi. Da un lato si erano infatti susseguite sequele di attacchi, spesso molto più legati al moral panic del momento che alle effettive problematiche del videogioco, in cui si presentava l’ambiente videoludico come un qualcosa di “pericoloso”, per varie ragioni. Agli albori dell’industria videoludica questi discorsi si soffermavano molto sulla violenza e propagandavano uno stretto legame tra le azioni videoludiche (spesso basate su sparatorie, pestaggi, ecc.) e la violenza nella quotidianità. In tempi recenti sono emerse polemiche analoghe, seppur legate a differenti temi, ma l’approccio di fondo rimane lo stesso, quello cioè di screditare aprioristicamente il medium. D’altra parte, tuttavia, sono periodicamente emerse levate di scudi che – anche per opposizione – vanno a elogiare aprioristicamente il mondo dei videogiochi. Molte di queste argomentazioni sono fondate sulla fallacia della conclusione irrilevante, attraverso il ricorso ai numeri del settore videoludico. È vero che i videogiochi stanno vivendo una crescita costante, così come è vero che stanno conquistando sempre più segmenti di pubblico, ma da queste premesse si può trarre la conclusione che essi non debbano essere ignorati, non la conclusione che essi non abbiano difetti. In caso contrario non si spiegherebbe – giusto a titolo d’esempio – il dibattito sul fenomeno del looting e dei sistemi free-to-play, che alcuni accomunano al gioco d’azzardo. Oppure la “tossicità” – sebbene sia ormai un termine abusato – di certe communities legate al gaming, altro tema di attualità che meriterebbe una riflessione lontana tanto dal moral panic allarmistico quanto dalle difese d’ufficio del medium.

Questo è lo scenario che innerva un gran numero di discorsi sui videogiochi. Negli anni la polarizzazione tende a spostarsi, ma nella maggior parte dei casi permane. Ecco perché il documentario di Redaelli è di particolare interesse. Non tanto perché si occupa del panorama videoludico italiano, su cui pure si diranno due parole in seguito, ma perché propone un approccio neutro, che si potrebbe definire intimo.

Game of the Year segue alcune tipologie di figure che ruotano intorno al mondo del gaming. Ci sono gli sviluppatori, coloro che rendono possibile l’esistenza stessa dei videogiochi attraverso il loro lavoro. Ma ci sono anche i content creators che operano su YouTube e altre piattaforme, che con il loro operato portano a diffondere determinati videogiochi. Il caso di Sabaku no Maiku (Michele Poggi) è emblematico: in Italia il suo volto è indelebilmente associato ai prodotti della software house FromSoftware, con la trilogia di Dark Souls in particolare. E poi ci sono i proplayers, coloro che videogiocano competitivamente per professione. Sul fronte degli e-sports l’Italia non è un paese all’avanguardia, considerando che altrove essi sono molto più diffusi, ma ha comunque un interessante primato: nel 2004, infatti, la giornalista Alessandra Contin pubblicò Skill (nella collana Stile Libero di Einaudi), un romanzo che rimane tutt’ora la più puntuale e lucida profezia sul futuro delle competizioni videoludiche, scritto in un momento in cui i tornei di videogiochi erano già presenti da tempo, ma ben lontani dalle logiche attuali.

Tornando a Game of the Year, come accennato, Alessandro Redaelli propone un approccio non solo più distaccato, ma anche più intimo. Non mira, insomma, né a glorificare i traguardi dell’industria né a demonizzarne l’operato. Ciò che propone è piuttosto uno sguardo sulle figure che sono coinvolte nei processi di realizzazione, comunicazione e performatività del videogioco.
La scelta dei team di sviluppo costituisce un buon esempio di questo approccio. La realtà italiana dello sviluppo di videogiochi è piuttosto particolare, come ha mostrato fra gli altri il volume miscellaneo Il videogioco in Italia, a cura di Riccardo Fassone e Marco Benoît Carbone (Mimesis, 2020). Si tratta infatti di un territorio di consumo, più che di produzione, in cui sono certo presenti diversi team di sviluppo, ma nella maggior parte dei casi sono realtà piuttosto contenute, con pochi membri e che si occupano di progetti con budget ridotti. Coerentemente sia con questo panorama sia con l’intento di offrire uno spaccato equidistante, il documentario non ha puntato sulle eccezioni, sui team più grandi che sono capaci di raggiungere perlomeno le produzioni “doppia A”. Soffermarsi sulle “eccellenze” numeriche (per budget, numero di persone coinvolte nei team, ecc.) sarebbe stata una scelta sensata, ma avrebbe probabilmente veicolato fin troppo un discorso “promozionale” sul mondo dei videogiochi in Italia. Sono stati invece scelti team come Yonder e Kibou Entertainment, ovvero delle realtà che hanno saputo farsi conoscere anche all’estero e conquistare importanti nicchie di giocatori, ma che mostrano comunque un approccio da piccolo team, per certi versi artigianale, e che sono pertanto una rappresentanza più onesta di quella che è la media delle produzioni italiane.

Nel caso degli sviluppatori, così come delle altre categorie rappresentate, vengono mostrate le gioie ma anche le preoccupazioni, le ascese vorticose in cui da un giorno all’altro si raggiunge la notorietà e la paura che la fama svanisca altrettanto improvvisamente, o i sacrifici (economici e temporali) fatti pur di continuare a seguire la propria passione di sviluppare videogiochi. Con la consapevolezza che, a in queste professioni e soprattutto in Italia, non c’è quella progressione lineare di ricompense su cui si basano le meccaniche di molti prodotti videoludici.





Credits: Game of the Year

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