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Fantasmi a corte. Spencer di Pablo Larraín




«Una fiaba da una tragedia vera».


La frase in esergo che apre Spencer di Pablo Larraín, presentato alla Mostra di Venezia, ne contiene già tutte le caratteristiche peculiari. Trattandosi di un film ispirato ai tre giorni che Diana Spencer trascorse con i Windsor a Sandringham House per le feste natalizie del 1991, non poteva esimersi dal basarsi su fatti di cronaca. Ciò che però interessa maggiormente il regista cileno (e lo sceneggiatore britannico Steven Knight) è l’insieme variegato delle sensazioni che la Principessa del Galles maturò in quel brevissimo lasso di tempo. Un’avventura fantastica, ma solo nel senso di vissuta dallo spettatore tramite l’alterata percezione dell’eroina protagonista, e perciò fiabesca. Una serie di vicissitudini precisamente inanellate e intensamente messe in scena. Un’opera di finzione che non inventa una storia somigliante alla realtà, semmai racconta la realtà come una storia antica.

Il linguista e antropologo russo Vladimir Propp, che catalogò centinaia di fiabe e per meglio analizzarle ne sviluppò un noto schema morfologico, ci avrebbe sicuramente visto qualcosa. In primo luogo, un equilibrio già spezzato in partenza. Diana giunge nella residenza di campagna della famiglia reale da sola e in ritardo. Uno smacco inaccettabile per persone abituate a seguire un rigidissimo protocollo. Subito si imbatte in una serie di potenziali antagonisti, fra i quali spicca il Maggiore Gregory, ufficialmente preposto a osservare e riportare. Ma anche la sarta Maggie, che Diana considera amica e che al tempo stesso sembra aver sparlato di lei con il resto del personale. Non vanno poi dimenticati i componenti della famiglia, dal marito Carlo alla suocera coronata Elisabetta, spesso citati o rappresentati come Loro, ovvero un’unica entità sinistra.

Spencer

Tuttavia, gli stessi Gregory e Maggie vengono messi in condizione di aiutare la protagonista e in un  certo qual modo non rinunciano. Il primo le fa trovare in camera un libro su Anna Bolena, la regina tradita e decapitata da Enrico VIII nei confronti della quale la giovane sentirà una sorta di identificazione che aprirà le porta della ribellione, mentre la seconda le ricorderà di essere amata. Il progetto di Larraín, quindi, non sembra essere quello di prendere a priori le parti della donna, ma piuttosto di realizzare la fotografia di una complessità psichica e sentimentale. La fragilità di Diana, naturalmente e splendidamente interpretata da Kristen Stewart, diventa perciò prisma riflettente di un discorso più ampio su verità e menzogna, libertà e responsabilità, desiderio e potere. Spencer si rivela sì una fiaba, ma soprattutto per la puntualità con cui metaforizza il nostro mondo.

In questo senso il cinema, con una Sandringham House che sembra l’Overlook Hotel, si conferma una casa infestata di spettri. Mostra un presente che è ancora passato ma ormai anche futuro. «Pensi che mi uccideranno?», chiede Diana al cuoco che le va incontro sulla strada all’inizio della pellicola. «Qui tutto è organizzato, come se fosse già successo», commenta invece di fronte alla sarta. Sta parlando prima del suo ritardo e poi del protocollo, ma chiunque conosca la vicenda di Lady D. sente anche altro: una premonizione. Il dolore di sapersi tradita (l’affaire Camilla) e schiacciata da un sistema più grande e il disagio di trovarsi sotto i riflettori si manifestano prima con la bulimia, che al tempo era già nota, e poi in una vera e propria paranoia. Lungo l’intero minutaggio del film sentiamo la protagonista fare affermazioni legate alla fine, alla morte, però anche a una partenza

Spencer

«Avrei potuto proseguire, sai… guidare e basta». Il bisogno di fuga, di quell’aria e quella luce che orari restrittivi e tende chiuse a causa dei fotografi non le permettono di sentire. Come un uccello chiuso in gabbia, o meglio un fagiano predestinato alla battuta di caccia, Diana Spencer si aggira per i corridoi di un palazzo in cui si perde pur conoscendolo alla perfezione. Così come non aveva riconosciuto, quando è arrivata, le campagne in cui era cresciuta. Ecco che il finale, nuovamente in auto – accompagnato dall’unico pezzo pop della colonna sonora in contrasto con il precedente e significativo amalgama barocco-jazz di Jonny Greenwood – acquista l’aura di una liberazione. C’è una madre che porta i suoi ragazzi a mangiare junk food lungo il Tamigi, guardando un orizzonte che saprà riservarle solo altra sofferenza ma che per il momento è mitigato dal gioco e dai sorrisi. 

Non è il solito biopic, Spencer, ma il viaggio nel cuore di tenebra di un personaggio. Tramite la scelta di un’attrice diversa eppure uguale – «Non per l’aspetto fisico – ha spiegato Larraín – ma per le emozioni che trasmette» – a Diana, l’autore di racconti biografici già anomali quali Neruda (2016, dedicato al poeta premio Nobel) e Jackie (2016, sulla signora Kennedy) ignora il modello cronachistico del genere per abbracciare gli stilemi della ghost story. Il corpo fragile dell’attrice statunitense, la sua voce vibrante, i gesti nervosi e lo sguardo sfuggente catalizzano energie registiche e attenzione del pubblico sulle reazioni della protagonista alle pressioni. Ne deriva un film imprevedibile, intenso come un’opera brechtiana e teso come una corda di violino. Quanto all’Oscar mancato per Stewart, di sicuro ci sarà sempre tempo, ma che occasione sprecata.

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