Osservando le opere di Shirin Neshat il visitatore non si limita a entrare in contatto con una semplice rappresentazione artistica, ma diventa parte integrante di un’indagine esistenziale e politica che attraversa il tempo, lo spazio e la storia contemporanea. Prova ne è la mostra Shirin Neshat. Body of Evidence, curata da Diego Sileo e Beatrice Benedetti in corso al PAC (Padiglione Arte Contemporanea di Milano) fino all’8 giugno 2025. La più ampia retrospettiva italiana mai dedicatale guida l’osservatore lungo trent’anni di riflessione poetica, personale, universale e politica dell’artista iraniana. Non si tratta, infatti, di una tradizionale retrospettiva cronologica, bensì di un viaggio critico nelle tensioni profonde che abitano l’opera di Neshat tra dualismi e conflitti, Oriente e Occidente, individuo e collettività.
Shirin Neshat da sempre interroga i limiti delle identità culturali, spingendoci a esaminare l’ambigua relazione tra il suo paese d’origine, l’Iran, e l’Occidente in cui ha scelto di vivere in autoimposto esilio. Questo stato di perpetua sospensione identitaria diventa una sorta di lente critica con cui Neshat analizza le dinamiche di potere, la religione, la razza e le relazioni tra generi. Seppur non si definisca femminista, l’artista esplora la condizione femminile attraverso il corpo che diventa il campo di battaglia simbolico delle oppressioni e delle possibili liberazioni ben oltre le semplificazioni retoriche.

Opere come Women of Allah (1993-1997), celebre serie fotografica esposta al PAC in versione completa, esprimono chiaramente questa ambivalenza: i corpi velati, ricoperti di versi poetici persiani trascritti con inchiostro calligrafico, sono al contempo icone di sottomissione e potenti simboli di resistenza capaci di ospitare in sé contraddizioni insanabili tra testi religiosi sul martirio e rivendicazioni femminili. Emerge così tutta la profondità dell’indagine di Neshat che non giudica mai in maniera netta, ma lascia al visitatore lo spazio della valutazione, del dubbio e dell’ambiguità.
La dimensione dell’esilio è uno dei nuclei centrali della sua poetica. Dopo aver lasciato l’Iran alla volta degli Stati Uniti nel 1974 per motivi di studio, la rivoluzione khomeinista ha reso definitivo il distacco di Shirin Neshat dal paese natale, creando una frattura identitaria profonda e insanabile. L’artista, infatti, esplora costantemente questo stato di alienazione: opere come Soliloquy (1999), in cui appare in prima persona, mostrano due viaggi paralleli in una città mediorientale e in una metropoli occidentale. Metafore potenti dell’eterna condizione nomadica e divisa, sospesa tra culture senza appartenere realmente a nessuna. L’aspetto politico emerge ancora più chiaramente in lavori recenti come Land of Dreams (2019) o The Fury (2023) che mettono in scena il conflitto esistenziale e culturale non solo delle donne, ma di intere società, valutando quanto i concetti di identità, libertà e oppressione siano profondamente intrecciati con il potere e la memoria collettiva. In particolare, The Fury anticipa drammaticamente il movimento “Woman, Life, Freedom”, mostrando con impressionante potenza visiva le conseguenze della violenza politica sul corpo e sulla mente femminile, trasformandoli in simboli universali di resistenza e fragilità. L’attività cinematografica di Neshat arricchisce ulteriormente questa riflessione, indicando come il suo sguardo non sia limitato all’esperienza iraniana. Film come Women Without Men (2009), premiato con il Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia, ampliano l’indagine dell’artista su scala globale suggerendo che le donne isolate, straniere a se stesse e al proprio ambiente non sono semplicemente vittime, ma protagoniste attive nella battaglia per sopravvivere in mondi ostili.

Dunque la poetica di Shirin Neshat non si riduce mai a un mero discorso di genere o di provenienza geografica: é una pratica artistica e intellettuale che mette in discussione le certezze culturali, che obbliga lo spettatore a confrontarsi con temi universali quali il senso di appartenenza, il dolore dell’esilio e la violenza silenziosa che si nasconde dietro ogni forma di oppressione.
Al PAC l’artista iraniana non presenta opere semplicemente da “guardare”, ma un territorio complesso e denso in cui meditare sulla contemporaneità e sui confini, sfumati e ambigui, tra culture che si studiano vicendevolmente, si attraggono e si respingono. È qui che risiede la grandezza autentica della sua poetica: nell’affrontare l’impossibilità di una sintesi definitiva, nell’instabilità delle identità sospese, nella condizione di chi è sempre troppo lontano per appartenere completamente, ma al tempo stesso troppo vicino per poter davvero fuggire. Per questo motivo la mostra Shirin Neshat. Body of Evidence si configura non come un’esposizione, ma come un’esperienza di attraversamento di un confine simbolico. È un invito esplicito a immergersi nell’ambiguità esistenziale e politica che accompagna ciascuno di noi. Shirin Neshat non cerca facili risposte, ma piuttosto pone domande dirette rendendo evidente che l’arte, in fondo, ha proprio questo compito: sollecitare la consapevolezza, svelare i nostri limiti e ricordarci che la riflessione critica è, oggi più che mai, un atto di resistenza necessario.
In copertina: foto di allestimento di Nico Covre