Oltre la Soglia

Tra nostalgie lagunarie e guizzi canzonatori. Incontrare Gian Francesco Malipiero



Pubblichiamo di seguito l’introduzione del libro Incontri con Gian Francesco Malipiero (Lim edizioni) a cura di Marco Brighenti e, dal medesimo volume, l’estratto Il Maestro di Asolo di Neri Pozza.

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Nel 2023 è ricorso il cinquantenario della morte di Gian Francesco Malipiero. Musicista prolifico, cultore dell’antico, didatta appassionato, prosatore ironico e nostalgico, uomo di lettere e profetico difensore del paesaggio contro la rovina dell’industrializzazione, Malipiero fu una delle personalità musicali centrali del Novecento europeo, “la più importante personalità musicale che l’Italia abbia avuto dopo la morte di Verdi”, come affermava Luigi Dallapiccola. Nato a Venezia nel 1882, studente in gioventù a Vienna, nel 1923 si ritirò nel silenzio delle colline di Asolo, dove accoglieva frequentemente musicisti, letterati, critici, giornalisti, attratti dalla sua arte musicale, ma anche dall’estrosità della sua conversazione e dalla vastità della sua erudizione. A loro apriva le porte della sua del Foresto Vecchio, la casa che rispecchiava il suo amore per la campagna veneta e le bizzarrie del suo carattere, esibendo con fierezza i tanti animali che popolavano la sua «arca di Noé».
Nei colloqui e nei ricordi raccolti in questo volume le riflessioni sulle proprie creazioni musicali si alternano a squarci di vita asolana e a folgoranti e caustiche considerazioni sulla vita culturale italiana del secolo scorso.
Dalla penna di grandi musicisti come Igor Stravinskij e Luigi Dallapiccola, di allievi come Luigi Nono e Bruno Maderna, di letterati e scrittori come Andrea Zanzotto, Giovanni Comisso, Massimo Bontempelli, Vittore Branca, Neri Pozza, Ugo Ojetti, Silvio Benco rivivono le passioni e le bizzarrie del compositore, la lunga amicizia con D’Annunzio, la collaborazione con Pirandello, i rapporti difficili col fascismo.
La sua musica quanto la sua prosa (piccolo capolavoro è l’autobiografia La pietra del bando), entrambe ancora ben al di sotto di una giusta valutazione, oscillano perpetuamente tra la nostalgia lagunare e il guizzo canzonatorio, con improvvise allucinazioni espressioniste.
Chi lo conobbe in vita attesta l’impossibilità di distinguere l’uomo dall’artista. Non si può ascoltare l’invocazione all’assiolo del Disperato nel Torneo notturno (forse il suo capolavoro teatrale) senza pensare ai lamenti epistolari dell’autore; così tante scene del suo singolare teatro dell’assurdo paiono tirate da ricordi d’infanzia e di vita. Il procedere erratico della musica di Malipiero è stato più volte accostato al divagare aneddotico della sua conversazione, alla sua camminata tutta soste e deviazioni (e sappiamo quali improvvise aperture e rami ciechi sorprendano anche il flâneur autoctono nel labirinto veneziano).
Chi ha varcato la soglia del Foresto Vecchio sa quanto possa giovare all’apprezzamento della musica di Malipiero la conoscenza dell’ambiente in cui operava; immaginarlo al pianoforte, le finestre aperte sul giardino nelle notti d’estate, molto rivela del tratto notturno della sua musica, quasi una perpetua variazione sul lamento del gufo, come ben colse Stravinskij.
Allo stesso modo la ricerca sui manoscritti della musica antica, iniziata nel caldo agostano del 1902 alla Marciana, non è dissimile dalla cura con cui Malipiero restaurava fontanelle e archetti in marmo di Asolo o tentava di ricomporre il pentolame in rame di un’autentica cucina veneta. L’amore per l’antico e la sprezzante capacità di rinnovamento linguistico sono i due corni di una personalità artistica tra le più singolari del Novecento.
Nottambulo, incline al lamento, adepto di Erode, capace di dissipare con qualche colpo in aria di pistola gli schiamazzi dei putei sul sagrato di San Gottardo o di rubare loro le scarpe per dispetto (qualche famiglia del paese conserva ancora le sue lettere di rampogna contro le bravate dei figli). Per misterioso contrappasso la sua musica come la sua prosa sono attraversate da continue tracce mnestiche dell’infanzia: filastrocche di bambini, passi di marcia, che come appaiono così subito inaridiscono in esigui rivoli, detriti musicali labilmente scampati al naufragio della memoria. Un “mondo di ieri” che, sostituita Vienna con Venezia, trova assonanze nostalgiche con Stefan Zweig, incontrato da Malipiero a Parigi nel 1913.
Dei suoi scherzi o delle sue battute caustiche potevano fare le spese il campagnolo vicino o il gerarca Starace (certo, con una notevole gradazione tra la bonomia e il disprezzo). Fieramente antimoderno lo ricordano gli amici, negandosi la luce elettrica e combattendo, tra i mugugni di qualche asolano, una purtroppo inutile battaglia contro l’asfalto e l’abusivismo edilizio negli anni della catastrofe del boom economico. Parto più detestabile della modernità il rumore, contro il quale si difese murando addirittura alcune finestre della casa.
La musica è protagonista discreta di questi testi, spesso coperta dai latrati dei cani o dal pigolio delle galline, gli amati animali che nella conversazione avevano sempre precedenza sulle fatiche del pentagramma.
Ricorrono i riferimenti all’edizione delle opere di Claudio Monteverdi, che lo occupò per lunghi anni, e in generale l’interesse per le musiche antiche, insieme all’apertura verso le sperimentazioni più innovative, della Seconda Scuola di Vienna o dei dioscuri dell’avanguardia veneta, gli allievi Bruno Maderna e Luigi Nono. Dopo un’iniziale ritrosia e la consueta gragnola di arguzie e aneddoti, Malipiero si sbottona e parla delle nuove opere che via via si accumulano sul leggio, con ritmo sorprendente, tanto per la velocità di scrittura veramente “vivaldiana” quanto per il serrato lavoro notturno. Sfilano così i ricordi e i pronostici dell’autore, dal fiasco di Canossa al riconoscimento tardo di Uno dei dieci, passando per il San Francesco, per Pantea o per la Decima Sinfonia “Atropo”, dedicata alla memoria di Hermann Scherchen.
Al centro degli incontri è certamente la casa, dai mobili scuri e adornata di maioliche di Bassano, amata e voluta nella più fedele tradizione contadina veneta.
Le voci raccolte sono assai varie, per registro e provenienza: vi sono interviste giornalistiche, reportages di una giornata ad Asolo, dediche in versi persino, annotazioni di diario, omaggi di letterati, testimonianze di allievi, gustosi pettegolezzi della stampa d’epoca e anche ricordi di chi, alieno al milieu musicale, incrociò brevemente Malipiero e ne lasciò traccia in opere memorialistiche prive d’intenti specifici. Polifonia di voci e di scrittura, dunque; e però, in ciascuno dei testi scelti appare, anche solo per un attimo, il volto di Malipiero, un suo gesto, un dettaglio della casa, una sentenza mordace.

Malipiero

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«Non ti illudere che parli subito di musica» mi dice Labroca, «è sicuro che i tempi non sono favorevoli. Però lavora. Invece ti parlerà delle sue bestie. Da Asolo ne ha portate qui a Venezia, non so quante; qui, sulla riva ne ho viste una barca. Domandagli notizie dell’Istituto Antonio Vivaldi e del Sesto Quartetto, “L’Arca di Noè”. Ti dirà di averlo chiamato così perché è pieno di bestialità. Non immagini la faccia del custode del Conservatorio quando ha visto arrivare a piedi, dentro le ceste e le gabbie, i gatti (il soriano rosso e quello nero), il bassotto, il pechinese, i due barboncini, e il cucù nella pagoda. Gli “altri” sono rimasti ad Asolo.
«“Ci mancava proprio che li portasse tutti al Conservatorio” insisteva.
«Erano gabbie ingombranti» ha detto «sai, il cucù stava bene in campagna. Ma non poteva portare a Venezia il gufo reale. Glielo ha venduto, la primavera passata, un contadino di Monfumo per tremila lire, un esemplare superbo con gli occhi giallo-limone. Malipiero se n’è innamorato di colpo. Il fatto sta che due settimane dopo, il contadino di Monfumo è arrivato con un sacco. “Maestro, el me scuserà, ho capito che lei con le bestie è di boncore. Qui, nel sacco, ho un’aquila di un paio di mesi, però è bona come un agnello”.
«Erano gabbie ingombranti» ha detto «sai, il cucù stava bene in campagna. Ma non poteva portare a Venezia il gufo reale. Glielo ha venduto, la primavera passata, un contadino di Monfumo per tremila lire, un esemplare superbo con gli occhi giallo-limone. Malipiero se n’è innamorato di colpo. Il fatto sta che due settimane dopo, il contadino di Monfumo è arrivato con un sacco. “Maestro, el me scuserà, ho capito che lei con le bestie è di boncore. Qui, nel sacco, ho un’aquila di un paio di mesi, però è bona come un agnello”.
«“Per carità, tirala fuori” diceva Malipiero, “quella, magari, se sòfega”.
 «“Pian pian” replica il contadino, “fuori è una parola, è un oselazzo estroso, val diecimila lire. Lei me le dà?”.
 «“Ti ho detto di tirarla fuori subito”.
 «Così» continua Labroca «sono andati in giardino, e l’uomo ha liberato l’aquila, una gran bella bestia, le penne color ferro cangiante. Il contadino taglia gli spaghi, ma la tiene legata a una zampa con una cordicella. “Aquila del Grappa” dice Malipiero. Il contadino ritira una carta da cinquemila e se ne va senza obiettare sulla decapitazione del prezzo.
 «L’aquila legata a una zampa» continua Labroca «restò in giardino come un animale domestico; anzi, sull’albero del giardino si fece una nicchia. Mangiava solo carne; ed era così priva della naturale ferocia per la quale va in proverbio che un giorno Malipiero, stufo di vederla sola e afflitta in mezzo al fogliame, la liberò come un piccione domestico. Quella si levò subito in volo planando in larghi giri intorno al Castello e la piazza di Asolo, il collegio del Filippin, e giù al Foresto Vecchio.
«“All’aquila!” gridavano gli asolani fuggendo per le strade spaventati, e agguantavano i bambini tirandoli dentro le porte.
«Il giorno dopo, al suono della campana del mezzodì, il rapace si spiccava dall’albero e saliva in cielo, planava tenendo l’occhio sul parco della Freya Stark, risaliva alla Rocca e fatto un bel giro piombava sul Casonetto. “All’aquila, all’aquila!” gridavano gli asolani per le strade e dalle finestre, mentre quella discendeva nel giardino di Malipiero senza aver fatto alcun danno.
«Ad Asolo, Malipiero gode di grande rispetto» diceva Labroca, «però, individuato l’asilo dell’animale, si era mossa una delegazione di cittadini. “Maestro, l’aquila va tenuta in gabbia”.
«“Sarebbe come mazzarla, cari” replicava Malipiero, “state tranquilli, oramai la conosco, non farà male a nessuno. Basta non tormentarla”.
 «“Maestro, o lei la tiene legata…!”
 «Il giorno dopo» finiva Labroca «astutamente appostati, alcuni asolani abbatterono l’aquila a fucilate. Malipiero sentì gli spari, capì, e ripeté a se stesso l’aforisma cui ricorreva da anni; e cioè che più conosceva l’uomo e più stimava le bestie.