Depeche Mode
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Oltre la Soglia

Spirits in the Forest. Quella notte a Bologna con i Depeche Mode in cuffia

Spirits in the forest. I Depeche Mode al cinema, per due giorni, anche in Italia. Leggo la notizia mentre faccio altro, perché oggi si vive così, e senza farlo apposta la mente mi torna a quando il tempo di fermarsi a riflettere e apprezzare le cose, le occasioni, i momenti, c’era. Perché fu così per me, proprio con i DM, tanto tempo fa.

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Ho ancora la felpa. 1998. Non puzza nemmeno. Millenovecentonovantotto e avere 24 anni. Lavorare in una radio, avere voglia di stare in giro sempre, fino a tardi, possibilmente in compagnia. Mica difficile trovare compagni di viaggio, se devi andare a sentire – a vedere – i Depeche Mode. Per la prima volta nella vita. Radio Brescia Popolare, ottima scusa. Obiettivo, raggiungere Casalecchio di Reno e il PalaMalaguti per tempo e senza auto. Missione da compiere, recensire a dovere la propria band preferita.
La tabella di marcia è stata stilata al volo, zero fantasia e non ce n’è bisogno: in fondo si tratta di prendere un treno, prendere un autobus. Accompagnati da? La prima scelta, Alberto. Amico da anni, fan di Depeche e affini (Bluvertigo, Subsonica). Ottimo partner in crime, con lui bere un’altra volta e fare amicizia con perfetti sconosciuti non è mai un problema. «Porto anche mia sorella», dice Alby. Brunella è cara amica, pure, e ha la stessa felice attitudine. Ma alla fine, all’ultimo momento: Bruny non può, Alby neppure. Questioni a casa, di lavoro e di studio. Niente da fare. Che fare? La Snai non quota nemmeno una mia non-partenza. Il precedente è di un mese prima o poco più: si trattava di andare in auto a Lignano Sabbiadoro, di notte, un sonnellino a bordo e poi Ferragosto fra spiaggia e club, senza sosta; dovevamo essere tre, siam partiti in uno; colpi di sonno di continuo, finestrini aperti sigarette e Marlene Kuntz live a palla nelle orecchie per non andare a sbattere, restando svegli in qualche modo. Fatta quella, conquistata Lignano, mica posso perdermi il Singles Tour?
Quindi, si parte. Senza Alby (che telefona affranto: «Coraggio, divertiti anche per me»). Senza Bruny (che si strappa i capelli). Con il codice di diritto penale a intrattenermi sulle rotaie, fra un sobbalzo e l’altro. It’s just
a question of time
. I Depeche hanno ragione (quasi sempre). Arrivo a Bologna, prendo il pullman, arrivo a Casalecchio vestito in tuta. Felpa e pantaloni adatti a settembre, ed è il 26, autunno appena abbozzato. Ma in realtà fa freddo, assai. Come a novembre. Tiro su il cappuccio, mi rannicchio mentre cammino. Fendo la fiera del merchandising che mi propone Dave Gahan & Martin Gore in ogni foggia e m’infilo nel Palasport. Ho l’accredito, sono abituato a intrufolarmi anche senza: rilassatezza massima, il posto ce l’ho, siedo vicino a un collega (di Verona) che due ore prima del concerto comincia a scrivere i testi dei DM sulla Smemoranda manco fossimo a scuola. Walking in my shoes. Controllo il testo. Tutto giusto.
Bologna è scura, cupa, sembra una canzone dei Cure. Penso che Anton Corbijn gradirebbe, penso che potrebbe essere qua, penso che ne parlerò in radio. Bologna è la capitale dei Depeche-dipendenti, ma potrebbe essere ovunque. Noto il trasporto dei giornalisti, entusiasti come ultrà, e per un momento sento che tutto il mondo potrebbe essere un immenso fan club griffato DM, milioni di esseri pronti a urlare d’approvazione mentre Dave sculetta spudoratamente. L’atmosfera è losca, assai. Anche in sala stampa. Alla faccia di chi considera il mondo della dark-wave freddo secchione un po’ nerd.

La carica sensuale anticipa l’arrivo di una delle band più fisiche che esistano. L’impatto è poderoso, il PalaMalaguti ribolle ed esplode già al terzo pezzo, quando i cari inglesi anticipano Never let me down again. L’inno nel rito. Accanto a me non c’è solo il collega veronese. Spunta anche una giornalista che non conosco, e sì che ormai per concerti giro da un po’. Biondina, occhiali, lombarda come me. Fan come me. Scriviamo tanto, parliamo poco. Il concerto è una collana di perle, una collezione di gioie. Finisce com’è iniziato, in trionfo, una catarsi che alza il livello di adrenalina più su di quanto un concerto abbia mai potuto prima, dopo, nei secoli dei secoli al mondo. Potere Depeche.
In your room è la sorpresa. Lo consideravo un pezzo minore, mi accorgo della presa incredibile che ha sul popolo-fan. Come se decenni di nerd-ismo si sfogassero e sublimassero in quattro minuti di rito molto pagano. Personal Jesus è il trionfo della sessualità applicata al concetto di frontman. E come quando i bambini osservano altri bambini che giocano a pallone, mimando i movimenti, ci ritroviamo tutti quanti (ma tutti!) a scuotere le chiappe. Somebody è la prova di quanto Gore sia un cantante: diverso da Gahan, non inferiore. Meno sensuale, meno coinvolgente, ma più sensibile, e commovente. Qualcuno piange, decisamente. Anche (perfino) fra i giornalisti. Prima che Barrel of a gun dia a tutti noi un calcio ben assestato al culo, ricordandoci quanto siamo fallaci, quanto siamo forti.
Esco dal palazzetto, ora non sono solo. Ho il treno alle 8, la notte è lunga e la stazione di Bologna è fredda. Posso scegliere fra il codice, l’esame mi attende a ottobre, o un onesto brainstorming con la collega, che è qui in auto ma non ha tanta fretta di tornare a casa. Penso che per il codice ci sarà tempo sul treno, al ritorno. Giriamo per la città, stiamo come stiamo, facciamo quello che facciamo. Ventiquattro anni. A un certo punto mi dice: «Lo sai che alloggiano al Baglioni? Andiamo a vedere». E andiamo. La scena che non dimentico. Folla di trentenni in amore, «Dave… Dave…». Ed eccolo, Dave. Con fidanzata, mora e vestita di scuro come lui, flessuosa ed elegante come lui. Non guardano nessuno, non salutano, non sorridono, non si stoppano. «Dave… Dave…». Ma è già entrato, già in hotel. Mi frega poco, non ho la mentalità. Voglio girare un altro po’, e giriamo. Voglio bere un altro po’, e beviamo.
La notte è finita, le birre da smaltire, il cappuccino già freddo prima di essere sorbito. La collega mi saluta. «Sentiamoci». «Certo». Non succederà. Prendo il treno fra ombre tossiche, penso che un tizio intirizzito in tuta con il codice penale in mano sia troppo strano per risultare una preda. Mi assopisco fra gli articoli, Personal Jesus ancora nelle orecchie, modalità Enjoy the silence in un vagone pieno, sentendomi su una nuvola mentre il mantra-Mode mi culla e accarezza. «Chissà quanto dureranno i Depeche», penso che dirò nel servizio in radio. Ventuno anni e infiniti concerti ancora, almeno.