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Comma 22

Tra pareti fragili e la fuga di un pallone. Il margine nei versi di Gianni Montieri



«…le disgrazie servivano solo a segnare delle date, a separare e rendere intellegibili il principio e la fine delle numerose vita che percorriamo e viviamo»
J. C. Onetti, Gli addii

Ampi margini di Gianni Montieri (LiberAria Editrice) compie un anno dalla sua pubblicazione e con questa raccolta di scritti ha incontrato tanti anni importanti delle nostre tante vite. Anni che cambiano numeri, sentimenti, assenze e pienezze, nomi e accenti, diverse salite su diversi vagoni. Anni che evocano margini imprevisti e capricciosi, dove linee rette e curve improvvisano modi di essere al mondo.

ampi margini, Gianni Montieri

La raccolta presenta alcune sezioni inedite e altre già conosciute in passato, qui ripercorse con il tentativo di trovare ancora un posto a cose di uno e di tutti, come sempre in letteratura. Lo scavo è inesausto. Nel mentre, si rimane sospesi nello spazio bianco di ogni pagina, nella tentazione spontanea di lasciare un nostro tratto di matita che dialoghi con gli a capo dello scrittore. Forse conducono proprio a questo margine le parole di Montieri, sulla soglia di un segreto appena sussurrato, fatto di molti sforzi e molti respiri. E di (m)argini per resistere a quanto Altri hanno incontrato tempo fa «in un’aria di vetro», Gianni Montieri ne traccia alcuni più evidenti.
Anzitutto, il raccontarsi come parte di Napoli e dei suoi dintorni lungo l’Asse Mediano, di una terra che sa inventare parole come “chitammore”, accartocciando nel fremito di uno sguardo il più inaccettabile degli improperi, a bersaglio «’e muorte», per dispiegarlo nel più acceso dei sentimenti, l’“ammore”.
Un posto dove basta una saracinesca per immaginare la porta di un campo da calcio, un pallone che avanza tra strategia e inventiva, gli accenti incoraggianti intorno e un punto dove tutto torna, dal gol in festa alla pace con se stessi. Un margine, Napoli, dove chiunque si sente meno inadeguato che altrove, perché i tremori del singolo si confondono con quelli della terra, con quelli del mare. E Ampi margini ci trascina proprio là, dove una mano d’addio accarezza la parete di casa, dove le sedie sono sfondate dai pesi del cuore, davanti a quella «poltrona scassata» fuori dalla facoltà di Filosofia, su cui due innamorati fermano un bacio in mezzo alle parole della protesta studentesca.

Questo batticuore della terra partenopea si amplifica ancora di più in una domenica di novembre degli anni Ottanta, altro margine nei versi di Montieri. Margine che si apre con il verbo imparare, perché a tremare pure si impara.
Il terremoto di quell’anno ci viene raccontato da Montieri in prosa, stavolta, non in poesia. Forse perché la poesia è intimità. La prosa è racconto condiviso. D’altronde, quell’evento di intimo ha avuto ben poco, perché diventato, come ogni disgrazia collettiva, sussulto ad alta voce, sopravvento della malasorte su una regione intera, stesso cielo di fuoco da raggiungere in supplica nei novanta secondi di vita a metà. La prosa allora prova a dare punti fermi a questo sgomento:

«[…] abbiamo imparato a tremare, qualcosa dentro di noi ha cominciato a tremare, qualcosa che non ci ha più lasciati. Noi tremiamo da allora come tremano le terre dove siamo nati, perché abbiamo imparato che sottoterra c’è il vuoto, abbiamo imparato molto presto che morire è questione di niente, che vivere è una concessione, una sorpresa […]»

Un margine, questo, con cui lo scrittore ci ricorda che non morire «è matematica», una questione di probabilità e nulla più. Eppure la malinconia desta sempre altra vita tra questi versi. Il margine è sempre ampio, vi è spazio per verità incontrovertibili, ma anche per il visionario che tutto scompiglia. E ci riesce. Se sotto i piedi vacilla ogni cosa, c’è chi affida ai grani del rosario l’impotenza della vita e chi sale sulla prima corsa di funicolare, e va. Gianni Montieri sa comunicare il suo arrivederci a Napoli con la levità di chi ha preferito la pazienza della disperazione al cinismo della maledizione. Un po’ come quella nonna «di un altro Sud», che «sorrideva, non moriva».

«[…] Abbiamo provato a ricomporci le ossa: felici?
Nessuno lo sa, nemmeno interi
soltanto qualcos’altro, frammenti
composti da valigie e mare
abbiamo comprato biglietti,
preso case in affitto, siamo
invecchiati, non è poco».

In questa ondeggiare tra il fragore tormentato del mare del sud e il tepore di progetti pieni di altrove, tra l’essere vivi e l’essere consapevoli che non sia poi così ovvio, risiede la sintesi di opposti con cui lo scrittore sa rendere il contingente una meta e un senso, sa riconoscere valore a tutti i margini che abita, senza tagliarne fuori nessuno dalla sua storia. Milano prima, Venezia dopo, si identificano, durante il tempo della lontananza, nel nuovo «mattone pieno». Parola densa, come tutte in queste pagine, quasi a fare anch’esse da argine e margine alla fuga delle cose, alla fuga di un pallone di ragazzo da un cortile di Napoli a una piazza un po’ più a nord, senza perdere slancio, evoluzione, il premio di un altro centro ritrovato.
Il pallone, nuovo margine, insieme a Diego Armando Maradona, la sola ipotesi di Assoluto nella poesia di Montieri:

«[…] la palla addormentata da un sussurro
scivola dolce dal petto al piede
e da lì parte, piccolo
giocattolo verso il bambino
il bambino dal petto alla culla
dal sonno al sogno
dal niente al fondo della rete.»

Maradona è Diego, un ragazzo come tutti, che dai cieli polverosi dell’Argentina ha saputo lanciare la sua palla oltremare, fino ai lampi azzurri dello stadio italiano che ora porta il suo nome. Per Montieri è stato questo uomo a dirci davvero di noi, a dirlo a quanti in quegli anni vivevano la notte di una Hamelin fitta di asfalto e di malavita, dove un bel voto era vergogna, i topi non li portava via mai nessuno, nelle rughe degli anziani si scavavano inquietudini e delusioni, la voce si faceva grumo sulla soglia della paura, le pareti di casa non garantivano sopravvivenza, la venuta del pifferaio tradiva un’attesa troppo precaria: «[…] di magico / era passato solo Diego Maradona / più raramente qualche stella /sulla quale inciampare ubriachi». I piedi leggeri, una palla che riusciva sempre a rialzarsi dalla terra malconcia, una rivoluzione portata a compimento prospettando, oltre la solita rassegnazione, il più bel futuro possibile.

Ma maestro di futuro per Gianni Montieri lo è stato soprattutto suo padre. A lui è dedicata un’intera sezione di versi, in cui sulla scena sono stanze piene di affetti, sospiri arrivati chissà dove, il freddo di certi ricordi e la dannazione di certe mancanze, l’eredità di non dirsi l’amore perché i sentimenti forti sono tutti fuori testo.

«[…] Eppure in vie
così poco battute
ho visto cosa mi mostravi:
come si tiene la testa alta
e si domanda scusa
come ci si regga in piedi
(anche su questo 14 pieno
di cappotti e di gente che non sa)
senza sostegni, senza fortuna.»

Il padre, il suo, il nostro, viene qui associato a fermezza di dignità e volontà anche quando muscoli e nervi non tengono, la gente non tiene, l’amore non tiene, quando la memoria prova a raccogliere il possibile di un abbraccio che la realtà ha reso impossibile da un po’.

Forse è questo il senso del margine nelle parole di Gianni Montieri, la protezione di chi già non è più verso chi resta, perché dietro quella linea immaginaria ci si innamori di Kurt Corbain, di Massimo Troisi, di un soffitto con mille crepe, del primo freddo con la neve fuori, di un mare senza Vesuvio, di una moka fumante che è sempre ripartenza.


In copertina, Napoli su Unsplash