Comma 22

Teatro Pereyra e la prospettiva ombelicale



L’ho letta di nuovo. Quella parola.

Non mi capitava da parecchio, a onor del vero. Pensavo che fosse stata rimossa dalla memoria collettiva, che fosse ormai nel paradiso dei “romanzi stralunati” e delle “scritture irriverenti”, che non venisse più abbinata a opere di letteratura e fosse ritornata a rivestire il proprio significato originario, cioè: parte minuscola e piuttosto irrilevante del corpo umano. Invece questa mattina ero lì che scorrevo i commenti a un post su Facebook, ed eccola: ombelico. I più vintage di voi – chi già leggeva le riviste letterarie negli anni Novanta, chi frequentava i forum a inizio anni Duemila – potranno facilmente prevedere il contesto e la frase nella quale è contenuta la parola. Ce l’avete? Perfetto, avete indovinato.

«Non leggo gli scrittori italiani. Sono troppo occupati a contemplarsi l’ombelico».

La scrittura ombelicale era un po’ una piccola ossessione di una vasta categoria di lettori e critici improvvisati, vent’anni fa o giù di lì. Forse è colpa loro se una persona di cui non farò il nome ha vergato il commento sopra riportato, lapidario, così, secco. Che a pensarci, se ora scrivessi convinto e tranchant «Non leggo i romanzi russi perché tutti i personaggi hanno due o tre nomi e mi confondo» non credo che ci farei una gran figura, in ambito letterario. Ci abbiamo messo tutti qualche pagina per capire che Stepàn e Stiva sono la stessa persona e che Dolly è sua moglie ma è anche Dar’ja, e mica per via di questo superabile problema ci siamo privati della lettura di Anna Karenina. Comunque: esiste davvero un’ampia categoria di lettori anche forti che rifiutano a priori l’idea di prendere in considerazione un romanzo italiano. Romanzo italiano contemporaneo, quantomeno: parliamo di gente che si è fermata a Oceano mare o Due di due, che si comporta come quegli appassionati di musica che hanno comprato l’ultimo disco nel ’97 ed era Ok Computer. E quindi, costoro hanno degli scrittori attuali un’idea derivativa, remota, parziale, per sentito dire.

Teatro Pereyra

Teatro Pereyra, per questi individui, sarebbe un alieno. Cioè, non lo comprerebbero mai perché ‘Marco Visinoni’ di sicuro non suona come un nome francese o centroamericano o britannico, e perché è uscito nel 2022, quindi, per gli antiombelicalisti generici, è un oggetto radioattivo e velenoso. Eppure non c’è dentro nulla di quello che il tipo umano «io non leggo romanzi italiani contemporanei» crede che ci sia in un romanzo italiano contemporaneo. Il protagonista simpatico, tipo un commissario buongustaio e piacione, tipo un irrisolto quarantenne un po’ sfigato ma simpatico e pieno di donne, tipo uno con un nome che fa colpo (invidierò per sempre Diego de Silva per aver chiamato il suo avvocato ‘Malinconico’). Ecco: il protagonista di questo romanzo non ha un nome. O meglio, per avercelo ce l’avrà, suppongo, ma non ci viene riferito. E per essere simpatico, ecco, non è proprio simpatico, a meno che non troviate amichevole e rassicurante uno che vende pillole, che è sempre il primo alle convention aziendali, che consuma notti furibondi nei locali di Ibiza, che sembra un personaggio di James McInerney ibridato con uno di un giovane Bret Easton Ellis.

Ma mettiamola così: un giorno in cui dovessi trovarmi a un tavolo con uno dei nemici degli autori italiani, che essendo stato astutamente legato a una sedia è costretto ad ascoltarmi, glielo racconterei un po’ così.

Caro antiombelicalista: Teatro Pereyra parla di un’azienda farmaceutica che organizza una convention a Ibiza, e di un manager dell’azienda suddetta -l’Io narrante- che tra le altre cose promuove sostanze che sono, fondamentalmente, droghe. Il nome Spiral ti ispira? Ti suona abbastanza simbolico? E poi, qui si parla di eccessi. Hai presente, hai ascoltato quando parlavo di James McInerney? Ti ricordi Ted Allagash, Le mille luci di New York? Risale ai tempi in cui leggevi ancora libri, se ti conosco bene. Ecco: anche qui il protagonista non ha un nome, come dicevo, prima, e viene trascinato – o, meglio, si trascina volentieri – in serate piene di eccessi, senza limiti, senza fine, in una, ecco, spirale autodistruttiva. E tutto viene amplificato dalla competitività, dal desiderio di prevalere, quell’istinto animale che scatta quanto tutti quelli che lavorano con te sono radunati nello stesso luogo, e tu, che sei un drogato di successo, vuoi emergere come il migliore in assoluto. (Vedi? Mi sono messo a scrivere in seconda persona come McInerney!) E, no, caro A.O. (perché se ripeto un’altra volta ‘antiombelicalista’ mi si attorcigliano le dita), in questo romanzo non c’è un messaggio moralista, non c’è quello che altre categorie umane deprecabili chiamerebbero ‘buonismo’ (ecco, mi si sono attorcigliate le dita comunque). Non è quel tipo di libro. È quel tipo di libro in cui si arriva a precipizio allo stupro, alla dipendenza, al febbrile delirio, alle sirene, alla polizia, all’ambulanza, a Stella con una boccetta di pillole vuota tra le dita. Poi, siccome l’autore ha anche degli ottimi gusti musicali, c’è una perfetta, impeccabile colonna sonora, e attento, segui bene, le canzoni non sono scelte a caso: se in quel capitolo c’è Tom Waits, se in quell’altro ci sono i Tool, se quella sequenza è accompagnata dagli Smiths e quell’altra dai Radiohead, fidati, sono selezioni mirate.

Va bene, A.O., ti slego. Vai in pace, e non dire mai più la parola «ombelico» collegata a un romanzo italiano.

Diventerai un lettore migliore.