“Di quest’epoca non resteranno neanche delle belle rovine.”
Una guerra lampo pop, Le Luci della Centrale Elettrica
L’uomo che resta, edito da Les Flâneurs Edizioni, è il secondo romanzo di Marco Niro, giornalista e scrittore, fondatore del collettivo di scrittura “Tersite Rossi”. Un’opera che intreccia la preistoria, i giorni nostri e un futuro lontano ma non troppo, rendendo il cambiamento climatico protagonista di una narrazione che abbraccia l’intera storia umana in una vasta dimensione spazio-temporale.
Un romanzo, quello di Niro, che si divide in tre diversi momenti storici. L’arco narrativo del Paleolitico, anzitutto, ci mostra Artzai, un ragazzo che vive in una comunità di cacciatori-raccoglitori. «Il lavoro più difficile è stato sicuramente ricostruire la preistoria – ci spiega l’autore. Si tratta del periodo in assoluto più lungo della storia umana, quello che abbiamo dimenticato, ma che può insegnarci di più. Ho dovuto fare un’attenta ricerca anche solo per scegliere il nome dei protagonisti, partendo dalla lingua che ha le radici più antiche in Europa, il basco». Attraverso un salto temporale, il romanzo si sposta ai giorni nostri con Bruno, un archeologo che cerca, nel suo piccolo, di capire, di studiare, di trovare una soluzione alla salvezza non solo sua e della sua famiglia, ma dell’intera umanità: «Bruno è forse il mio personaggio preferito, quello che sento più vicino: usa la scienza per poter aiutare non solo la sua famiglia, ma l’intera comunità». E infine, la proiezione verso il futuro, ambientato a Gilanos, dove Clizia, una ragazza curiosa, viene attirata dalle rovine del vecchio mondo: «Gilanos è un’immaginaria comunità futura. Il clima del pianeta è sempre più torrido, gli abitanti ormai hanno imparato a conviverci, con fatiche e rinunce. È una comunità che ha fatto passi indietro a livello tecnologico, ma è migliorata da un punto di visa sociale e culturale: le divinità solo l’aria, l’acqua e la terra. Qualcosa di utopico».

Cambiano le epoche ma l’autore, nell’alternarsi dei tempi e delle circostanze storiche e sociali, mantiene la medesima struttura. Tra le pagine ricorrono un antagonista e una coppia, animata quest’ultima dalla curiosità: i personaggi, inquieti, vanno alla ricerca di qualcosa d’ignoto che, quando finalmente viene scoperto, inizia a muovere meccanismi più grandi di loro, costringendoli ad affrontare, nel lungo periodo, cambiamenti sconvolgenti e pericoli in grado di condizionare la loro stessa sopravvivenza. La scrittura evocativa di Niro affonda l’inchiostro nell’intimità dei suoi personaggi ma sa anche farsi esplorazione collettiva verso la consapevolezza, che non può essere limitata al piano individuale ma deve estendersi all’intera società.
Sul tema del cambiamento climatico prolifica la saggistica, ma la narrativa risulta pressoché assente: «La spinta per scrivere questo romanzo me l’ha data la lettura di un altro libro, uscito ormai dieci anni fa. Si tratta di La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile di Amitav Gosh, edito da Neri Pozza. In questo testo, Gosh sostiene che il cambiamento climatico dovrebbe essere la preoccupazione degli scrittori di tutto il mondo, ma così non avviene. Sembra che la ‘letteratura seria’ abbia la tendenza a marginalizzare elementi come la natura, la dimensione collettiva, e gli interlocutori non umani. Solo facendo di questi elementi i pilastri della narrazione gli scrittori saranno in grado di raccontare ciò da cui dipende la nostra sopravvivenza». Il cambiamento climatico è un problema tangibile, documentato, di cui tutta la società è ormai a conoscenza: l’innalzamento del livello dei mari, la fusione dei ghiacciai, l’aumento di temperatura costante. Eppure, sembra non interessare realmente a nessuno. O meglio, lo vediamo con i nostri occhi, ce ne preoccupiamo, ma poi di fronte all’enormità del tema la maggior parte dell’umanità non riesce ad affrontare con efficacia il problema, nel turbine della propria vita quotidiana. L’impatto della crisi, così distante nel tempo e nello spazio, provoca una dissonanza cognitiva tra ciò che dovremmo fare e quel che invece facciamo ogni giorno. La paura di una minaccia apparentemente lontana ci rende passivi e, se sappiamo di non fare abbastanza per risolvere il problema, preferiamo non pensarci. Psicologi, neurologi e bio-evoluzionisti spiegano che l’umanità considera il cambiamento climatico come un problema astratto e lontano: si parla quindi di “bias” cognitivo, di errore di valutazione. Non è questione di intelligenza o attitudine, ma si tratta di ostacoli connaturati alla nostra mente. Il problema è distante e non tangibile, e per questo ne riduciamo la rilevanza e l’intensità.
Marco Niro conosce il potere salvifico delle storie e per questa ha deciso di fondere il tema del clima e dell’evoluzione umana in «un romanzo che non avrebbe mai visto la luce senza l’ampio lavoro di documentazione che lo ha preceduto». È forse questo il modo per riuscire a eliminare o almeno limitare i “bias” cognitivi? Quello di immedesimarci, di sentirci davvero parte di una narrazione con protagonisti reali, il cui finale verrà scritto da noi? «Parlare di temi importanti come il cambiamento climatico e, più in generale, del rapporto tra l’uomo e l’ambiente in cui vive, mi ha portato a riflettere sulla stessa specificità umana, ricercata fin dalle sue radici preistoriche e individuata nella capacità di pensare in modo simbolico e di raccontare storie. Gli archeologi credono che la nostra vera essenza stia proprio nella capacità di raccontarle: l’uomo già nella preistoria non ha ceduto all’individualismo, allo scontro di tutti, perché si raccontava che il modo migliore di vivere fosse quello solidale ed egualitario. Perché solo le storie possono realmente far capire, comprendere quello che è avvenuto in passato e quello che potrebbe avvenire».
Scorrendo L’uomo che resta emergono chiaramente tutte le contraddizioni dell’homo sapiens, dall’eccezionalità della sua intelligenza evolutiva fino all’incapacità di limitare il concetto di crescita infinita. Marco Niro ci offre un’opera ambiziosa e profonda, nella quale le tre epoche, così apparentemente distanti, sono legate da un filo conduttore: il sottile equilibrio tra sopravvivenza e autodistruzione, la tensione tra il desiderio di scoperta insito nella natura umana e la necessità di accettare i limiti ecologici come unica via di salvezza. Così è, per esempio, nella vita di Bruno e della sua famiglia: mentre il mondo si dirige inesorabilmente verso l’autodistruzione, l’archeologo rallenta il ritmo, vive solo di ciò che è strettamente necessario rispettando i limiti che la natura gli impone. E soprattutto non scappa, così come fanno – in epoche diverse – Artzai e Clizia.
Tra fiction e incursioni scientifiche e filosofiche, L’uomo che resta ci appare dunque come un mosaico affascinante, attraverso tre storie che ci interrogano e ci scuotono mostrandoci le ingiustizie sociali e ambientali del nostro tempo perché «la ragione non sta sempre col più forte, la ragione è da cercare e perseguire nell’umano». L’uomo che resta è quell’uomo che, come spiega uno dei protagonisti del romanzo, decide di rimanere dov’è, saldo di fronte alle sue responsabilità, senza fuggire.