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Le bolle blu di Maeterlinck



Tra i libri che quasi più nessuno legge, sono i volumi dello scrittore belga Maurice Maeterlinck, il quale, a cavallo tra Otto e Novecento, assurse a gloria nazionale delle lettere fiamminghe di lingua francofona, premio Nobel nel 1911.

La sua opera fu, ed è, iridescente: pur essendo stata scritta con lettere cangianti sullo sfondo del proprio tempo, e quindi abbigliata con disinvoltura con le vesti della tarda Belle Époque, il suo portamento denota la segreta tessitura dei testi alchemici dell’epoca tardo-rinascimentale. Di quando in quando, i “piccoli editori” italiani si accollano il dolce peso di qualche ristampa, segnale che qualche lettore ancora allunga le dita verso lo scaffale impolverato: nel 2020, lo spoletino Editoria & Spettacolo ha ristampato L’uccellino azzurro – Il fidanzamento.

Maeterlinck

Bulles Bleues non è mai stato tradotto in lingua italiana: oggi risulterebbe una novità assoluta postuma. Ma già al momento della sua pubblicazione (un anno prima della morte dell’autore), sarebbe stato considerato un’inclassificabile vintage: troppo naïve per poter chiudere con sistematica assertività le alchimie di tutto il ramo del Maeterlinck pensatore occulto, e troppo poco oracolare per sigillare una carriera fulminante di pièce teatrali oniriche; un lavoro, insomma, fuori tempo e fuori del tempo. Ed è appunto lì, che il lettore moderno lo incontra adesso: nel presente assoluto, nell’assoluto presente che l’epoca postmoderna propone e impone. Dove tutto è presente nella sua stessa assenza, in quel punto fisso e indivisibile che una volta veniva chiamato “contingenza”.

Così, quasi a ogni pagina delle Bulles bleues Maeterlinck coglie l’intersezione inafferrabile tra l’attimo vissuto (sono tutti ricordi di giorni felici, anche quelli tristi), e l’atto del ricordare e il momento in cui quell’aneddoto narrato nella mente e trascritto sulla pagina si avvia all’oblio, com’è sorte di tutte le memorie destinate al dimenticatoio.

Il libro è infatti un anti-tesoretto e si snoda tra le riemergenze agrodolci della fanciullezza e le ricostruzioni di vita familiare, senza abbellimenti: quotidianità di una piatta famiglia borghese della Belle Époque, benestante, bolsa, eccentrica quel tanto per consentire al giovane Maurice di sviarsi dai binari di una tradizione oramai obsolescente e scoprirsi poeta malgrado tutto. Però, senza prosopopee o confessioni; questa autobiografia rimanda infaticabilmente a tutto il resto, alle altre opere che la voce narrante avrà poi modo di creare / scrivere / tessere durante il restante tempo della vita.

Dire che qui un piccolo mondo è iridescente e chiuso ermetico dentro la pagina, sarebbe un pleonasmo: così come è pleonastico ricordare che chi non avesse mai letto il capolavoro di Maeterlinck (la fiaba teatrale L’oiseau bleu, uscita nel 1908, messa in scena da Stanislavskij) è temporaneamente un individuo impoverito… sinché, appunto, non si metta a leggerlo. Perché le vicende dell’Uccellino Azzurro sono l’opposto logico di questo memoir che qui si offre in traduzione, e perché è anche vero che senza aver gustato l’inquietante drammaturgico di I ciechi (1890) o l’incubo quieto delle Serre calde (1889) o le incursioni ossessionanti nell’infinitamente piccolo di La vita delle api (1901) e di L’intelligenza dei fiori (1907), non si potrà guardare davvero negli occhi glauchi questo autore decisamente demodé. Che condivide il fato nebuloso di altri geni suoi coetanei, ora abbandonati come lui nella semi-vita crepuscolare dello scaffale di libreria: Pirandello, Yeats.

Tanti motivi storici e antropologici e sociali ci ostacolano qui e ora, in realtà, impedendoci di entrare nella filosofia poetica maeterlinckiana, per immergerci nella quale una vita non basterebbe e per farlo è forse troppo tardi: la coscienza europea tramonta, trascinando nel suo tragitto le singole monadi: noi. Però se almeno con la forza della malinconia, della nostalgia e della disperazione (la miscela dei tre “stati d’animo” si chiama “abnegazione” e Maeterlinck scrittore ne aveva da vendere) il lettore avventuroso vuole almeno aprire qualche volume di quella galassia di libri che quasi nessuno legge più, parta dall’inchiostro d’oro puro di La saggezza e il destino (1898) e di Il tesoro degli umili (1896). Il resto verrà da sé.

Maeterlinck

L’opera omnia essendo foltissima, la sola linea dei titoli, assembrati come branche che snodano i rami di un poderoso albero, darebbe già il senso della scrittura, mentre i singoli tomi sarebbero le gemme, gli alveoli, i chakra aperti, le moltiplicazioni frattali e seriali, tutte differenti e diverse. Basti aggiungere che il teatro di Maeterlinck ispirò Debussy, Fauré, Sibelius e Schönberg: la sua rivisitazione di Arianna e Barbablù (1903, con musiche di Paul Dukas) oggi sarebbe attualissima. Come tutte le altre figure femminili (uscite dalla penna di un uomo con due innamorate e nessun figlio) dal dolce nome di Maleine, Melisande, Selysette, Monna Vanna, Isabelle.

Un autore d’antan, insomma, un avvocato senza arringa e un pugile discreto e un giardiniere dilettante, una persona nel senso etimologico del termine, maschera attonita dietro cui tutti gli “io” molteplici s’avvicendavano fusi in un unico sé: Maeterlinck come autore è stato sepolto nell’oblio quasi subito, direi dal momento in cui entrava nel regno della morte, spegnendosi ottantasettenne come una vecchia bolla, nella sua villa nizzarda a poca distanza di spazio e tempo dalla tragedia del “grande Torino” a Superga (maggio 1949).

Ma come in una seduta spiritica, dall’oltretomba, di tanto in tanto gli editori anche italiani lo rievocano: come ha fatto recentemente la torinese Libreria Editrice Psiche ripubblicando La morte: una dissertazione in undici capitoletti, che va a trattare la questione della morte oltre la soglia del morire, cercando delle tracce per descrivere l’indescrivibile “nostro destino nei due infiniti”; il libretto uscì nel 1913 e così, centootto anni dopo, ne abbiamo l’edizione bilingue.

Questi, e altri, sono soltanto dei bijoux scelti da un monile ricchissimo, disponibile in volume presso le librerie antiquarie: per quanto ancora? Così, se i souvenirs heureux di Maeterlinck dovessero riuscire nell’intento di smuovere e iniziare, per alimentare il mito e farci incamminare insieme all’Ospite sconosciuto (1917) e all’Ombra delle ali (1936) verso il grande segreto del grande silenzio, il fenomeno sarebbe quasi un prodigio paranormale: se accadrà, si vedrà.

Dallo scrittore fiammingo, un lettore postmoderno erediterebbe lo sguardo fermo sull’altro mondo, sull’orlo del mondo e su una enigmatica meridiana il cui quadrante è decorato coi colori della notte, illuminata dal bagliore muto delle stelle. Sentirebbe cioè una fraternità ferma, incolmabile, guardandola senza più vedere niente, mentre si acceca la già fioca vista dell’occhio glauco del nulla che pervade tutto e che nulla rivela.

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