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Io sono lei. Storia della mia transizione di Lucy Sante

Tra nomi, ricordi e paure, Lucy Sante mostra che diventare se stessi è un atto radicale di libertà

Lucy Sante non scrive per raccontare una transizione. Scrive per nominare ogni singolo atto di trasformazione. E non è una distinzione semantica: transizione è una parola che ci siamo abituati a trattare come tecnica, chirurgica, definitoria. Ma il suo Io sono lei (NN Editore, traduzione di Anna Mioni, 2025) è un’opera radicalmente umana, troppo umana: è un memoir sulla disgregazione e la ricostruzione dell’identità attraverso la parola, il ricordo, la paura, il corpo e l’immaginazione. Io sono lei è la storia della pelle. Del nome. Della voce.

Non si nasce donne, diceva Simone de Beauvoir. Ma nemmeno ci si diventa una volta per tutte. Lucy Sante lo dimostra mentre sfoglia il proprio archivio corporeo, scoprendoci frammenti di sé in una vecchia foto, nel trucco sfiorato, in un file cancellato dal browser. L’app che cambia i volti (FaceApp) non è un pretesto narrativo: è l’interruttore emotivo che fa crollare decenni di negazione. «Quando ho visto quella signora […] tremavo dalle spalle all’inguine». E in quella scossa c’è già tutta la scrittura.

La traduzione italiana alterna consapevolmente il maschile e il femminile in un’attenta e delicata grammatica del possibile. È una scelta rara, frutto di un accordo tra l’autrice e la traduttrice Anna Mioni. Ma soprattutto è un gesto etico: non risolve il conflitto, lo onora. È un’oscillazione fedele al ritmo della trasformazione. E in questa ambiguità, la lingua diventa spazio di libertà.

Io sono lei è composto da lettere, pagine di diario, aneddoti d’infanzia, riferimenti culturali, liste, divagazioni, confessioni. Ma soprattutto è un lavoro archeologico: Sante scava nei sedimenti del passato per riportare alla luce ciò che è stato sepolto. Un testo come un corpo fatto a strati: identità, memoria, desiderio, repressione. Scrive Sante: «La mia trasformazione non è soltanto una questione di estetica; è un ribaltamento del destino».

Ma questa è una storia universale. È una storia per chiunque abbia mai avuto paura di cambiare – e di non cambiare mai. È una riflessione potente sull’identità come costruzione, come racconto da riscrivere. Come dice un passaggio centrale del memoir: «Non sono certo di avere i requisiti necessari. Sono troppo spinoso e diverso e contraddittorio». Chi può dire di non essersi sentito così, almeno una volta?

Io sono lei

Il testo dialoga con una genealogia visiva e letteraria più ampia. C’è l’eco di Orlando (Mondadori, 1933) di Virginia Woolf, dove il genere muta con la stessa naturalezza delle stagioni, proponendo una visione fluida e poliedrica dell’identità. Ma c’è anche qualcosa di La pelle che abito (2011) di Almodóvar, dove il corpo diventa terreno di sperimentazione e riscrittura, simbolo di un mutamento che va ben oltre il cambio di genere e riguarda la continua evoluzione di ogni individuo. Echi della Metamorfosi (Vallecchi Editore, 1934) di Kafka, ma anche, per contrasto, dello Zelig (1983) di Woody Allen: se in Zelig il camaleontico protagonista si plasma per adattarsi e scomparire, Lucy si plasma per rivendicare, finalmente, se stessa. Entrambi ci parlano del corpo come strumento di relazione con il mondo, ma da prospettive opposte: Leonard Zelig diventando chiunque per essere nessuna, Lucy Sante diventando Lucy per non perdersi più. Sante scrive: «La mia trasformazione non è soltanto una questione di estetica; è un ribaltamento del destino, un riscrivere le regole del vivere» e in questa dichiarazione c’è tutta la distanza da Zelig: la metamorfosi, per Sante, non è una fuga. È un atto di verità.

Cambiare non è solo un’urgenza di transizione: quella dei corpi che si (dis)fanno è la condizione umana per eccellenza.

Io sono lei è il tentativo di trovare una voce. Non una voce necessariamente femminile, ma una voce propria. La stessa che per sessant’anni è rimasta impigliata nella maschera del maschio intellettuale e cerebrale, per poi riaffiorare nella semplicità di un selfie. «Parlerò ogni giorno con Lucy», scrive Sante. Ma intanto parla anche con noi. Con chi non ha mai cambiato genere, ma ha cambiato pelle, nome, desiderio.

In un mondo in cui l’identità di genere è ancora terreno di scontro culturale e legislativo, Io sono lei non offre risposte facili. Ma ci dà uno strumento per pensare. Accanto a questo memoir, risuona forte il bisogno di altre narrazioni: il cinema di Céline Sciamma in film come Tomboy (2011) e Portrait de la jeune fille en feu (2019), dove si racconta di corpi e identità che si formano, si cercano, si reinventano al di fuori dei codici normativi e, proprio come Lucy, anche i personaggi di Sciamma rifiutano di farsi intrappolare da definizioni rigide; Gli argonauti (Il Saggiatore, 2016) di Maggie Nelson, gli scritti di Paul B. Preciado, ma anche il discorso quotidiano di chi cambia, invecchia, si ammala, si rinnova. Quella di Io sono lei è una storia di ri-esistenza: contro l’inerzia, le definizioni, la paura di diventare altro da sé. E in questo, forse, parla – dolorosamente, liberamente – a chiunque.

Il corpo cambia, che lo vogliamo o no. 

Sceglierlo – rivendicarlo – è potere. Solo nostro.

Immagine di copertina: dettaglio copertina Io sono lei di Lucy Sante (NNEditore, 2025)

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