In un tempo in cui il dolore sembra rarefarsi senza possibilità di annientamento, La Luce Inversa (Wojtek, 2025), romanzo d’esordio di Mota, immagina un’estrema possibilità di riscatto: un’immersione psichica radicale nella materia più oscura della coscienza, uno spazio privo di confini e riferimenti, dove la terapia si sveste del suo ruolo di supporto esterno per diventare parte attiva della risalita.

Nella «camera a luce inversa» – spazio mentale e carnale insieme – i protagonisti Vanessa, Siddiq e Martin affrontano i propri traumi infantili come se fossero nuclei originari da disinnescare, attraversando una psicoanalisi destabilizzante che si fa esperienza distopica e al contempo metafisica.
Scarlett Johansson si cala dentro un lago nero. Un passo alla volta, senza fretta, il suo corpo di latte viene inglobato da un liquido che potrebbe essere inchiostro, petrolio, un’amalgama imperscrutabile che non concede spiragli d’altrove. È una sequenza che si ripete nel film Under the Skin, un rituale che trasmette freddo anche in chi la osserva, una sensazione di spaesamento e impotenza simile a quella provata più volte, da chi scrive, durante la lettura dell’esordio in questione.
«E anche la casa assomiglia a un giocattolo, pulito e con poca roba dentro, di una consistenza come se fosse stata costruita con la plastilina e poi laccata. Qui che aspetta, dalla ripetizione del tempo infinito, è questa l’impressione che dà, una casa che aspetta e aspetta e aspetta, bella lucida, e con giusto la roba necessaria affinché ci si possa trovare a proprio agio, aspetta soltanto che arrivino gli inquilini.»
Abbandonato ogni intreccio narrativo, procedendo tra impulsi sensoriali, visioni scomposte ed immersioni ipnagogiche, si torna al tema dell’abuso, germe imprescindibile dell’esistenza umana, triplicato e scandagliato qui, da un trittico di voci/vite distinte, sconosciute prima di prendere parte all’esperimento ma che in questo nonluogo di sussurri riusciranno a fondersi, scrutarsi, scambiarsi di posto, condividendo frammenti del trauma originario, passandosi la propria staffetta grondante pece lungo una marcia di ritorno verso casa che mai si sarebbe potuta affrontare da soli. Mentre il tempo dell’esperimento sembra scorrere al contrario, la casa originaria muta di forma: il suolo si sfalda, le fondamenta cedono, spuntano nubi oltre i vetri delle finestre, l’aria puzza di marcio e cose morte mentre all’esterno si susseguono fotogrammi di giganti senza faccia.
«E così, quando sento che mi sto sbriciolando, ricerco un contatto fisico. Con Siddiq, con Martin. Ci abbracciamo. Colti dall’esterno appariremmo tecnicamente seri, benché dentro di noi risuoni l’estasi più incontrollabile. All’inizio c’è sempre uno strano pudore, un arresto a metà strada, qualcosa che ci frena e che tradisce la meccanica resistenza che abbiamo sviluppato per difenderci. Resistere alla presenza dell’Altro. Ma abbiamo tutto il tempo del mondo, per imparare di nuovo come si fa. Il tempo non appartiene a questa dimensione.»
La catarsi si nasconde nella condivisione, verrebbe da pensare: se non la cura, almeno una tregua. È ciò che chiedono questi corpi profanati da un male che trascende le pulsioni dei propri aguzzini, per farsi altro. Che sia il compagno violento della madre, una famiglia interrotta («Si possiede una famiglia o se ne è posseduti?») o un prete dalla fede storpiata, ciò che si evince nei loro gesti è la manifestazione di un tormento più legato alla morte che alla sessualità.
L’appiattimento del male al cospetto dell’innocenza è cosa ormai nota, mentre l’esaltazione della sua banalità appare ancor più sciatta quando si maschera dietro le false promesse: il depistaggio dialogico che attrae nella tagliola non è un’arte né un mestiere quando il cacciatore non si pone allo stesso livello della sua preda. Comprensibile pertanto che l’accettazione di ciò che è stato non sempre riesca a passare attraverso il perdono: è il caso di Martin, l’unico che da questo viaggio non riesce a trovare conforto smarrendo il contatto con gli altri compagni al cospetto di un nonno monolitico che parla per imposizioni maiuscole.
«L’essenza di questa sorta di guerra sta nel non dimenticare mai quanto si sia arrivati vicini a perderla. Malgrado la vittoria stessa appaia impossibile; sono piuttosto l’assiduità di un com-promesso, la desquamazione dovuta all’addestramento e all’autodifesa, che nel proteggere una cosa inevitabilmente ne portano in superficie il nucleo fragile o indebolito, lo strato sottostante che non fa in tempo a rigenerarsi, prima che un nuovo scontro venga a comprometterne e a distruggerne i vulnerabili equilibri.
Sto per infrangere tutte le regole, le promesse, le buone maniere. Sto per rompere gli indugi.
Perché tutti, tutti noi, traiamo origine e sostentamento da un trauma.»
Mota, eremita letterario, scrive da un punto sperduto sopra le montagne, autore lontano dai salottini forbiti e le foto di gruppo sorridenti con i libri in grembo, in barba ai trend del momento e i canoni dei libercoli perbene, ci consegna un artefatto unico, claustrofobico, dal peso specifico delle pietre rare, cesellato con un linguaggio che sa essere spietato e poetico nello spazio di uno stesso paragrafo.
È un lessico ricercato ma che sa anche essere diretto, esplicito, che non ripudia la maestosità pur quando si cala nella melma e la sua pareidolia prosaica è capace di restituire al lettore l’orrore e la complessità dell’abuso mai come mero espediente narrativo, ma come materia viva, che deforma, muta, prolifera.
La luce Inversa inserisce un nuovo coerente tassello nella collana “Orso Bruno” di un editore che da sempre non rinuncia al rischio e alla sperimentazione, assumendo i contorni di un’opera mesmerica, inclassificabile e inafferrabile, tesa all’interno un limbo liminale dove il pensiero fagocita il corpo, si fa comunità, fallisce, rinasce, divora, rigetta, rigenera e infine cerca – nella condivisione del trauma – la forma di un nuovo io capace di atomizzare il male: un essere dai tratti vagamente umani e lo sguardo di una divinità misericordiosa.