Il mio capolavoro, Gastón Duprat
Camera Obscura

L’amicizia e il suo cerchio. Su Il mio capolavoro di Gastón Duprat

«L’amicizia, questo rapporto senza dipendenza, non episodico e in cui entra nondimeno tutta la semplicità della vita, passa per il riconoscimento dell’estraneità comune che non ci consente di parlare dei nostri amici, ma soltanto di parlar loro, non di farne un argomento di conversazione (o di articoli), ma il movimento dell’intesa in cui, parlandoci, essi conservano, anche nella più grande familiarità, la distanza infinita, quella separazione fondamentale a partire dalla quale ciò che separa diviene rapporto.»
(Maurice Blanchot, L’Amitié, Gallimard, 1971, pp. 328-329).

Arturo Da Silva e Renzo Nervi non sono uguali. Litigano, si maledicono e si giurano addio. Ma nessuno dei due è mai sincero nella sua promessa, né l’uno –  gallerista – né l’altro – pittore – può fare mai davvero a meno dell’alterità che lo incatena, donandogli senso. È forse questo, insieme alle trovate formali mai roboanti che intrecciano cinema e pittura, il pregio principale di Il mio capolavoro (2018) di Gastón Duprat: dire a chiare lettere, e con leggerezza sublime, che amico non è colui che ratifica ogni tuo passo, o che si erge a difensore della tua integrità, ma chi – perso nel tuo stesso vortice ma in un punto diverso (l’arte e la critica, la creazione e il sistema) – tiene lo sguardo fisso su di te, e malgrado tutto ti tende la mano. In Filosophie du contact, piccolo fascicolo postumo pubblicato solo in francese, Giorgio Colli riconosce nella categoria ermeneutica del “contatto” il grande rimosso della tradizione noumenica e metafisica occidentale: accanto a Essere e Tempo, e anzi proprio per salvare queste due categorie dall’ipertrofia dell’astratto che vi si annida, bisogna – dice Colli – aggiungere due paradigmi supplementari: “contatto” ed “espressione”. L’ Essere non rappresenta né richiama né presuppone un contatto, ma è il contatto stesso, semplicemente. «È vuol dire aver avuto un contatto e poterlo esprimere».

Come evidenziano le numerose inquadrature che li posizionano soli e fermi nel mezzo di un ambiente, oltre a essere del tutto privi di legami familiari, Renzo e Arturo sono due persone che affrontano ogni giorno le conseguenze di una singolarità esistenziale “forte”: da una parte l’ipocrisia e lo snobismo tipici del cosiddetto art world, che non permette ad Arturo di instaurare legami autentici (emblematica, da questo punto di vista, la scena in cui nel giro di pochi secondi accoglie pieno di affettazione il critico Aranovich e poi lo insulta pesantemente, solo perchè si è permesso di fare un’osservazione sgradita su un’opera di Renzo esposta in galleria); quanto al pittore, la sua socialità risente pesantemente dell’egoismo e della misantropia spesso tipiche di una personalità artistica autentica. Eppure, anche quando di fatto lo sono, nessuno dei due può dirsi davvero solo. Non tanto perché ogni giorno vedono e sentono altre persone – Renzo i suoi allievi bistrattati, Arturo i critici e il suo entourage di zelanti collaboratori –, ma soprattutto perchè essi «hanno avuto un contatto, e lo possono esprimere». Essere davvero amici, sembra dirci Gastón Duprat, vuol dire abitare senza volerlo un cerchio magico da cui puoi uscire quando ti pare, e che pure rende eterno l’effimero ed effimero l’eterno, seguendoti e facendoti respirare, magari senza che nemmeno te ne accorga, come un’atmosfera – «chiamiamo propriamente contatto anzi solo ciò in cui soggetto e oggetto non si distinguono», scriveva Colli.

Il mio capolavoro, Gastón Duprat

Ma essere uniti vuol dire anche essere separati (o protetti) da tutto il resto. Dal demone meridiano che tutto riveste di «un sottile strato di polvere grigia» (così Renzo alla sua allieva, che si lamenta di non riuscire a trovare la sua vera vocazione), dalle sirene del conformismo e perfino dalla Morale. Trasportati dagli eventi, quasi senza rendersene conto, Arturo e Renzo uccidono. O meglio tentano di uccidere, anche se poi non ci riescono. Per rimanere ricchi e in pace, senz’altro (i due hanno messo in scena la morte del pittore, facendone salire così vertiginosamente le sue quotazioni), ma soprattutto – ed è questo il sottotesto cruciale che rimane velato –, perchè l’equilibrio simbiotico rimanga inalterato. Tutto nel film, come nella vita quando l’amicizia è al suo picco, sembra accadere su due livelli: in sè e come funzione del rapporto – «necessità e contingenza sono congiunte, ma confusamente» (Colli). Ed è proprio questo che Alex, la (non) vittima che li ha scoperti e minaccia di denunciarli, trasposizione letterale della trasparenza scesa in terra, non può capire. Da qui il paradosso narrativo, già visto ma ben giocato, del Bene invertito: sebbene perpetrarti in nome di una giustizia inappellabile, anche a noi che guardiamo le illazioni e i sospetti di Alex appaiono “offensivi” e “inopportuni”, come del resto gli dice a chiare lettere Arturo durante un colloquio.

E poco importa se talvolta in quegli occhi che conosci così bene avverti l’ombra sbiadita dell’interesse personale. Non solo perché sarebbe disonesto pretendere il contrario, ma soprattutto perché non è a questo livello, che è il livello della convenzione e dello scambio sociale, che si gioca ciò che conta davvero. Se da una parte infatti Arturo è l’unico gallerista di Buenos Aires che da vent’anni tratta i quadri di Renzo anche se non si vendono, che sopporta il suo carattere impossibile e lo sostiene economicamente facendosi anche carico delle spese sanitarie dopo l’incidente, egli è allo stesso tempo l’artefice dei suoi guai e il suo sfruttatore. É lui infatti che porta Renzo sulla strada del crimine, è lui che trae i maggiori profitti dalla sua (finta) morte, ed è lui che alla fine gli impone l’avvelenamento di Alex, facendo di fatto dell’amico – che si lascia trascinare –, un complice. Ma è proprio qui, nella naturalezza con cui Duprat ci accompagna oltre la soglia del giudizio, mentre il matter of fact annega nell’assefuazione finzionale del sottotesto, che bisogna riconoscere a mio avviso la forza più grande e la profonda attualità di questo film: tutto – tentato assassinio compreso – non è che un pretesto, una sorta di disumana leggerezza commessa senza trasporto affinchè l’ecosistema del segreto rimanga inalterato.

Il mio capolavoro, Gastón Duprat

«In questo “segreto” tra noi tuttavia», concludeva Blanchot, capace di prendere posto nella continuità del discorso senza interromperlo, «c’era già, al tempo in cui eravamo l’uno in presenza dell’altro, la presenza imminente, sebbene tacita, della discrezione finale, ed è a partire da essa che si affermava serenamente la cautela delle parole amichevoli». Oltre a sostenerlo sempre, Arturo è soprattutto l’unico disposto ad accompagnare l’amico verso il trapasso quando egli si dice stanco di vivere. «Davvero l’avresti fatto?» – gli chiede Renzo quando il gallerista tira fuori il veleno. L’avrebbe fatto, probabilmente, traendone ancor più profitto, se un’altra idea non gli fosse balenata in mente al momento fatidico – quella di fingere la scomparsa del pittore, appunto, e guadagnarci lo stesso. In definitiva, nel Mio capolavoro il pensiero della fine aleggia tra i fotogrammi come una presenza gentile, necessaria ma rimandabile all’infinito. Un’incrinatura appena percepibile, eppure sempre presente.

Nell’ultima scena i due protagonisti sono seduti di fronte al paesaggio dentellato e meraviglioso delle Ande argentine. La veduta è la stessa con cui si apre il film, ma “dal vero” invece che dipinta. A parte l’intensità caleidoscopica delle tinte però, tra le due immagini c’è anche un’altra differenza sostanziale: se ora a stagliarsi di fronte alla veduta montuosa sono le sagome silenziose dei due amici, all’inizio a interrompere la trama dei rosa, rossi e arancio che si intersecavano e fluivano insieme era la silouhette spettrale di un’unica figura nera ai piedi della montagna. Non si capisce se stia incedendo, o se invece sia ferma e come lievemente accasciata su sè stessa, un po’ come Arturo – anch’egli vestito di nero – nell’ultima scena. Chiunque essa rappresenti, a ogni modo, lo scarto che la separa dalla fine è la «dismisura del movimento del morire», la traccia effimera di due vite umane legate in eterno di fronte all’incommensurabile.



Immagini di copertina e nel testo: Il mio capolavoro (2018), Gastón Duprat